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Lo Stato produttore di ultima istanza. Di nuovo…

Più dell’onor potè il digiuno… Estromesso con ludibrio oltre 30 anni fa dalla sfera produttiva, ora si torna ad invocare il ruolo dello Stato come produttore, ossia proprietario e gestore diretto di imprese industriali. A partire da quelle considerate per varie ragioni “strategiche”.

La svolta non è ancora avvenuta sul piano ideologico e “narrativo”. Nei talk show e negli articoli da quattro soldi impazzano ancora i ripetitori impazziti di luoghi comuni neoliberisti, che urlano “sono le imprese a creare lavoro!”, “basta mettere soldi pubblici in imprese che il privato sa gestire meglio”, e falsi clamorosi dello stesso tipo.

Parlando per esempio di Alitalia – o della sua lontana erede, Ita – è di fatto proibito ricordare che era stata privatizzata nel 2008, al termine di una lunga stagione di gestioni scientemente fallimentari, che dovevano ridurne valore e peso internazionale in modo da favorire il suo assorbimento da parte di Air France (per un accordo risalente all’indomani degli accordi di Maastricht).

Quella privatizzazione fallì in pochi mesi, nonostante il dimezzamento degli stipendi e licenziamenti a migliaia, per l’incapacità totale dei “capitani coraggiosi” scovati da Berlusconi (Colaninno, Marcegaglia e altri psudo-campioni dell’imprenditoria nazionale).

Ma i successori arabi di Etihad, che pure non mancavano di soldi e competenza nel settore aereo (oltre che di salari ulteriormente dimezzati e altre migliaia di licenziamenti), non fecero meglio, fino a trascinarci alla situazione attuale.

Ossia con un paese ad alta attrazione turistica (anche per scelte miopi da mentecatti che hanno paura dello “sviluppo economico”), decine di aeroporti ricchi di traffico e nessun vettore nazionale in grado di raccogliere tanto “ben di dio”.

Il problema è però più generale e sistemico. Si è rotta la “globalizzazione” e dunque lo schema che sembrava vincente – privatizzare tutto e accogliere con politiche fiscali di estremo favore qualsiasi capitale internazionale, sia pur piratesco – da qualche tempo non funziona più.

La frammentazione del mondo – da unipolare a multipolare – il proliferare di “sanzioni”, alleanze, nemici reali o putativi, ecc, costringe a guardare il passaporto di chiunque si presenti per “intraprendere” qui da noi, e magari cacciare qualcuno cui avevamo venduto un pezzo decisivo del patrimonio industriale un tempo pubblico (è il caso della raffineria di Priolo, ex Agip, ora in mano ai “maledetti” russi di Lukoil).

Con il capitalismo italiano affetto più di sempre dalla sindrome del “braccino corto” – nessuna voglia di investire e rischiare, preferenza per i monopoli pubblici privatizzati, vedi Autostrade… – certe imprese hanno ormai dimensioni inaccessibili per I “prenditori” privati con passaporto nazionale.

E quindi, tra tensioni di guerra e seri rischi di restare a secco di prodotti indispensabili (dall’energia all’acciaio, ma la lista è lunghissima), è inevitabile che lo Stato sia riproposto, in condizioni di emergenza, come “produttore di ultima istanza”.

Non è un caso. Anche la Bce era stata costruita – persino statutariamente! – per non svolgere più la funzione strategica classica di una banca centrale (il “prestatore di ultima istanza”), nella stolida convinzione ideologica (o servile) che dovesse essere “il mercato” a decidere della vita e della morte sul debito pubblico emesso dagli Stati.

Poi venne la grande crisi finanziaria del 2008, il “socialismo per ricchi” degli Stati che furono obbligati a dissanguarsi (indebitarsi, tagliando altre spese future) per salvare gli speculatori della finanza, che ovviamente hanno usato quelle risorse per speculare immediatamente contro i propri “salvatori”…

Fin quando non toccò al principe del capitale finanziario internazionale, l’ex vicepresidente di Goldman Sachs issato prima al vertice di Banca d’Italia e poi della Bce (e di lì a Palazzo Chigi), pronunciare il famoso “whatever it takes” che restituiva – senza dirlo, ovvero senza cambiare in nulla la struttura della governance monetaria – alla banca centrale (un’istituzione pubblica, per quanto asservita agli interessi del capitale multinazionale) il ruolo di prestatore di ultima istanza.

