La neocandidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti Kamala Harris ha proposto di promulgare la prima legge federale contro i prezzi gonfiati (“price gouging”) dall’industria alimentare al fine di ridurre il costo della vita nel paese.
In un discorso tenuto lo scorso venerdì 15, Harris ha sottolineato che il costo dei generi alimentari è aumentato del 25% dal gennaio 2020, facendo notare che alcune imprese stanno registrando profitti record.
Per esempio, una pagnotta di pane costa oggi in media circa il 50% in più rispetto a prima della pandemia. In particolare, la candidata dem ha dichiarato di voler colpire le imprese che non “rispettano le regole” aumentando illegalmente i prezzi.
Cos’è il “price gouging”?
Con questo termine, traducibile in “innalzamento ingiustificato dei prezzi”, si intende una pratica predatoria delle imprese che applicano prezzi eccessivamente alti su prodotti che, soprattutto a causa di qualche evento straordinario, diventano scarsi (pensiamo alle mascherine nella primavera del 2020).
Per identificare il fenomeno, secondo il Public Interest Research Group i prezzi eccessivamente alti sono quelli pari al 20% o più del costo medio di un articolo rispetto al periodo precedente.
La situazione legale negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti, l’unica legge federale esistente contro il “price gouging” mira a prevenire gli extraprofitti delle imprese in tempo di guerra o in altre emergenze nazionali. La legge tuttavia non quantifica in modo chiaro un prezzo eccessivo.
A livello statale invece sono 34 gli Stati che hanno in vigore una qualche forma di legge contro le frodi sui prezzi.
L’inflazione picchia duro
Il rincaro dei generi alimentari è uno dei principali problemi per chi vive negli Stati Uniti. In un sondaggio del 2023, Yahoo Finance/Ipsos ha rilevato che due terzi degli intervistati hanno indicato nel carrello della spesa il settore in cui l’inflazione colpisce più duramente.
In un paese dalle forti diseguaglianze e ad altissimo tasso di inattività della popolazione – circa 100 milioni di abitanti non hanno e non cercano un lavoro (fattore che aiuta a tenere “statisticamente basso” il tasso di disoccupazione) –, una crescente fetta di popolazione fatica sempre più ad acquistare cibo che non sia spazzatura, a curarsi e a mantenere un tetto sopra la testa.
Il fronte del no alla legge federale
“Ci sono molte ragioni per l’alta inflazione che abbiamo sofferto negli ultimi anni, ma le pratiche di prezzo aggressive o sleali sono in fondo alla lista delle ragioni, se ci sono”, ha detto Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics.
Secondo Michael Strain, direttore degli studi di politica economica dell’American Enterprise Institute (AEI), l’impennata dei prezzi dei generi alimentari “è per lo più un risultato del mercato. È probabile che le aziende abbiano visto aumentare la loro capacità di aumentare i prezzi praticati, ma non vedo nulla che possa essere definito ‘price gouging’”.
Mercoledì sono arrivate anche le proteste da parte delle imprese dell’industria alimentare direttamente sul Wall Street Journal, le quali respingono le affermazioni secondo cui i consumatori vengono truffati e si oppongono al piano della Harris.
I limiti del dibattito
Che nel centro imperialista per eccellenza si discuta di una legge che in qualche modo incida sulla formazione dei prezzi in un settore essenziale come quello alimentare è un segno delle turbolenze economiche che attraversano gli Stati Uniti.
La proposta della Harris ovviamente non parte “a monte” dal controllo dei prezzi dei generi alimentari, ma nel solco della teoria neoliberista mira a favorire la concorrenza nel settore per aumentare l’offerta di prodotti sul mercato e offrire ai consumatori maggiore scelta, limitando così, secondo la teoria, la capacità delle aziende di fissare prezzi a piacimento.
Dalla nostra prospettiva, è bene ricordare che in un sistema capitalista l’aumento generale del costo della vita non è dato dal rincaro dei prezzi di un singolo settore, ma delle “leggi generali” del movimento dell’intera economia orientata all’accumulazione: in primis il tasso di profitto, che incide su propensione all’investimento, livello di produzione e tasso di occupazione.
I prezzi in realtà, specialmente di beni così internazionalizzati come quelli alimentari, sono fissati dalla produzione e dalla distribuzione di valore (lavoro) tra economie e settori con diversi livelli di produttività.
Nel capitalismo, il controllo dei prezzi invece ha spesso inciso sulla più sulla produzione che sul consumo, causando carenze o recessioni.
Al contrario, per supportare i bisogni della popolazione tramite il controllo dei prezzi il sistema economico richiederebbe la proprietà-controllo pubblico sugli investimenti e sulla produzione, almeno per i settori strategici come avviene in Cina con il Partito comunista.
Ma di questo, negli Stati Uniti, è meglio non parlarne.
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