Tra gli amori che non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano, va annoverato senza dubbio quello tra la classe politica italiana e la precarizzazione del mercato del lavoro.
Da ormai un trentennio, come abbiamo più volte ripetuto, i governi di tutti i colori, in piena ottemperanza delle direttive europee, si sono prodigati nell’introduzione di varie forme di precarietà, che si cristallizzano nel facilitare la sottoscrizione di contratti a tempo determinato, nella progressiva eliminazione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nella legalizzazione dell’intermediazione privata tra domanda e offerta di lavoro (leggasi, agenzie interinali).
Questa infausta storia, iniziata con il pacchetto Treu nel 1997, vede senza dubbio una pietra miliare nel Jobs Act, parzialmente modificato dal Decreto Dignità. Ora, in maniera non sorprendente, il nuovo Governo sembra intenzionato ad agire di nuovo nel senso di un ulteriore inasprimento della più sfacciata ed estrema precarietà.
Ripercorriamo brevemente i recenti sviluppi di questa sventurata vicenda.
Il Jobs Act, la famigerata riforma del mercato del lavoro del Governo Renzi, tra il 2014 e il 2015 si è adoperata nella più grande trasformazione delle regole del mercato del lavoro italiane dai tempi dello Statuto dei Lavoratori. Si tratta, naturalmente, di trasformazioni di segno chiaramente opposto, essendo il Jobs Act il manifesto della precarizzazione.
Sul fronte dei contratti a tempo indeterminato, accanto ad una serie di regali sotto forma di sgravi contributivi per le imprese che assumono giovani, si compie un primo capolavoro.
Il vecchio contratto viene sostituito dal cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, che in poche parole vuol dire che in caso di licenziamento senza giustificato motivo il lavoratore non verrà reintegrato (come era previsto dall’abrogato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori) ma “indennizzato” per un ammontare di denaro commisurato alla durata del rapporto di lavoro stesso (e fino ad un massimo di 24 mensilità).
Si tratta di fatto della precarizzazione anche del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto diventa estremamente conveniente, per il datore di lavoro, sbarazzarsi del proprio dipendente qualora non dovesse più fargli comodo.
Al di là della logica economica, questo provvedimento rappresenta un altro tassello fondamentale del progressivo indebolimento della capacità conflittuale della classe lavoratrice. Di fatto, con un semplice indennizzo, il datore ha la possibilità di liberarsi dei lavoratori e delle lavoratrici più conflittuali, più sindacalizzati e meno allineati.
Interventi estensivi vengono effettuati, però, anche nel campo dei contratti a tempo determinato: i precari per eccellenza. Mentre prima del Jobs Act un contratto a termine poteva essere stipulato soltanto in presenza di una comprovata motivazione – legata ad esempio a particolari esigenze produttive del datore di lavoro – i Decreti Poletti eliminano qualsiasi forma di causale.
In parole povere, si legalizza la possibilità di offrire un contratto precario indipendentemente da tutto. Inoltre, veniva prevista la possibilità di stipulare questo tipo di contratti fino ad un massimo di 36 mesi, e fino a cinque rinnovi.
In linea teorica, quindi, un datore di lavoro avrebbe potuto offrire – senza l’obbligo di addurre motivazioni plausibili – un contratto di sette mesi e poi rinnovarlo per ben cinque volte.
Il Decreto Dignità, approvato dal Governo giallo-verde nel 2018, aveva molto parzialmente e marginalmente messo mano a questo scempio, senza tuttavia alterarne la logica, riducendo la durata massima di un contratto precario da 36 a 24 mesi e reintroducendo l’obbligo di motivazione per tutti i contratti con durata superiore ai 12 mesi.
Arrivando ai giorni nostri, pare che il Governo Meloni voglia ambire allo scettro di Governo più liberista del secolo e restaurare i fasti del Jobs Act. Secondo quanto riportato da alcuni recenti articoli, infatti, il Governo sarebbe intenzionato ad agire sulla causale.
In sostanza, si vorrebbe allungare da 12 a 24 mesi la durata di un contratto a tempo determinato sottoscrivibile senza causale, lasciando inoltre alla contrattazione la possibilità di prevedere un’ulteriore estensione di 12 mesi, per un totale, dunque, di 36. La regola generale, tuttavia, dovrebbe essere l’assenza di vincoli per le assunzioni fino a due anni.
E c’è di più: tre le tante ‘cortesie’ fatte a padroni e padroncini, il Governo Meloni, per mezzo della legge di Bilancio 2023, ha reintrodotto la possibilità di ricorrere ai famigerati voucher per alcune tipologie di lavori occasionali.
Si tratta di particolari strumenti di retribuzione che, pur comprendendo dei (minimi) contributi pensionistici, non danno diritto a nessuna forma di sostegno al reddito, quali i sussidi di disoccupazione, la malattia, gli assegni familiari, e rappresentano una forma contrattuale iper-precaria.
Ma perché tanta attenzione alle forme contrattuali, in un paese che è capofila nella precarizzazione dei rapporti di lavoro?
E perché tanta dedizione nel liberalizzare i contratti precari, in un Paese che ha segnato, nell’estate del 2022, il massimo storico di lavoratori con contratto a termine, e in cui il 35% dei nuovi contratti stipulati nel 2021 era precario?
La ricerca scientifica ha ormai smentito qualsiasi efficacia della flessibilizzazione del mercato del lavoro nel favorire un aumento dell’occupazione. Il nostro paese, tra l’altro, ne è un esempio lampante.
Se si considera l’indicatore OCSE che descrive il grado di flessibilità del mercato del lavoro, si noterà che nessun altro paese ha visto ridursi così tanto le tutele per i lavoratori e le lavoratrici quanto l’Italia.
Ciononostante, l’Italia è fanalino di coda per i bassi livelli del tasso di occupazione e gli alti livelli di disoccupazione.
Ciò è dovuto alla cronica carenza di domanda di lavoro, affossata dall’austerità imposta dalle regole europee e a cui i nostri governanti hanno pedissequamente ottemperato.
Mettere mano però alle tutele dei lavoratori ha certamente un’alta efficacia nell’indebolirne la conflittualità e le rivendicazioni salariali in primo luogo.
In un periodo in cui l’inflazione morde come non mai il potere d’acquisto degli stipendi di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici, una nuova ondata di precarietà non ne migliorerà le occasioni occupazionali, ma sicuramente ne peggiorerà la possibilità di richiedere contratti migliori e meglio pagati.
È questa, dunque, la posta in gioco: dotare i padroni di ulteriori armi per difendere i propri profitti e assicurarsi che a pagare il prezzo del carovita siano sempre i soliti.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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