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Le famiglie italiane tirano la cinghia, aumentano gli allarmi sul carrello della spesa

Su questo giornale abbiamo seguito assiduamente i rapporti Istat riguardanti l’inflazione e l’andamento dei prezzi, sottolineando il nodo preoccupante per cui, a dispetto di una riduzione nel costo di tanti beni, quelli su cui le classi popolari spendono la maggior parte dei propri redditi hanno sempre continuato a tenersi sopra la media dell’inflazione generale.

Questo si traduce in tre possibili scenari: la riduzione degli acquisti, o l’uso di surrogati, oppure il peggioramento della qualità dei prodotti scelti. In tutti e tre i casi, queste soluzioni comportano importanti effetti sul lato dell’apporto energetico e della salute. Insomma, sono i più poveri, come al solito, a essere colpiti più duramente dalle dinamiche di un sistema iniquo.

Ultimamente allarmi simili – senza evidenziare il problema di classe della questione, ma tant’è – sono stati lanciati da altre realtà. Spesso ciò è stato fatto commentando i dati dell’Istat, da parte delle associazioni di tutela dei consumatori. È il caso di Assoutenti, ad esempio, che lo scorso 10 settembre ha posto i riflettori su questo nodo in un comunicato.

Il presidente Gabriele Melluso ha affermato: “le famiglie italiane spendono sempre di più per un carrello sempre più vuoto. A confermarlo sono gli stessi dati Istat: tra il 2019 e oggi le vendite alimentari nel nostro Paese sono crollate in volume del -6,5%, ma nello stesso periodo, proprio a causa dei continui rincari, il valore delle vendite è salito del +19,3%“.

Le vendite presso i discount sono aumentate del 45,6% in sei anni, una cifra così significativa da non poter essere ignorata. Lavoratori e pensionati cercano un’alternativa in prodotti low cost, considerati i rincari che hanno riguardato tutta la filiera alimentare per la crisi delle materie prime, dei beni energetici e, dunque, dei carburanti.

I dati confermano che da gennaio a luglio del 2025 le vendite di beni alimentari sono diminuite in volume dello 0,8%, ma il loro valore è cresciuto del 2,1%. Il che significa che, in sostanza, nel Belpaese, quando siamo andati a pagare alla cassa, abbiamo speso 1,3 miliardi di euro in più, ma ci siamo ritrovati nel carrello meno cibi e bevande.

Per questo fa  sorridere molto amaramente la pretesa scritta nel Rapporto COOP 2025, per la quale staremmo assistendo a una fase di “deconsumismo“. Nel documento si legge che “al posto del piacere del possesso, l’Italia di oggi scopre il vero valore nelle esperienze di vita, acquista solo le cose indispensabili, ama il second hand e ripara gli oggetti piuttosto che sostituirli“.

“E anche quando torna a spendere in acquisti tecnologici (16,5 miliardi di euro negli ultimi 12 mesi, +1,2% su base annua) – continua il testo che si può facilmente reperire online – lo fa privilegiando l’utilità alla gratificazione“. Per dimostrarlo, cita il fatto che nella top ten delle vendire ci siano “gli apparecchi per la cura dentale“.

Bisognerebbe ricordare che le spese sanitarie non coperte dalla sanità pubblica non rappresentano una “scelta di consumo”, almeno non nella misura in cui si vogliano evitare problemi di salute di lungo termine. Eppure, questa è la retorica che bisogna sentire in un paese che continua a dibattersi in una crisi che pagano soprattutto le classi popolari e, sempre più, anche i ceti medi.

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