Mentre i propagandisti del neoliberismo occidentale si ubriacano di ottimismo guardando alla ritirata russa da alcuni territori ucraini – con toni francamente imbarazzanti anche per l’Eiar dell’epoca fascista – i più attenti osservatori della realtà economica si preoccupano enormemente per il moltiplicarsi di segnali di crisi.
Cui peraltro le principali istituzioni rimaste a presidiare le variabili macroeconomiche – le banche centrali, insomma – rispondono in modo differente, esitante, “a naso”.
Il recente e fortissimo aumento dei tassi di interesse – molto anticipato negli Usa, partito solo ora nell’Eurozona – ha conseguenze molto diverse a seconda del grumo di interessi che orientano lo sguardo.
Dal punto di vista della produzione industriale e dei “servizi” non c’è dubbio che, nel bel mezzo di una fortissima inflazione importata (non dipendente insomma dalle variabili interne al sistema), l’aumento dei tassi di interesse provocherà una recessione di cui già si intravedono le avvisaglie (cala la propensione alle assunzioni da parte delle imprese), se non altro per il costo impossibile dell’energia in ogni sua forma.
Dal punto di vista della finanza, invece, questo stesso aumento significa uno spostamento dei benefici complessivi dai debitori (imprese, famiglie, Stati, ecc) ai creditori (finanza speculativa, banche, ecc).
Gli elementi strutturali posti in evidenza da Guido Salerno Aletta in due diversi editoriali apparsi su TeleBorsa chiariscono al meglio la differenza sostanziale “di sistema” tra Occidente neoliberista e la Cina.
Non perché quanto avviene a Pechino sia una dimostrazione di superiorità del socialismo (spiegazione ideologica che non dice nulla), ma – al contrario – per la superiore capacità di mantenere un ruolo di direzione del “pubblico” rispetto alle dinamiche di un mercato “privato” chiaramente fuori controllo da ormai due decenni.
La lettura degli opposti risultati e delle risposte è decisamente spiazzante per degli ideologi da quattro soldi (stile Rampini, insomma). E non sembra un caso che analisi molto attente ai dati reali appaiano su testate specializzate sulle dinamiche reali del mercato, anziché nella fideistica difesa di un meccanismo che ormai batte in testa.
Buona lettura.
*****
Euro ingestibile, BCE nel panico
Guido Salerno Aletta – TeleBorsa
Le difficoltà del sistema produttivo europeo, ancora fondato sulla trasformazione industriale, ed in generale dell’economia di tutto il Continente, derivano in questi ultimi mesi essenzialmente da un aumento spropositato dei prezzi all’importazione.
Questo aumento spropositato è stato determinato da una forte svalutazione dell’euro, del 20%, essendo passato dal cambio di 1,20 del 1° marzo 2021 alla parità del 1° settembre scorso, rendendo più care della stessa percentuale le importazioni dei prodotti quotati in dollari.
La svalutazione dell’euro rispetto al dollaro è stata a sua volta causata da una fuga dei capitali, attirati dai più alti tassi di interesse in dollari.
La Bce non ha alzato i tassi tempestivamente, evitando così la fuga dei capitali: ha determinato uno scivolamento del cambio, con un aumento rilevantissimo dei prezzi all’importazione che ora alimenta una forte inflazione da costi che si scarica sulle imprese e sulle famiglie, riducendo i redditi reali ed i margini di profitto.
L’inflazione europea dipende dai maggiori costi delle importazioni. Prendendo come esempio la Germania, e fatto =100 l’indice dei prezzi del 2015, a febbraio scorso la rilevazione era stata di 128,6 rispetto al valore di 103,6 del marzo 2021: nel giro di tredici mesi, quindi, in un periodo tutto antecedente l’invasione della Ucraina da parte della Russia, c’era stato un aumento dei prezzi del 25%, che rispecchia in pieno la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro.
Negli Stati Uniti, invece, a febbraio del 2022 l’aumento dei prezzi delle importazioni era stato dell’11,4% rispetto ad un anno prima, per la gran parte dipendente dallo stratosferico aumento dei prezzi dell’import di prodotti energetici dal Canada, con cui gli Usa hanno un interscambio di ammontare analogo a quello intrattenuto con l’intera Unione europea, e che nel maggio scorso è arrivato al +55,7% rispetto ad un anno prima.
Sempre a maggio scorso, i prezzi delle importazioni americane dalla Cina erano cresciuti in un anno solo del 2.1%, e quelli provenienti dalla Ue del 5,7%.
A differenza dall’Unione Europea, la Cina ha aumentato di poco i prezzi delle esportazioni negli Usa perché ha una inflazione molto bassa, appena del 2,7%.
Ed ha una inflazione così bassa perché non ha svalutato lo Yuan: tra il 1° marzo 2021 ed il 1° settembre scorso il cambio sul dollaro è sceso di appena 44 centesimi, passando da 6,46 a 6,90.
