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L’Italia del lavoro sottopagato nel rapporto Istat sulle retribuzioni

Lunedì l’Istat ha pubblicato il rapporto sulla struttura delle retribuzioni e del costo del lavoro italiani, con riferimento all’anno 2022. Lo studio considera le realtà economiche, pubbliche e private, in cui sono impiegati almeno dieci dipendenti.

È importante riassumerne i contenuti, partendo subito col dato più eclatante: sono 1 milione e 255 mila i lavoratori considerati low-wage earners, ovvero a bassa retribuzione oraria. Quella, cioè, “uguale o inferiore ai due terzi del valore mediano nazionale”: in numeri, 8,9 euro l’ora.

Si parla di oltre il 10% dei dipendenti a livello nazionale, con un’incidenza più marcata tra le donne, i giovani, chi ha un basso livello di istruzione e di qualificazione professionale, nonché chi lavora nelle attività commerciali e nei servizi.

Sono tante le cose da dire su questa soglia che non tocca nemmeno i 9 euro l’ora. Innanzitutto, anche in questo caso sono le donne ad essere le più penalizzate, riscontrando inoltre un differenziale di genere nelle retribuzioni orarie medie del 5,6%.

Le donne e i giovani, dato che “i giovani under 30 guadagnano il 36,4% in meno rispetto agli over 50”. Difficile continuare a sopportare la retorica che li vuole come dei fannulloni che non vogliono rimboccarsi le maniche, se non si garantisce loro i minimi strumenti di emancipazione.

Ovviamente, tra le categorie con i salari più bassi ci sono in generale i precari, che percepiscono il 24,6% in meno di chi è assunto con la formula del tempo indeterminato. Anche in questo caso, il “mito del posto fisso” si deve semmai intendere come il tentativo di avere certezza del futuro.

Tentativo che viene evidentemente messo in crisi dalle politiche del lavoro della classe dirigente. Anche perché i low-wage earners, o per dirla in modo più corretto i lavoratori sottopagati, sono aumentati tra il 2018 e il 2022, dal 9,8% al 10,7%.

Bisogna inoltre sottolineare come i livelli retributivi medi più bassi si riscontrino nei servizi di alloggio e ristorazione. Per intenderci, parliamo di due dei pilastri della turistificazione, con il patrimonio culturale italiano che viene propugnato come tesoretto su cui risollevare le sorti del paese.

Si tratta, in realtà, di settori in cui gli investimenti sono pressoché nulli e in cui i guadagni derivano o dalla rendita o dallo sfruttamento intensivo dei lavoratori (cioè, facendoli lavorare di più e pagandoli meno, appunto). La scelta preferita dai “prenditori” italiani.

Per tanti politici, questo è il futuro del Bel Paese, dopo che lo hanno ridotto alla desertificazione industriale e aver modellato un sistema in cui l’impresa privata vive solo grazie ai sussidi e alla deregolamentazione del lavoro. E si capisce anche dunque la diffusa ostilità all’introduzione del salario minimo.

I dieci euro l’ora che hanno richiesto varie forze sociali e politiche sembrano essere il minimo per sollevare milioni di italiani da una povertà che sembra destinata a cristallizzarsi, dopo la netta caduta del potere d’acquisto degli ultimi anni.

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