Il 20 ottobre è stato pubblicato un approfondimento su lavoce.info a firma di Daniele Checchi e Tullio Jappelli, due economisti che oggi sono a capo del Centro Studi dell’INPS, il primo, ricercatore presso il Center for Economic Policy Research il secondo.
I dati che allineano immortalano un’Italia in condizioni terribili, e può essere utile riassumerli e commentarli.
Negli ultimi trent’anni il nostro paese ha vissuto quattro pesanti momenti di crisi, cui non è mai seguita una concreta ripresa. L’adesione al Trattato di Maastricht con tutti i vincoli derivati, il crollo finanziario del 2007-2008, la crisi dei debiti sovrani e la pandemia di COVID-19 sono questi spartiacque, che hanno avuto due effetti, collegati in un circolo vizioso.
Da una parte, vi è stata l’assunzione progressiva di una posizione più debole nella divisione internazionale del lavoro, con una borghesia che vive di sussidi, non investe e difende i profitti con lo sfruttamento intensivo.
Dall’altra, proprio tramite quest’ultimo (precarizzazione, lavoro sottopagato, peggioramento delle condizioni di lavoro) i costi delle crisi sono stati scaricati sui settori popolari.
In questi tre decenni, le ricette politiche hanno previsto una maggiore flessibilità nella regolamentazione, una frammentazione degli orari di lavoro e una crescita di forme di lavoro part-time.
Il risultato di queste scelte è stata un’insignificante crescita della produttività e salari reali in regressione, soprattutto con l’inflazione e gli alti tassi di interesse degli ultimi mesi.
La domanda di ore lavorate non è aumentata, ma sono aumentate le posizioni con bassi salari: l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro è servito solo a “spalmare” una quota di reddito in diminuzione su una base sociale leggermente più ampia.
Ciò si è tradotto nell’esplodere delle disuguaglianze reddituali, con l’Italia ai primi posti tra i paesi OCSE per questo record negativo.
Le serie storiche mostrano che negli anni Settanta e Ottanta le disuguaglianze si erano ridotte, e questo perché una conflittualità sociale intensa aveva fatto da motore per un miglioramento della situazione collettiva.
Con gli anni Novanta esse sono tornate ad ampliarsi, accelerando poi con la riforma Treu del 1997, quella Biagi del 2003 e il Jobs Act di Renzi del 2015.
Considerando la posizione reddituale, dal 1990 la metà inferiore della distribuzione ha registrato un calo significativo delle retribuzioni reali, mentre quelle della metà superiore, seppur modestamente, sono cresciute di mezzo punto percentuale annuo.
A ciò si deve aggiungere anche una sempre più limitata mobilità del reddito infra-generazionale: viviamo in una società immobile e incastrata nella crisi, con i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
Ma quel che è interessante notare è che due di questi shock economici sono strutturalmente legati alla costruzione dell’Unione Europea.
Sono le regole di questo edificio imperialistico che hanno dettato i ritmi e le modalità del concentramento e della centralizzazione dei capitali continentali; e in Italia, ultima dei primi, tutto il peso di questi passaggi è stato riversato sulle fasce popolari.
Eppure, nonostante lo scotto pagato dai lavoratori di tutta Europa – dove più, dove meno – Bruxelles è il centro di quello che è ancora un vaso di coccio tra vasi di ferro. Per di più, incapaci di spostarsi dal modello fallimentare export-oriented della Germania, il ripristino del Patto di Stabilità segnerà un altro giro di vite nel tentativo sempre meno credibile di affermarsi come attore globale autonomo.
Questo è il momento per modellare il profilo di un’alternativa sistemica ai vincoli euroatlantici, dunque non solo a quelli da garrota economica dei trattati europei, ma anche quelli militari (con ripercussioni sulla politica estera e su quella interna) della NATO.
Le piazze contro la guerra, in particolare quella del 4 novembre, saranno importanti momenti per agire in piazza questa alternativa.
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