Lo scivolamento del cambio euro/dollaro è stato determinato dalla fuga dei capitali verso la valuta americana, per via dei tassi di interesse più attraenti decisi dalla Fed, che ha stretto velocemente la politica monetaria. La penalizzazione degli investitori in euro, soprattutto nei titoli migliori quali quelli pubblici tedeschi, non era più sostenibile.
Cominciamo a vedere l’andamento dei tassi di interesse sui titoli di Stato a 10 anni, paragonando quelli degli Usa a quelli della Germania e quelli dell’Italia.
Considerando l’ultimo decennio, il livello più basso toccato dai tassi di interesse nominali sui titoli federali statunitensi è stato il +0,5%, che è stato toccato nel luglio del 2020, dopo la prima ondata pandemica ed in coincidenza con la forte immissione di liquidità della Fed.
Nonostante i successivi Qe, nel 2012, ancora nel pieno della Grande Crisi Finanziaria globale, il tasso era stato più elevato, con il +1,5%. Dal 2020, il tasso è salito continuamente, arrivando alla fine del mese di agosto scorso al +3,24%.
Nello stesso periodo di tempo, se prendiamo invece i tassi di interesse nominali sui Bund tedeschi a 10 anni, rileviamo che sono stati ininterrottamente negativi dall’aprile del 2019 al marzo del 2022, toccando il livello più basso con il -0,7% nell’agosto del 2019, prima della emergenza pandemica, dopo essere già caduto sotto lo 0% per un breve periodo nel 2016.
A partire da marzo scorso, per via dell’orientamento restrittivo della Bce, c’è stato un continuo rialzo del tasso di interesse, che negli ultimi giorni di agosto scorso ha toccato il +1,5%.
Mentre la Fed non ha mai portato i tassi di interesse dei titoli di Stato in territorio negativo, la Bce ha operato con una enorme insistenza sul mercato, acquistandoli in maniera sostanzialmente proporzionale al peso economico di ciascuno Stato: chi aveva poco debito in circolazione, come la Germania, ha avuto per più tempo i tassi nominali più bassi e pesantemente negativi.
Il Tesoro italiano ha beneficiato della politica monetaria accomodante della Bce, sin dal primo Qe, con i BTP a dieci anni che hanno visto il tasso di interesse scendere considerevolmente: dal novembre 2018, quando era tornato al 3,5%, arrivò allo 0,5% nel dicembre 2020, per poi salire all’1% a gennaio 2021. Il deflusso di capitali verso il dollaro e la fine del PEPP a marzo scorso hanno determinato un aumento dei tassi sui BTP, saliti a razzo, fino a sfiorare il 4% a fine di agosto scorso.
A metà marzo del 2022 la Fed ha cominciato ad aumentare i tassi di interesse portandoli dallo 0,25% allo 0,5%; poi a maggio scorso all’1% ed a giugno all’1,75%. Infine, a fine luglio, li ha alzati ancora al 2,5%.
La Bce è molto più prudente: teme che una forte restrizione monetaria non solo pregiudichi gravemente il ciclo economico, già in difficoltà per via delle questioni energetiche e poi della guerra in Ucraina, ma soprattutto che si scarichi in modo asimmetrico sui titoli pubblici dei diversi Paesi, penalizzando quelli più indebitati, come l’Italia.
Per limitare questa prospettiva, si è tenuta in mano la possibilità di reinvestire in modo libero la liquidità riveniente dalle scadenze dei titoli acquistati con il PEPP.
Il ritardo con cui la Bce sta operando sui tassi ha già creato un danno rilevante, per via della svalutazione dell’euro e dell’aumento spropositato dei prezzi delle importazioni che sta danneggiando le imprese e le famiglie. Il prossimo aumento, previsto a giorni, peggiorerà le aspettative congiunturali.
L’architettura dell’euro si è dimostrata ancora una volta squilibrata e disfunzionale per tutti, a causa delle differenze economiche e finanziarie sottostanti: la Bce non è riuscita in questi anni ad adottare politiche asimmetriche, se non in modo del tutto marginale ed insufficiente.
I tassi di interesse nominali negativi, adottati per la prima volta nella storia finanziaria dalla Bce, sono stati una catastrofe: per i risparmiatori, per gli investitori, per le banche, per le assicurazioni e per i fondi pensione.
Hanno distorto la allocazione dei capitali, stracciato i margini, stravolto le convenienze. Appena ne hanno avuto l’occasione, i capitali sono fuggiti dall’euro per il dollaro, nonostante i fondamentali degli Usa siano meno che brillanti.
Le prospettive per l’economia europea sono ora assai poco rassicuranti. Ci sono scommesse sui titoli di Stato, già puntate al ribasso: tutto purtroppo può accadere, perché i meccanismi di vigilanza e di salvaguardia adottati nello scorso decennio sono disabilitati, dal Fiscal Compact che è stato sospeso al MES che richiede condizionalità estreme non sostenibili in periodi di crisi generale e profonda.
