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La nebbia del salario minimo

Nel 2014, il dottorando A. Aniasi della Luiss Guido Carli, nell’esaminare la relazione tra salario minimo e disoccupazione, seguendo il sofisticato e suggestivo filone dei modelli matematici applicati all’economia (Econometria), è arrivato alla conclusione che «un provvedimento che aumenti di un dollaro (all’ora) il salario minimo causerebbe mediamente la perdita di 66.614 posti di lavoro». (1)

Una precisione che spacca il capello! Nel ripercorrere i principali studi e la letteratura in tema di rapporto tra disoccupazione e salario minimo, non può ignorare la ricerca di Alan Krueger e David Card, del 1994, Minimum Wages and Employement: a Case Study of the Fast Food Industry in New Jersey and Pennsylvania.

La pubblicazione di tale articolo su The American Economic Review suscitò scalpore negli ambienti accademici, poiché i due autori, utilizzando il linguaggio matematico e statistico, pervennero a conclusioni opposte.

Il modello matematico elaborato, anche se il loro approccio rimase all’interno degli studi empirici, fece sorgere dei dubbi al pensiero dogmatico della corrente economica tradizionale.

I due economisti analizzarono l’implementazione del salario minimo nel New Jersey (da 4.25 a 5.05 dollari all’ora), utilizzando come base campionaria i dipendenti di alcune delle maggiori “catene” di fast-food americane: Burger King, KFC, Roy Rogers e Wendy’s.

I dati sono stati raccolti tramite interviste telefoniche e dalla loro analisi emerse “l’evidenza empirica” che dimostrava che l’aumento del salario minimo non generava un aumento della disoccupazione, ma una leggera diminuzione.

A dire il vero, la legge sul salario minimo vede la luce già nel lontano 1894, in Nuova Zelanda e nel 1896 trova applicazione anche in Australia; l’approdo negli Stati Uniti risale al 1912, in Massachusetts, anche se a livello federale inizia a diffondersi solo ai tempi di F. D.Roosevelt, quando in un suo mitico discorso dice: «nobody is going to starve in this country».

Ovviamente, dietro le trame legislative che ricongiungono i membri del Commonwealth c’è la regia di Sidney and Beatrice Webb, social reformers, active members of the Fabian Society, and cofounders of the London School of Economics. (2)

Tutto ciò per dire che la via anglicana del minum wage precede le cervellotiche elucubrazioni delle facoltà di economia come la Luiss di Roma. E, nel contempo, ammettere che l’inversione di tendenza che delineò il modello di Krueger e Card diede nuova linfa alla politica di Tony Blair, il quale trionfò nelle elezioni del 1997, grazie anche e soprattutto alla campagna sul salario minimo.

Da qui all’Europa continentale il passo è stato breve, tant’è vero che nell’Ue la suddetta misura legislativa è stata introdotta in 21 dei 27 Stati membri: rimangono fuori quei paesi, come l’Italia, dove i minimi tabellari vengono definiti dalla Contrattazione Collettiva.

Fin qui il discorso sembra tutto lineare, non è proprio così: fatta la legge, si scopre l’inganno!

Quando si parla si salario non si può prescindere, a mio avviso, dagli approfondimenti di Marx, con le sue opere, in un’epoca dove gli economisti classici discettano di salario naturale o salario d’equilibrio, ossia quello dato dall’incontro della domanda e offerta di lavoro sul mercato.

L’introduzione di una legge che modifichi tali condizioni d’equilibrio, determinerebbe un aumento artificiale del livello dei salari e di conseguenza anche dei prezzi delle altre merci.

Per Marx il salario non è determinato solo dalle forze di mercato. L’esito del prezzo della forza lavoro subisce l’influenza delle negoziazioni collettive e del progresso tecnico, non lega il salario di mercato a una “legge naturale”, una volontà immutabile che non può essere modificata, esce dal campo della volontà e parla di un salario di mercato che oscilla intorno al salario “normale”.

In Salario, prezzo e profitto, al signor Weston che si oppone agli alti salari, Marx chiede: cosa sono gli alti salari, e che cosa sono dei bassi salari? Perché un salario di 4 euro all’ora è basso e uno di 20 euro all’ora è alto?

Nel rispondere a queste domande, egli asserisce che l’errore del suo interlocutore consiste nel considerare le espressioni di alto e basso come fisse, e di non percepire che «i salari possono dirsi alti o bassi soltanto in rapporto a una misura sulla base della quale viene calcolata la loro grandezza».

Tuttavia, in questa breve riflessione, non mi preme tanto sottolineare che il signor Weston ignori che «il valore del lavoro è la misura generale del valore», quanto osservare che egli utilizzi la questione degli aumenti salariali in modo strumentale, in quanto sostiene che i prezzi delle merci salgono, ogni qual volta incrementano i salari, ma poi aggiunge che a questo valore ipotetico debba essere inserito quello del profitto e della rendita.

In altri termini, in lui, come negli altri sostenitori dell’economia borghese, rimane viva questa visione perniciosa dei “salari alti”, mentre profitti e rendite vengono considerati in via surrogata, sono considerati delle semplici aggiunte percentuali, dato che sono i salari a regolare i prezzi.

In fondo è questo il pensiero dogmatico: essi devono rimanere bassi, altrimenti i prezzi aumentano!

Nel modo di produzione capitalistico, scrive Marx, Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza-lavoro per un tempo determinato (3), ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore.

Il salario, ossia il compenso che ricevono i lavoratori e le lavoratrici, per la riproduzione delle loro condizioni di esistenza, in un determinato periodo e che può variare in base alla situazione economica (prosperità, stagnazione, crisi), non è immediatamente reddito, esso è capitale variabile; lo diventa solo dopo lo scambio, vale a dire quando si chiude il cerchio: la vendita dei prodotti che diventano merci.

Dunque, riposizionando il concetto di salario minimo all’interno della teoria del valore e del plusvalore, emerge un aspetto sorprendente, che schiarisce o dirada la nebbia che avvolge le menti dei fautori di questa corrente di pensiero, la quale include, tra l’altro, anche molti soggetti che continuano a far riferimento al marxismo.

Per semplificare il discorso, io non prenderei in considerazione la complicazione del concetto di reddito svincolato dalla produzione di valore; quindi evidenzierei che Marx, nello specifico, non tratta del salario minimo, inteso come minimo tabellare che il proprietario dei mezzi di produzione deve erogare ai suoi dipendenti, bensì del salario sociale globale della forza lavoro, che corrisponde al capitale variabile nell’ambito del processo di autovalorizzazione del capitale anticipato.

Ebbene, in tale processo, il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i limiti delle sue oscillazioni, intorno al salario “normale”, è uguale già al minimo, in quanto una parte dei prodotti che si trasformano in merci finisce per alimentare i profitti.

Per di più, a determinare il livello dei salari (minimi) sono i disoccupati, nei Manoscritti sul salario, pubblicati postumi nel 1925, Marx esprime il suo pensiero in modo perentorio: se ci sono 1000 operai con la stessa qualifica e 50 di loro sono ridondanti, il livello dei salari è determinato da questi ultimi, non dai 950 che lavorano.

Eh già! Eppur si muove! Nostro malgrado, ci sono anche i disoccupati.

  1. A. Aniasi, La relazione tra salari minimi e la disoccupazione, 2014, https://tesi.luiss.it
  2. Matsaganis, M. (2020) History and politics of the minimum wage, in DAStU Working Paper Series, n. 02/2020 (LPS.09), http://www.lps.polimi.it
  3. K. Marx, Il capitale, libro I, capitolo 21.

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