Ora tocca anche alla produzione industriale. Ma attenzione! Questa spinta alla “nazionalizzazione” non ha nulla a che vedere con finalità sociali o di redistribuzione della ricchezza (che ovviamente deve essere prima, e da qualcuno, prodotta…).

Somiglia molto di più, e maledettamente da vicino, al keynesismo di guerra che quasi un secolo fa spinse nazismo tedesco e fascismo italiota sulla via del “produrre per competere” e quindi all’esplosione bellica.

A voi, intanto, questo articolo apparso, un po’ a sorpresa, su il manifesto.

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Lo Stato produttore di ultima istanza

Il contesto economico globale resta molto incerto. La fiammata inflazionistica sembra stabilizzarsi, si registra un primo rallentamento dei prezzi alla produzione (effetto anche di una domanda debole), le banche centrali non danno ancora segnali di inversione delle politiche monetarie restrittive, anche se si scorgono le prime crepe.

Gli scenari di guerra e le tensioni internazionali non sembrano in via di soluzione, mentre scenari recessivi vengono ipotizzati per questo inverno.

Di certo l’inflazione sta erodendo il potere d’acquisto delle classi popolari e medie, riducendo i debiti e favorendo i profitti. In questo orizzonte difficile emergano attori in grado di adottare politiche strutturali di respiro globale. I principali paesi del mondo si affidano a una logica autocentrata, difensiva. In tale ripiegamento si afferma un ritorno più incisivo dello Stato.

Più incisivo in quanto di una sua ritirata non si sarebbe potuto parlare neppure nella cosiddetta epoca neoliberista. Quando era protagonista nell’attivare e sostenere un modello definito in modo emblematico «keynesismo privatizzato».

Oggi il suo ruolo non può limitarsi a favorire unicamente logiche finanziarie, in quanto emerge l’urgenza di tornare a lubrificare direttamente la sfera produttiva.

Le ragioni sono molteplici. Dal ritorno della geopolitica, con il suo portato di spese militari e produzioni strategiche, fino a necessità più strettamente economiche e sociali. Non a caso tra i temi più scottanti sul tavolo del governo italiano ci sono proprio possibili interventi pubblici per soccorrere l’economia nazionale. Al netto di una certa confusione negli orientamenti politici e di spinte opposte o centrifughe il processo va in direzione di una qualche forma di ripubblicizzazione di alcuni gangli nevralgici.

Il primo è il ritorno dello Stato a ritmi accelerati nelle acciaierie. Il settore rappresenta un polmone per l’industria italiana a cui nessuno vuole rinunciare, ma al contempo i vari esperimenti di privatizzazione, da campioni nostrani (Ilva-Riva) fino ad arrivare alla grande multinazionale euro-indiana (AcelorMittal), hanno fallito.

Il secondo caso è il fascicolo Ita, ex compagnia di bandiera. Società che ha vissuto ripetuti passaggi di proprietà, anche in questo caso da cordate italiane a una Compagnia mediorientale, rimanendo in uno stato di crisi permanente tale da renderla in svendita continua.

Qua giocano fattori territoriali e nazionali, Milano o Roma, privata o pubblica. Certo che i grandi operatori europei (tedeschi e francesi in primis) ne abbasserebbero il rango, finendo per farle perdere il ruolo di compagnia di bandiera e indebolendo gli aeroporti italiani.

Per tale motivo il governo pare intenzionato a recuperare un ruolo da protagonista per le ferrovie italiane (Fs).

Infine c’è la raffineria di Priolo a Siracusa, un impianto che attualmente è in mano a una società russa, Lukoil, e che rischia la chiusura in relazione alla decisione europea di embargo ai prodotti russi. L’impianto garantisce il 20% della capacità di raffinazione per l’Italia.

Anche questo polo industriale assume un valore centrale per l’economia nazionale in tempi di crisi energetica. La soluzione che va prendendo campo è quella di un intervento pubblico per rilevare il 100% della proprietà, sulla falsariga di quanto accaduto in Germania con un’azienda riconducibile a Gazprom.

A ciò si può aggiungere il fatto che, in considerazione delle difficoltà registrate, il ritiro dello Stato da Monte dei Paschi dirada le sue tempistiche, lasciando in mano pubblica il quarto gruppo bancario italiano.

Da una parte il Governo rilancia il suo profilo liberista (non disturbiamo chi produce) dall’altra deve necessariamente intervenire proprio nelle attività produttive.

Il paese si avvia a recuperare una funzione statuale in economia come non si vedeva da tempo. Una tendenza che va affermandosi anche a livello internazionale. Qualcosa vorrà pur dire.

* da il manifesto

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