Se pensavamo di aver già visto, sopportato e tollerato tutto ci sbagliavamo, perché la morte di Francesco Mastrogiovanni ridisegna i confini della miseria umana e della ferocia dell’uomo sull’uomo; allarga gli orizzonti dell’orrore e svela ancora una volta una realtà immutabile: quella dell’ignoranza abissale delle istituzioni di fronte ai più elementari diritti dell’uomo, e dell’arroganza senza limiti, puntuale, sempre ricorrente da parte di esse, nel momento in cui devono sottoporsi a un giudizio e alla definizione delle proprie responsabilità.
Quattro giorni, 83 ore, è durata l’agonia di Mastrogiovanni, legato illegalmente a un letto del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio, senza acqua né cibo e alimentato solo con flebo di sali e vitamine (se e quando qualche infermiere si ricordava di infilargliene una in vena), nell’indifferenza dell’intero reparto.
Ancora una volta, solo per pura coincidenza, una telecamera a circuito chiuso ha ripreso senza sosta la lenta morte di Francesco Mastrogiovanni. Quelle riprese, salvate per miracolo da sicuro insabbiamento, ne hanno immortalato per sempre i disperati tentativi di slegarsi, le richieste d’aiuto, la bocca spalancata in cerca di aria, di acqua, prima dell’edema polmonare che lo ha ucciso.
E ne ha registrato gli ultimi momenti di vita. Quella vita che gli è stata tolta senza dignità, senza un motivo giustificabile che sia uno, nonostante i pochi medici e infermieri che in aula non si sono avvalsi della facoltà di non rispondere qualche giustificazione l’abbiano cercata, in un ridicolo tentativo di autoassoluzione. Hanno provato ad anteporre la legittimità di quella lunghissima contenzione, sicuri di averla effettuata come da regolamento e per giustificati motivi, dimenticando, ignorando completamente il fatto che – ammesso che sia legittimo sequestrare per quattro giorni un uomo inerme e ridurlo come una larva fino a ucciderlo – a un limitato ciclo di contenzione va alternato un periodo di slegamento, per favorire la circolazione e per evitare l’atrofizzazione degli arti.
Sono tanti, troppi, i dettagli raccapriccianti di questa terribile vicenda. E diciotto sono i macellai che hanno scritto questa storia; diciannove imputati, che dovranno rispondere del loro operato non solo nelle aule giudiziarie, ma a tutti coloro che di fronte a ogni singolo fotogramma di quel video sentono il sangue gelarsi. Diciotto imputati, che dovranno rispondere soprattutto a una semplice domanda: perché?
Perché hanno abbandonato un uomo per quattro giorni dopo averlo legato al letto, a tradimento, mentre dormiva? Perché non lo hanno nutrito? Perché non lo hanno dissetato? Perché lo hanno imbottito di psicofarmaci, nonostante Mastrogiovanni fosse collaborativo e non aggressivo? Perché solo due o tre flebo in quattro giorni? Perché medici e infermieri sfilavano davanti al suo letto senza degnarlo nemmeno di uno sguardo, e senza accorgersi che stava morendo tra atroci sofferenze? Perché stringergli le cinghie intorno ai polsi e alle caviglie fino scarnificarli e a farli sanguinare? Perché si sono accorti solo dopo cinque ore dal decesso che Mastrogiovanni era morto?
Una prima risposta forse arriva dal curriculum del primario di psichiatria Michele di Genio: di una specializzazione in psichiatria nemmeno l’ombra. Ma non basta.
Anche l’arresto che precedette il TSO fu grottesco: Mastrogiovanni era in acqua a fare il bagno, e per catturarlo si mobilitarono decine di pattuglie, ambulanze e persino le motovedette della Guardia Costiera. Cosa aveva fatto non è dato saperlo, forse aveva tamponato due macchine o chissà cos’altro. Dopo un timido tentativo di autodifesa a base di sassi lanciati dall’acqua sul bagnasciuga, dove lo attendevano i carabinieri, il Maestro si consegnava senza opporre resistenza, prima di essere inghiottito per sempre dall’ambulanza.
C’è puzza di persecuzione in questa vicenda, lo dimostra un accanimento durato anni nei confronti di un uomo non inquadrabile socialmente, un vero anarchico, un individuo libero, affamato di cultura, morto stritolato dalla totale negazione delle sue libertà, legato a un letto come in un qualsiasi manicomio di metà ‘800. Un accanimento che parte da lontano negli anni, quello nei confronti di Francesco, in perenne lotta contro chi non lo ha mai accettato per ciò che era e che lo ha sempre additato come sovversivo. Processato negli anni ‘70 per un reato politico (il concorso nell’omicidio di un fascista salernitano, Falvella), venne poi prosciolto da ogni accusa. Anni dopo, per un altro processo seguito alla contestazione di una multa, ottenne una nuova assoluzione. A processarlo – attenzione – fu lo stesso PM Martuscelli che oggi rappresenta l’accusa contro i diciannove medici e infermieri che hanno cagionato la morte di Mastrogiovanni.
La domanda è legittima: cosa c’è sotto? I familiari, il Comitato Verità e Giustizia per Francesco, l’associazione A Buon Diritto che ancora una volta ha avuto il merito di riaccendere l’interessa sulla vicenda, attendono risposte convicenti. E immediate.
Per domani, 2 ottobre, è prevista la requisitoria del PM Renato Martuscelli.
Gli imputati sono: Michele di Genio, allora primario del reparto psichiatria, Rocco Barone, Raffaele Basso, Amerigo Mazza, Michele della Pepa, Anna Angela Ruberto, Antonio de Vita, Maria Cirillo d’Agostino, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Massimo Minghetti, Juan Josè Casaburi, Antonio Luongo, Maria Carmela Cortazzo, Nicola Oricchio, Giuseppe Forino, Raffaele Russo, Marco Scarano.
L’accusa per tutti è di omicidio colposo.
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