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La crisi arriva anche nel business social

La crisi alla fine ha colpito anche quel comparto che sembrava inattaccabile. Che, anzi, era sembrata la soluzione ai limiti materiali che producono la crisi.

Il mondo dei social sembrava il paradiso del turbo-capitalismo. Pura intermediazione delle comunicazioni private, entrate pubblicitarie apparentemente inesauribili, una “produzione” bypassata totalmente (i “contenuti” vengono spontaneamente e gratuitamente offerti dagli utenti).

Uniche spese gli investimenti iniziali per costruire la piattaforma dal lato hardware e software, un po’ di stipendi da pagare a ingegneri e tecnici (ma con un rapporto dipendenti/utili che era il sogno di ogni imprenditore del “mondo fisico”; Twitter, per esempio, aveva solo 7.500 dipendenti, con Elon Musk pare stiano diventando 2.000).

Come poteva esserci crisi, con fondamentali di questo tipo?

Tutta “colpa” degli esseri umani reali, da una parte, e della pretesa di esercitare un controllo “politico” sui contenuti spontaneamente prodotti. Una contraddizione in termini, perché i social erano nati proprio con la promessa/possibilità di potersi esprimere in piena libertà.

Quando il controllo minimo si è allargato dal divieto di insulto alle “opinioni politiche” in senso lato, mettendo al centro un pensiero politically correct deciso dalla proprietà del social, il meccanismo si è inceppato. E le entrate sono diminuite…

Simile, anche se diverso, il caso delle piattaforme di vendita (Amazon, ecc), dove l’esplosione dei costi energetici per il trasporto delle merci ha stravolto le previsioni. Qui il “lato fisico” era già presente, ma si pensava di poterlo tenere quasi ai margini del calcolo economico (lavoratori supersfruttati e stipendi basic nelle catene della logistica).

Chissà che sorpresa, per i seguaci di Toni Negri…

In primo piano andrebbe quindi tenuto l’aspetto “antropologico”. La promessa di “libertà” è il fondamento ideologico (falsa coscienza, ricordiamolo) del capitalismo, ed anche la bandiera che giustifica tutte le guerre di aggressione da 75 anni a questa parte.

Sul web questa promessa sembrava realizzata, ognuno era convinto di comunicare peer-to-peer, poteva confrontarsi con chiunque senza dover più soffrire per la propria condizione magari marginale o per l’ignoranza (quanti imbecilli si sentono “alla pari” di scienziati o studiosi di alto livello…).

Poi, una mattina, qualcuno ti dice esplicitamente: se vuoi esser peer devi pagare.

A seguire la puntuale disamina di Guido Salerno Aletta, apparsa su MIlano Finanza.

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Anche nel meta-mondo qualcuno rischia la pensione

di Guido Salerno Aletta

Dopo essere stati a lungo centrali nelle dinamiche della pubblica opinione, dalla comunicazione politica a partire dall’era Trump e nella polarizzazione delle bolle di consenso e dissenso sociale durante la crisi pandemica, i social media stanno attraversando una fase di crisi profonda, stretti nella morsa in cui la libertà inizialmente promessa alla community è stata voracemente cannibalizzata ed i modelli di business si dimostrano sempre meno consistenti.

Accanto a Twitter e Meta, che licenziano dipendenti a migliaia mentre cercano nuove fonti di incasso, anche Amazon sta fronteggiando una caduta verticale del valore di Borsa: i costi della logistica, terminato il privilegio derivante all’e-commerce dalla sospensione delle attività economiche per la crisi sanitaria, sono diventati eccessivamente elevati e riducono violentemente la profittabilità aziendale.

Basati tutti su Internet, sono modelli di comunicazione e di intermediazione commerciale violentemente distruttivi dei mezzi tradizionali ma incapaci di sostituirli in modo economicamente sostenibile. Profilare gli utenti per venderne i dati, ovvero affittare a terzi capacità esuberanti di memorizzazione e di elaborazione sono mestieri di nicchia: soddisfano solo chi ha interesse a governare il consenso, mentre le imprese sono strette tra i costi di gestione ed i mille rivoli della multicanalità commerciale.

Il caso di Twitter è emblematico del ribaltamento del paradigma del “peer to peer”, fondamentale per il successo dei social media in cui gli utenti sono allo stesso tempo produttori e consumatori di contenuti. La svolta è stata rappresentata dalla decisione di escludere Donald Trump dalla piattaforma, colpevole di aver infiammato la folla di sostenitori che, dopo aver partecipato al suo comizio a Washington, avevano invaso il Campidoglio.

Lo stesso è accaduto per Facebook, che ha monitorato attentamente le affermazioni degli utenti in merito all’epidemia di Covid ed ai vaccini: non solo compariva sempre l’invito ad accedere ad un centro di informazioni ufficiali, ma i singoli account eterodossi sono stati oggetto di penalizzazioni e sospensioni.

In entrambi i casi, è stata esercitata una funzione eminentemente editoriale, quella che garantisce alla testata la gestione dell’orientamento e della tendenza dei contenuti pubblicati.

Ci sono state due reazioni: mentre nel mondo dei media tradizionali, soprattutto negli Usa, al calo violento degli ascolti per taluni canali o testate ha corrisposto un aumento per altri con una sorta di ribilanciamento, in quello dei social si sono diffuse in modo incontrollabile le piattaforme alternative e sono proliferati i canali informativi che non trovavano spazio altrimenti.

Questo fenomeno ha reso non più totalizzanti i due colossi, Twitter e Facebook: per voler controllare le opinioni, per gestire le varie forme di consenso o di dissenso all’interno delle loro piattaforme, hanno finito per svuotarle. Hanno trascurato due aspetti fondamentali: la replicabilità tecnologica delle loro piattaforme e la forte permeabilità a campagne di accreditamento e di discredito.

E’ emerso così, in tutta la sua gravità, l’aspetto economico su cui si fonda il valore di Borsa. Per aumentare gli incassi, Facebook sta aprendo a manetta ai contenuti “suggeriti” ed alle pagine “sponsorizzate”, andando ad impiattare sul mercato pubblicitario che è già assai poco florido per i media tradizionali.

Twitter si è invece impegnata su una strada assai più impervia, quella della spunta blu a pagamento, ridotta subito ad 8 dollari al mese, per la identità verificata di chi inserisce un testo o un commento.

Mentre si afferma di voler abbandonare la precedente logica censoria, si cerca di risolvere un problema economico interferendo con le regole sulla accessibilità alla piattaforma: certificare a pagamento una identità significa squalificare le altre, fino a trollificarle.

I sogni di libertà gratuita sui social media si scontrano con la dura realtà economica: o si accetta la pubblicità, oppure chi non paga e non ha la spunta blu non è affidabile, con il peer to peer diventato pay to be peer.

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