Dopo anni e anni di scomparsa, la ripresa post-Covid e lo scoppio della Guerra in Ucraina hanno riportato sulla scena una vecchia conoscenza dei lavoratori: l’inflazione.
Dopo il picco del 12% su base annua raggiunto nel terzo trimestre del 2022, a maggio 2023 l’Istat ha rivisto l’inflazione un po’ al ribasso calcolando un aumento percentuale dei prezzi, rispetto a maggio 2022, di un comunque considerevole 7,6%. L’inflazione continua a galoppare sebbene su livelli meno estremi rispetto allo scorso anno.
A fronte di questo i salari nominali non decollano e vedono aumenti molto più contenuti di quelli dei prezzi. Considerando l’andamento dei salari monetari lordi per ora lavorata, nel 2022 si è osservata una crescita pari a circa il 3%, ma nello stesso anno, per via di un aumento dei prezzi del 9%, i salari reali hanno segnato una caduta drammatica pari a circa il 6% (dati ISTAT).
Ciò significa che mediamente i lavoratori italiani hanno perso il 6% del potere d’acquisto del proprio salario. Un impoverimento di grave entità che ha ed avrà conseguenze socioeconomico dirompenti.
Peraltro, dietro le già drammatiche proporzioni dei numeri ufficiali, si celano dettagli che mostrano una situazione ancor più preoccupante.
Avevamo avuto modo di spiegare recentemente come la contrattazione salariale avvenga sulla scorta di un particolare indice dei prezzi – il cosiddetto IPCA – depurato dalla componente energetica importata.
Detto in parole semplici, significa che dall’inflazione complessiva si elimina una parte stimata e riferita al gas e al petrolio importato e si ottiene un certo indice, in generale inferiore a quello “lordo” (cioè comprensivo anche dei beni energetici importati).
Questa metodologia porta con sé due storture a svantaggio dei lavoratori: la prima è che quest’indice, l’IPCA depurato, essendo più basso di quello effettivamente riferito ai prezzi che i lavoratori e le lavoratrici si ritrovano nel carrello della spesa rappresenta una base di partenza per la contrattazione salariale più bassa di quella che servirebbe per tutelare il potere d’acquisto dei salari.
La seconda è che l’IPCA depurato dai beni energetici importati non rientra tra gli indici forniti dall’ISTAT mensilmente, ma viene diramato a cadenza annuale. Nel mese di giugno, l’ISTAT pubblica le previsioni per il triennio e aggiorna quelle dell’anno precedente, di solito abbassandole di pochi decimali.
Ciò significa che, ad esempio, i rinnovi dei contratti collettivi che avvengono a dicembre di un certo anno si baseranno su un tasso di inflazione, da cui non solo sono stati artificialmente esclusi alcuni beni, ma che si riferisce ad un periodo antecedente a quello della contrattazione.
Se tuttavia, l’anno successivo l’inflazione viene rivista al ribasso, può accadere che i salari ne risentano meno del previsto.
Nel giugno del 2023 si è tuttavia verificata un’eccezione di non poco conto. L’inflazione valida per la contrattazione salariale, riferita al 2022, è stata rivista al rialzo (6,6%) rispetto a quella con cui sono stati contrattati i rinnovi contrattuali fino a questo mese.
Nessun contratto collettivo, ad eccezione di quello dei metalmeccanici, risentirà di questo aumento poiché nessuno prevede l’adeguamento alle revisioni dell’IPCA depurato.
Al contrario, l’IPCA depurato della componente energetica nel 2023 è cresciuto di più di quello lordo per via di un naturale ritardo nella trasmissione dell’aumento dei costi energetici nei prezzi dei beni al consumo.
Ciò vuol dire che l’aumento vertiginoso avvenuto nei prezzi dei beni energetici tra il 2021 e il 2022 e poi rallentato continua a palesarsi, un anno dopo, nell’andamento dei prezzi dei beni di consumo.
Dietro a questi apparenti tecnicismi si celano le dinamiche del conflitto distributivo, che prende oggi la particolare forma storica che nel nostro paese ha dominato la scena negli anni ’70-’80: quella cioè dell’inflazione come arma per tutelare i profitti a discapito dei salari.
In quegli anni, tuttavia, la forza dei sindacati e il meccanismo normativo della scala mobile (indicizzazione automatica dei salari nominali alla dinamica dei prezzi) consentivano ai lavoratori di difendere il valore dei salari rincorrendo a colpi di aumenti contrattuali la dinamica dei prezzi.
Oggi, dopo tre decenni di drastico indebolimento dei sindacati e privati di ogni meccanismo di indicizzazione automatica dei salari ai prezzi, i lavoratori subiscono senza anticorpi uno dei peggiori attacchi della storia recente alle proprie condizioni salariali e di vita.
Per ricostruire quegli anticorpi serve, in primo luogo, la comprensione dei meccanismi espliciti e impliciti che portano alla perdita di potere d’acquisto dei salari; in secondo luogo, l’acquisizione di una coscienza che riattivi, dal basso, il conflitto distributivo nel nostro paese per invertire il processo di redistribuzione regressiva del reddito che prosegue ormai da oltre trent’anni.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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Francesco Pelullo
La coscienza riattivata dal basso, richiede un sindacato serio, che non pensa soltanto ai loro affari, manca una forza politica degna di questo nome.
ricordo bene, eliminazione scala mobile, la triplice (sindacati conferali ) . hanno fatto ben poco.
sindacato filogovernativo da 30 anni.
secondo la mia modesta opinione andrà sempre peggio.
Sanita, scuola servizi vari…
nonostante il disastro della pandemia
gli italioti hanno premiato il peggior governo dal 48 in poi.
giorgino
quando gli economisti borghesi dicono che bisogna aumentare la produttività per aumentare il potere di acquisto dei lavoratori, omettono di dire che poi intervengono fattori, es inflazione, che svalutano il salario riportandolo al livello della mera riproduzione della forza lavoro. E che proprio per questo, aumenta la parte della giornata lavorativa non pagata a chi lavora. Solo la lotta di classe paga, di per sé la tecnologia e gli incrementi di produttività aumentano l’ oppressione del capitale sul lavora. Spiegatelo ai sindacati concertativi.