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L’imperatore non è pazzo, è indebitato

[L’articolo è chiaramente stato scritto qualche ora prima dell’attacco Usa ai siti nucleari dell’Iran. Ma ovviamente un’analisi economica non perde per questo un solo grammo di validità. Per esempio, se “gli Stati uniti avvertono il morso di un vincolo finanziario all’apertura di nuovi fronti di guerra”, si comprende meglio perché, dopo aver condotto un primo bombardamento sull’Iran,  Trump ha detto sostanzialmente “per noi potrebbe anche bastare così”, ndr]

Tutti a interrogarsi sul Trump che sbraita ma tentenna, urla ma arretra, minaccia ma si nasconde, quindi sorride, morde all’improvviso, chiede scusa e poi punta la pistola in faccia, come in un infinito circo dell’orrore. Si diffonde l’idea, lo sostiene ad esempio il Nobel per l’economia Heckman, che sia solo un altro «pazzo al potere».

L’ultimo sintomo di instabilità mentale sarebbe l’andirivieni del presidente sulla dimensione effettiva dell’appoggio militare americano a Israele, nella guerra contro l’Iran.

Questa moda di scovare i moventi rapsodici del leader tra le pieghe nascoste di una mente disturbata non è una novità. Già Erich Fromm, in pieno revisionismo freudiano, teorizzava sulle possibili ossessioni sadiche di Stalin per disvelare le cause della sua violenza politica. Di recente il concetto è stato ribadito per Putin, Kim, Khamenei. E adesso, tocca al capo del fronte occidentale.

Per la loro estrema semplicità, queste interpretazioni psicanalitiche godono di ampio successo tra gli opinionisti di grido, più che mai disallenati al pensiero complesso. In fondo, «il capo è pazzo» è un’espressione al contempo abbastanza stupida e solenne da funzionare alla perfezione nel ritmato nulla degli odierni talk televisivi.

Le seducenti teorie del «pazzo al potere», tuttavia, hanno un limite: ignorano totalmente il mostruoso coacervo di vincoli di struttura in cui qualsiasi leader moderno è costretto a operare, sia esso un infido tiranno oppure un sincero liberal-democratico, come si usa dire oggi.

Un vincolo di struttura decisivo, nel caso di Trump, è costituito dall’enorme debito degli Stati uniti verso l’estero: un rosso di 26 mila miliardi di dollari, record negativo senza precedenti.

Fino a qualche anno fa, l’egemonia americana sul mondo veniva esercitata attraverso un circuito «militar-monetario» che consentiva agli Stati Uniti di indebitarsi a piacimento verso l’estero anche per finanziare le campagne militari all’estero.

La più estrema applicazione di questo circuito di dollari e bombe avvenne sotto l’amministrazione di George W. Bush.

All’epoca gli Stati Uniti si cimentarono in una lunga e sanguinosa invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. La giustificazione data ai media era la guerra al «terrore» e, guarda caso, la neutralizzazione di super-bombe immaginarie nelle mani di Saddam. In realtà, il governo americano finanziava a debito quelle colossali campagne militari per accaparrarsi i giacimenti dei due paesi e risolvere così la parte energetica del medesimo debito, che ai tempi pesava molto.

Prendendo dal gergo dei brokers, fu una sorta di «bolla speculativa bellica». Anche grazie a quegli arditi giochi di finanza, per anni l’America ha potuto imporre il suo tallone di ferro sul mondo.

Il problema è che oggi lo spettacolare circuito di speculazioni militar-monetarie americane ha raggiunto un punto limite. Il passivo verso l’estero, pubblico e privato, è infatti diventato troppo alto.

La conseguenza è che la spesa per interessi sul debito è ormai prossima alla spesa militare americana e si appresta a superarla. Per la prima volta, gli Stati uniti avvertono il morso di un vincolo finanziario all’apertura di nuovi fronti di guerra.

Ecco dunque una robusta spiegazione della titubanza degli Stati uniti nel supporto a Israele che bombarda l’Iran. Dopo aver massacrato Gaza, Netanyahu esorta Trump a sostenere il suo attacco su Teheran. Il leader israeliano teme l’isolamento. E quindi ricorda all’alleato Usa gli enormi interessi in ballo nella zona, dal petrolio al corridoio commerciale antagonista alla Via della Seta cinese.

Ma il presidente americano si agita e tentenna. Una crisi di coscienza? Un folle ondeggiare? Niente di tutto questo. La verità è che l’America non ha più i margini finanziari di un tempo. Il mondo accetta dollari sempre più a fatica, soprattutto se servono a lanciare altri missili.

Un’anima bella potrebbe considerarla una splendida notizia. Una sorta di placida eutanasia dell’impero americano inondato dai debiti.
Ma non è così facile. Messa alle corde, l’amministrazione degli Stati uniti potrebbe giocarsi il tutto per tutto: dar fondo alle risorse militari, caricare il debito sui vassalli e mobilitarli per imporre un nuovo ordine occidentale al mondo. Una nuova pax americana, più che mai nel sangue.

Donald Trump, dunque, non è semplicemente un pazzo. Il saltimbanco dai denti affilati, che minaccia di ammazzarti mentre sorride e tende la mano, è solo la perfetta incarnazione dell’ultimo, terrificante dilemma dell’impero indebitato.

Un dilemma che imporrà scelte, soprattutto agli alleati europei degli Stati uniti. Lo sa bene lo spagnolo Sanchez, che cerca di respingere le pressioni americane per portare la spesa militare al 5 percento del Pil. L’opposto delle smanie di Meloni e Crosetto verso un sollecito riarmo.

* da il manifesto

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1 Commento


  • Eros Barone

    Torna di attualità la vignetta pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” diversi anni fa. In quella vignetta Francesco Tullio-Altan raggiungeva, come spesso gli accadeva, una precisione folgorante nel definire la connessione tra la crisi economico-finanziaria e l’imminente attacco che gli Stati Uniti d’America e altri paesi imperialisti dell’Unione Europea (Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia) si preparavano a sferrare contro l’Iran. Fra due ‘mutanti’ dal profilo di iguana, che sfoggiano giacche blu e cravatte a stelle e strisce, si svolge questo dialogo. Replicando a quello che osserva preoccupato: “Borse in crisi”, l’altro avanza la seguente proposta: “Attacchiamo l’Iran?” Sennonché, dopo le tre guerre del Golfo (1980-1988, 1991, 2003), dopo l’intervento nel Kossovo (1999) e dopo quelli in Afghanistan (2002), in Libia (2011) e in Ucraina (iniziato nel 2013 e tuttora in corso) dovrebbe essere chiaro che le cause per cui l’imperialismo scatena una guerra sono sempre più di una. Pesano, infatti, almeno tre fattori: l’economia, la geopolitica e la storia. Rispetto a due di questi fattori (storia ed economia), determinanti per la conquista e il mantenimento dell’egemonia, gli Stati Uniti stanno segnando il passo. E questa è la ragione per cui sono sempre più pericolosi.

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