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L’ossessione per i conti pubblici e cosa rende davvero un paese “solido”

A partire dagli anni Ottanta, e soprattutto dalla crisi europea dei debiti sovrani del 2011, che portò alla caduta del governo Berlusconi IV e all’avvento del governo Monti, il dibattito pubblico sulla politica economica si è concentrato su un solo obiettivo: garantire a tutti i costi e senza compromessi la solidità dei conti pubblici, pena il rischio della “fuga di capitali” e l’inevitabile bancarotta dello Stato.

Questa narrazione che a volte ha assunto tratti maniacali, incontestata da tutto l’arco parlamentare, dall’estrema destra al centrosinistra, e accettata anche dalla Triplice sindacale (CGIL-CISL-UIL), ha legittimato misure draconiane di brutale macelleria sociale, dalla riforma Fornero delle pensioni fino alla lunga serie di tagli lineari alla spesa pubblica che proseguono ancora oggi.

Il modello da seguire era la Germania: il Paese-formica per eccellenza, che con una gestione dei conti pubblici considerata impeccabile è riuscito a registrare avanzi di bilancio anno dopo anno fino al 2020 e che, anche dopo gli ultimi anni di turbolenza, registrerà a fine 2024 un deficit di appena il 2%, in linea con i parametri di Maastricht, e un debito pubblico del 63% del PIL. Unico paese in Europa, praticamente…

Eppure, a fronte di conti indiscutibilmente “in ordine” secondo gli standard dei trattati, non tutto è sotto controllo a Berlino, poiché l’economia tedesca è impantanata in una recessione dal 2023, senza soluzioni all’orizzonte.

La crisi del modello Germania fa cadere uno storico caposaldo risalente alla nascita dell’euro. Il bund tedesco (l’equivalente dei nostri Btp, ecc), da sempre bene-rifugio per antonomasia e simbolo di sicurezza nelle fasi di maggiore turbolenza sui mercati finanziari, ha visto il proprio rendimento – per la prima volta dall’introduzione dell’euro – salire oltre quello dell’Interest Rate Swap (IRS), un indicatore di attività prive di rischio.

Il tutto mentre a Berlino si sgretolava definitivamente l’alleanza di governo, aprendo la strada a elezioni anticipate (evento decisamente raro in Germania). Anche qui i conti pubblici c’entrano, ma solo indirettamente: la dissoluzione dell’alleanza di governo è infatti in gran parte frutto della disputa sulla gestione dei vincoli di bilancio inseriti in Costituzione, visto che per uscire dalla recessione Berlino dovrebbe poter spendere molto più del “lecito”.

Queste turbolenze politiche hanno avuto un effetto sui mercati finanziari, provocando un deprezzamento del bund, in aggiunta a una tendenza già in atto da settimane. Nemmeno nei periodi di maggiore tensione, come la crisi finanziaria del 2007-2008 o la pandemia COVID-19, era mai successo che il bund rendesse più dell’IRS (per le obbligazioni, se il prezzo scende aumentano gli interessi da pagare, e viceversa).

Da questi avvenimenti si può trarre una lezione importante: non esiste nessun collegamento meccanico tra deficit e rendimento dei titoli di Stato. Pur essendo insensato negare in blocco una relazione tra il prezzo delle obbligazioni e le condizioni di bilancio, il requisito davvero importante – se si parla di attrarre il capitale internazionale – è la stabilità politica e la prevedibilità dell’ambiente economico (ogni investimento prevede condizioni stabili in un determinato orizzonte temporale).

Questo è il motivo per cui, nonostante un debito appena al 60% del PIL, il bund tedesco sta attraversando un momento difficile. In questo senso, i venti di guerra cavalcati irresponsabilmente da quasi tutti i governi europei, uniti agli sviluppi interni della politica tedesca, hanno fatto saltare il tavolo.

A questo punto, sorge una domanda: è veramente una politica “responsabile” quella di mantenere sempre il freno a mano tirato sul fronte dei conti pubblici, a prescindere dal contesto e dalla fase storica, senza considerare i costi in termini di aumento della povertà, instabilità politica e distruzione del tessuto produttivo?

O forse si tratta piuttosto di una fissazione, di un’”ossessione ideologica” che in realtà obbedisce ad interessi molto ristretti (il grande capitale finanziario), e la vera “responsabilità” consiste nello sviluppo di una politica economica più laica, pragmatica, che tenga conto della situazione corrente e che punti a rilanciare lo sviluppo più che a disciplinare i conti?

Non prendiamoci in giro: lo sappiamo che la gabbia dei trattati europei è stata costruita con finalità politiche e finanziarie, non sulla base di una “razionalità economica”. Serviva a riorganizzare le filiere produttive continentali, e per un bel po’ di anni ha funzionato bene per questo obiettivo.

Ma oggi l’incapacità di saper immaginare strade nuove, dopo aver imbevuto l’opinione pubblica con un mantra privo di basi, sta diventando il freno principale, nel Vecchio Continente, a qualsiasi alternativa.

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