La Kyiv School of Economics (KSE) ha recentemente pubblicato l’Ukraine Macroeconomic Handbook, un approfondito studio sullo stato dell’arte delle finanze pubbliche e del bilancio commerciale dell’Ucraina. Quello che emerge è la constatazione di trovarsi di fronte a un paese fallito, che vivrà una fragilità strutturale anche in periodo di pace.
Ma le tinte fosche con cui è tratteggiato il futuro del paese est-europeo si sommano ai pericoli di una società reduce da una sconfitta e, per di più, che solo negli investimenti bellici può trovare un volano per la crescita. Il tutto, analizza il KSE, ipotizzando che “la guerra continuerà per la maggior parte del 2026“, come anche altre istituzioni – tra cui il Fondo Monetario Internazionale – hanno previsto. Analizziamo alcuni dei numeri presentati dall’istituto.
Il disavanzo commerciale per quest’anno è previsto aumenterà da 33 a 42 miliardi di dollari, un significativo +27% che deriverebbe dalle spese fatte per armamenti, con “donazioni” sempre più risicate dagli alleati occidentali, ma anche dai problemi causati dalla campagna di bombardamenti russi alle infrastrutture energetiche.
Con l’inverno in arrivo, le preoccupazioni aumentano, mentre appare chiaro che il passivo commerciale si stabilizza e si allarga proprio perché riguardante settori economici strategici ma bersagliati nello sforzo bellico. A ciò si deve aggiungere un deficit di bilancio che per il 2025 si prevede toccherà il 19,4% del PIL (41,7 miliardi), con una spesa militare che dovrebbe oltrepassare gli 85 miliardi nel 2026.
Le riserve valutarie potrebbero ridursi a poco più di un quarto di quelle attuali nel 2028, e questo anche perché è evidentemente cambiato l’impegno militare degli alleati. O meglio, come già evidenziato dal Kiel Institute, il meccanismo NATO attraverso il quale le armi statunitensi arrivano a Kiev, ora che devono essere pagate dai paesi europei, non è in grado di garantire la stessa dimensione degli afflussi, alla faccia delle dichiarazioni propagandistiche dei guerrafondai nostrani sulla pelle degli ucraini.
Ma in un certo senso, a mettere ancora più preoccupazione è lo scenario post-bellico. Innanzitutto, con la fine del conflitto migliaia di persone verrebbero smobilitate e tornerebbero tra la manodopera disponibile. Poiché essa è largamente diminuita, tra morti ed emigranti, e poiché i lavori di ricostruzione sarebbero molti, i salari potrebbero continuare a resistere, come hanno fatto ultimamente. Sempre che non ci siano pressioni dei ricostruttori occidentali per avere un grande esercito di manodopera ad un costo ancora più basso.
Questo potrebbe essere lo scenario, sul medio-lungo periodo, soprattutto se l’Ucraina verrà integrata nei meccanismi del mercato europeo in maniera subordinata. Nel caso in cui Kiev voglia riprendersi davvero dalla guerra, senza cadere in altre subalternità, dovrà puntare su settori ad alta innovazione e valore aggiunto. Per garantire retribuzioni e la riattivazione di un virtuoso ciclo di investimenti, ma anche per avere qualcosa da porre sul piatto nelle relazioni con i propri alleati.
Ciò aiuterebbe anche le finanze: avere una produzione avanzata propria permetterebbe di sostituire le attuali importazioni ad alto costo, che se continueranno renderanno irrecuperabile il disavanzo commerciale. Seppur non spiattellando tutti i nodi della questione, il KSE parla proprio di questo, quando fa riferimento – persino nel settore agricolo – alla necessità di mettere a frutto le competenze acquisite nell’ambito delle tecnologie dell’informazione, dei droni, e così via.
L’istituto parla della necessità di consolidare l’assistenza internazionale, ma è chiaro che Kiev non potrà sperare di vivere solo di elemosine. Data la riconversione industriale degli ultimi anni, e anche l’esperienza “guadagnata” sul campo di battaglia, è probabile che gli unici settori ad alta innovazione in cui l’Ucraina potrà trovare spazio sono quelli della difesa e della sicurezza.
Qui però ci sono gli esempi storici a dirci cosa significherà per la sua società. Le retoriche nazionaliste accanto all’elogio del collaborazionismo banderista, lo sappiamo, sono già ben sedimentate nel paese, e anche nella sua diaspora. Immaginate quali siano le “possibilità di impiego” di una popolazione reduce da una non-vittoria (nel migliore dei casi), addestrata alla guerra e la cui unica opportunità di rilancio industriale passa per le armi.
Lo sdoganamento del nazismo è già avvenuto, la trasformazione in una ‘Israele europea’ – cioè in un popolo perennemente mobilitato per una ‘crociata’ – sarà possibile solo se la UE riuscirà a garantire la continuità del clima guerrafondaio, i relativi fondi e magari qualche impegno bellico concreto, facendo guadagnare anche il proprio complesso militare-industriale.
Ma quel che risulta evidente è che l’intreccio tra Kiev e Bruxelles come unica possibilità di sopravvivere nella competizione globale vale per entrambe. La prima ha bisogno dell’aiuto della seconda per non affondare, la seconda ha bisogno dell’esperienza e della propaganda antirussa della prima per far digerire la conversione bellica.
Rompere questa interconnessione apre invece opportunità di uno sviluppo pacifico, per gli ucraini, per i popoli europei, per tutti.
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