Le sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina stanno creando in Europa condizioni di difficoltà estrema, che sono ad un tempo geopolitiche, economiche, sociali e soprattutto finanziarie: l’alto costo dell’energia e le gravi difficoltà di approvvigionamento non solo spiazzano rispetto alla concorrenza internazionale, ma possono arrivare a far collassare l’euro per le sue contraddizioni mai risolte.
*****
In Cina, al contrario…
Bassa inflazione, cambio stabile, import in flessione ed espansione monetaria
Guido Salerno Aletta – TeleBorsa
C’era chi aveva scommesso, una ventina di anni fa, quando la Cina fu ammessa al WTO sia pure con i vantaggi derivanti dalla qualifica di “Paese in via di sviluppo”, che lo sviluppo caotico derivante dall’apertura al commercio mondiale e la gigantesca mole di investimenti industriali avrebbero destabilizzato il Paese, con la perdita di controllo degli aggregati monetari e finanziari.
L’inflazione elevatissima che ne sarebbe conseguita ed i conti bancari in disordine per via dei crediti irrecuperabili a causa dei default delle imprese, messe in ginocchio dai tassi di interesse alle stelle per contrastare l’aumento dei prezzi avrebbero fatto collassare il regime comunista: chissà se erano previsioni fondate su calcoli razionali, o se si trattava delle mai celate speranze che, alla fine, il mercato avrebbe messo al tappeto chi pensa di poterne dominare le dinamiche.
Fatto sta che la Cina non solo ha superato a pienissimi voti il lungo rodaggio di questi anni, ma che ora ha risultati assai migliori rispetto a quelli dei Paesi occidentali.
In primo luogo, in questo ultimo anno non ha svalutato lo Yuan a differenza di quanto è accaduto per quasi tutte le altre valute, come l’euro che ha perso il venti per cento di valore sul dollaro. Non c’è stata la temuta fuga di capitali che pure era temuta e che si era verificata in anni precedenti: questo perché l’elevata inflazione americana ha comunque penalizzato in termini reali gli interessi pagati sui bond emessi in dollari.
La assai più bassa inflazione cinese, scesa al 2,5% in ragione d’anno ad agosto rispetto al 2,7% di luglio, e le peggiori performance tendenziali dell’economia americana rispetto a quella cinese che comunque è accreditata di un +2,5%, sono un motivo più che sufficiente per tenere in capitali in Cina.
Non avendo svalutato lo Yuan, la Cina non imbarca neppure inflazione per via dell’aumento dei prezzi all’importazione: quelli alla produzione sono cresciuti in un anno del 2,4% ad agosto, in riduzione rispetto al 4,2% di luglio. Una inezia rispetto al +7,9% dei prezzi al consumo in Germania in agosto ed allo stratosferico +37,2% dei prezzi alla produzione registrato a luglio, cui corrispondeva il +19,5% di aumento dei prezzi all’ingrosso.
Sul versante del commercio estero l’export della Cina sta riflettendo l’andamento sempre più debole della domanda internazionale: l’incremento rispetto all’anno precedente si è infatti ridotto dal +18% di luglio al +7,1% di agosto. Le importazioni sono ferme, essendo cresciute solo dello 0,3% rispetto al +2,3% di luglio.
Il saldo commerciale cinese continua ad essere fortemente attivo, mentre in Europa tanto la Germania quanto l’Italia hanno virato in negativo per via dell’enorme aumento dei costi dell’import, in particolare di quello energetico. Inutile rammentare che gli Usa continuano ad avere il saldo commerciale strutturalmente in passivo.
La Cina si sta preparando ad uno shock delle economie occidentali, reflazionando la domanda interna: la Banca del Popolo cinese ha abbassato i tassi di interesse, aumentato la disponibilità di prestiti per le banche e ridotto la quota di detenzione di valuta straniera a copertura.
Mentre in Occidente le banche centrali combattono contro una inflazione a due cifre, alzando i tassi di interesse che piombano l’economia, la Cina si concede la prospettiva opposta di una politica monetaria espansiva.
In Occidente, Banche centrali e Governi hanno perso il controllo delle dinamiche monetarie: il mercato fa come crede e strapazza tutti, cittadini ed imprese.
Insomma, la Cina che avrebbe dovuto collassare per essere incapace di dominare le dinamiche economiche si sta dimostrando in grado di evitare i collassi sempre possibili in un sistema globale caratterizzato da interdipendenze enormi e da variabilità imprevedibili.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Nuccio Viglietti
C’è punto nodale di crash per dollaro e suo sodale da lecco euro… appena questi no sarà più ufficialmente riconosciuto come moneta di scambio globale… diverrà ipso facto carta straccia… finirà immane bluff durato secoli. Danaro in se non vale nulla…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/