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Il costo dei dazi di Trump sull’export italiano

La misura per cui non c’è alleanza che tenga, di fronte all’inasprirsi della competizione globale, la dà il fatto che una delle prime promesse di Trump è stata l’imposizione di nuovi dazi alla UE. Nella frammentazione del mercato mondiale, per fare una “America Great Again” servono dei vassalli da vampirizzare, non dei concorrenti pericolosi.

In una fase complessa come questa bisognerebbe guardare a circuiti economici alternativi, che possano dare una possibilità di sviluppo autonoma dalle filiere occidentali, come stanno facendo i BRICS. Ma la nostra classe dirigente si è legata mani e piedi a un doppio vincolo: quello finanziario di Maastricht e quello militare della NATO.

Oggi che al di là l’Atlantico non sono più ben disposti come un tempo, la compressione del mercato interno e l’aver imposto un modello economico fondato sulle esportazioni, come è stato voluto a livello comunitario, ci costringe a pagarne lo scotto. A dare i numeri del disastro strategico è stato poi l’Ufficio Studi di Confartigianato.

In un rapporto intitolato “Made in Italy in USA e i rischi dei dazi” vengono analizzati i pericoli connessi all’introduzione di dazi addizionali tra il 10 e il 20% sui 66,4 miliardi di euro di esportazioni verso gli Stati Uniti (il 10,7% del totale). Il calo, per l’export italiano, viene calcolato tra un pesante -4,3% e un disastroso -16,8%, sulla base delle stime dal National Board of Trade Sweden.

A subirne maggiormente gli effetti sarebbero i settori della moda, dell’arredamento, dei metalli e dell’alimentare, che rappresentano oltre un quarto delle esportazioni italiane negli USA. E sono caratterizzati principalmente da micro e piccole imprese, che hanno di certo meno strumenti dei grandi conglomerati finanziari per far fronte a un colpo del genere.

Il presidente di Confartigianato, Marco Granelli, ha chiesto al governo un supporto strategico per rafforzare la competitività di questo ecosistema produttivo, attraverso incentivi e investimenti pubblici. La classe dirigente italiana non si è infatti distinta per approcci lungimiranti negli ultimi trent’anni, fondati sullo sfruttamento intensivo e sulla rendita. E ora si ritrova incapace di affrontare con le proprie forze una fase di alta competizione, peraltro politicamente drogata dai dazi.

Ciò è reso evidente anche dall’articolo dell’economista Giulio Sapelli, uno dei maggiori esponenti della storiografia sul capitalismo italiano, che introduce il rapporto di Confartigianato. In esso si affronta il nodo dei “problemi strutturali delle economie europee, aggravati dalle crisi energetiche e dagli effetti sui salari delle politiche export lead“: il vincolo della UE, appunto, aggravato dal modello mercantilista tedesco.

La speranza viene al massimo riposta nei buoni rapporti tra Meloni e Trump, che riguardo la presidente del Consiglio ha dichiarato: “mi piace molto, vediamo cosa succede“. Uno spiraglio molto stretto, anche perché il problema del surplus commerciale di Roma rimane: si tratta di ben 43 miliardi di euro sui circa 230 totali della UE nei confronti degli USA (dati ISPI).

L’export italiano oltreoceano è cresciuto nettamente tra il 2018 e il 2023 (+58,6%), anche se nei primi dieci mesi del 2024 ha segnato una leggera flessione (-0,6%). Se magari qualche esenzione potrebbe arrivare per il settore agroalimentare, che nello stesso periodo dell’anno appena trascorso ha registrato un +18,4% rispetto al 2023, è più difficile che lo stesso discorso valga anche per altre produzioni.

Il paese stelle-e-strisce rappresenta il primo mercato per 43 prodotti made in Italy, e tra questi troviamo preparati farmaceutici, imbarcazioni, derivati del petrolio, strumenti e forniture mediche e dentistiche, vini, gioielli e infine macchinari. Prodotti  tutti molto diversi l’uno dall’altro.

Nell’agroalimentare, così come nella moda, si tratta di beni che godono soprattutto del brand – del nome, della provenienza… insomma, dell'”essere italiani” -, ma in molti degli altri casi si parla di lavorazioni industriali che possono anche richiedere importanti applicazioni tecnologiche, su cui è difficile che Washington voglia dipendere da Roma.

Ad esempio, nonostante l’opera continua di deindustrializzazione, Confindustria ha certificato che nel 2022 l’Italia era ancora al quarto posto al mondo per esportazione di macchinari ACT (ad alta intensità di Automazione, Creatività e Tecnologia). E il principale importatore erano proprio gli USA (12% del totale), altro che cibi e bevande.

Del resto, gli effetti sull’agroalimentare delle pressioni esercitate da Trump nel corso del suo primo mandato erano stati limitati, per le caratteristiche specifiche di quel mercato, e il tycoon potrebbe non essere interessato a ripetere l’esperienza in questo segmento specifico. Federalimentare, infatti, invita alla cautela e chiede di agire secondo “una strategia unitaria con Bruxelles“.

Il Commissario europeo agli Affari Economici, Valdis Dombrovskis, ha già fatto presente che ci sono vari dossier su cui ci si gioca una contrattazione con la Casa Bianca. Un agire comune sulla regolamentazione dei servizi digitali, sui flussi di capitale e sull’interscambio di servizi, sul trattamento fiscale delle multinazionali, potrebbe aiutare a spuntare qualcosa, così come maggiori acquisti di GLN dagli USA.

Rimane proprio questo in dubbio: se il braccio di ferro imposto dalla potenza economica statunitense possa portare gli attori europei a giocare di squadra, piuttosto che a decretare la morte definitiva del tentativo della borghesia continentale ad assumere un ruolo nell’agone internazionale in quanto compiuta potenza imperialista.

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