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I dazi di Trump, la fossa dell’Occidente

Un anticipo della tempesta sul mercato mondiale. Donald Trump non è ancora entrato nella Sala Ovale della Casa Bianca, ma ha già dato una scossa alle poche certezze che ancora sopravvivono sui mercati. Non bastavano due guerre al limite dell’esplosione nucleare – quelle principali, almeno, ma ce ne sono altre in giro – ora bisogna per forza aggiungere al calcolo quelle tariffarie tra tutti i principali paesi del mondo.

In un post sul suo social Truth, il presidente eletto avverte che già a gennaio, appena insediato, intende applicare i nuovi dazi. Del resto la sua priorità era stata più che chiaramente illustrata da quando è “sceso in politica”: America First, e chissenefrega degli altri.

L’aveva detto anche in occasione della sua prima elezione, ma allora non aveva una maggioranza in entrambe le Camere e dunque era stato un cavallo pazzo, sì, ma con le briglie legate alla staccionata dell’establishment stelle-e-strisce.

Ora non ha più quei limiti (interni agli Usa) e quindi lancia i suoi ukaze in forma ancora solo mediatica, tanto per saggiare le reazioni. Quelle dei “mercati” in primo luogo, perché è forse uno dei  “poteri veri” che sa bene di non poter controllare.

La prima salva di missili è stata quindi caricata con la promessa di imporre dazi sulle importazioni dall’estero, come più volte promesso. Stavolta ha anche quantificato, con cifre che sono riuscite a sorprendere: +25% su quel che arriva da Canada e Messico, paesi confinanti con cui lui stesso – nella prima presidenza – aveva stretto accordi commerciali apparentemente “eterni”, e un ulteriore +10% su quelle cinesi (già pesantemente gravate da altre decisioni simili, sia sue che di Biden).

Conseguenze immediate: calo del peso messicano, nuovo indebolimento dell’euro, botta secca per la borsa di Tokyo (ma non su quelle cinesi), turbolenze pesanti su tutti i mercati, compresa Wall Street, titoli dell’auto in picchiata.

Allucinanti alcune delle ragioni poste a base di questa scelta, che dovrebbe entrare in vigore già dal primo giorno (il prossimo 20 gennaio): per quanto riguarda Messico e Canada «finché la droga, in particolare il Fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese».

Per quanto concerne la Cina, invece – da colpire con “appena” un 10% in più, dopo aver promesso un +60% (ma sulle auto c’è già un 100%) – critica Pechino per non aver rispettato le promesse di imporre la pena di morte per le persone che spacciano il Fentanyl (chissà se cambierà anche la “narrazione” democratica occidentale, che fin qui ha attaccato Pechino perché prevede ancora la pena di morte – come gli Usa, peraltro).

Come si vede si tratta di un “pacchetto” economico-politico alquanto bizzarro, con cui The Donald prova a coprire una serie di problemi per cui non ha alcuna soluzione concreta positiva, ma si limita a “scaricare” sul resto mondo – senza più neanche troppo distinguere tra “alleati” e “nemici” – le sciagure interne agli Usa.

Almeno sul piano della propaganda. Perché certamente i cittadini statunitensi possono fare a meno di auto elettriche cinesi o droghe sudamericane (bisognerebbe chiedersi però – ma per Trump è forse troppo, potrebbe spiegarglielo Elon Musk – perché gli Usa sono diventati un’idrovora di cocaina et similia), ma non del petrolio canadese o messicano (glielo ha già fatto notare Ottawa, ricordando che le importazioni canadesi di prodotti americani sono una componente imponente del commercio Usa).

Per quanto riguarda il fentanyl, invece, trattandosi di un oppiaceo base per la produzione di antidolorifici da sala operatoria, possiamo scommettere che la “guerra” non avrà grandi effetti concreti. Qualche maxi-sequestro qua e là, magari, ma il malessere sociale che trova soluzione nelle tossicodipendenze non diminuirà per i dazi.

Ancora una volta sarà però l’Europa a soffrire maggiormente l’innalzamento dei prezzi al consumo per i prodotti importati negli States. Già il confindustriale Sole24Ore lancia l’allarme delle imprese. “Si scrive Messico ma si legge Italia”, svelando un segreto di pulcinella: molti dei prodotti “made in Italy” esportati lassù vengono prodotti in Messico, per ovvie considerazioni sul minor costo del lavoro, oltre che sulle spese di trasporto.

Ma il nostro paese condivide con il resto d’Europa lo stesso “modello”, quello export oriented imposto dall’industria tedesca e inchiavardato nelle politiche dell’Unione Europea.

Sono mesi ormai che si sommano le crisi aziendali dei colossi industriali tedeschi. A Volkswagen, Bmw, Mercedes, Opel si somma ora la situazione di ThyssenKrupp, che prepara la riduzione della produzione del 20% e il licenziamento di 11.000 lavoratori. Per chi conosce da vicino il “modello tedesco” (la certezza del posto di lavoro in cambio di moderazione salariale, anche se su livelli “da sogno” rispetto all’Italia) è un trauma dalle conseguenze imprevedibili, soprattutto sul piano sociale e politico.

A farne le spese, da subito, è il fantasma della “transizione energetica”. Si è visto alla Cop 29 di Baku che ormai, per i paesi occidentali, il tema conta assai poco. Resta nelle dichiarazioni ufficiali, ma si azzera nelle decisioni operative.

Subito dopo è arrivata l’iniziativa di ben sette paesi europei – ovviamente tutti pesantemente coinvolti nella produzione automobilistica (Italia, Austria, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Polonia, mentre Germania, Francia e Spagna guardano facendo il tifo, ma senza voler ancora apparire), che chiedono alla UE di rivedere subito, fin dal prossimo anno, le norme che prevedono lo stop alla produzione di auto benzina e diesel a partire dal 2035.

Abbiamo scherzato, insomma, il mondo può crepare. I “privati” non sono più disposti ad investire un euro in una competizione produttiva già persa (i cinesi, con la programmazione, sono praticamente irraggiungibili), e il “pubblico” non può, bloccato dall’”austerità”.

Proprio la Cina, peraltro, è il paese che ha reagito all’annuncio con più sobrietà: “Nessuno vincerà una guerra commerciale o una guerra tariffaria”. Non siamo infatti più, e da parecchi anni, in una sistema mondiale controllabile senza problemi dagli Stati Uniti, con un solo sistema di pagamenti internazionali e rapporti di forza economici (e militari) soverchianti.

Una guerra di tariffe doganali riceverà senza dubbio risposte simmetriche e dolorose, mettendo in difficoltà soprattutto chi (l’intero Occidente neoliberista) ha delocalizzato gran parte della propria industria  a caccia di profitti più alti. Negli altri settori, nel migliore dei casi e tra fiammate inflazionistiche, si chiuderà in pareggio.

Game over. Le “pensate” di Trump possono solo accelerare la crisi dell’intero Occidente. Altro che “great again”…

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