Stefano Cucchi ha passato cinque giorni e mezzo tra una guardina della caserma dei carabinieri, i sotterranei del tribunale di Roma, il carcere di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli e il reparto penitenziario del Pertini. Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia, parla cinque ore in aula e, alla fine, chiede solo «rispetto», cioè «una sentenza aderente ai fatti». Contro la ricostruzione della procura, contro i periti che parlano di malasanità per giustificare la morte del 31enne. Non le torture subite, non le botte, ma la fame.
Il sistema assolve se stesso e condanna la verità: secondo Anselmo una grado di inanizione tale da giustificare la morte interviene dopo 21 giorni, non certo dopo poco più di cinque. La giuria popolare avrà di che riflettere.
A scorrere i capi d’imputazione ci si allontana sempre di più da quello che ha portato alla morte di Stefano: c’è chi è stato accusato di abbandono d’incapace, chi di abuso di ufficio, oppure di favoreggiamento, falso ideologico, lesioni e abuso di autorità. Le richieste di condanna nel processo in corso a Roma vanno dai due ai sei anni e otto mesi di carcere. Ma manca completamente la parte del pestaggio di Cucchi nelle celle del tribunale.
Le perizie cozzano con le testimonianze, per i tecnici non c’è correlazione tra i traumi e la morte. Ma, per Anselmo, le conclusioni sono poco più che un «compendio scientifico», non si appoggiano alle analisi, rinunciano a considerare che Stefano era in sé in quelle ore: «Non è stato un deperimento cerebrale, né una crisi epilettica, neanche una morte improvvisa, cardiaca. Stefano, poche ore prima di morire, ricordava a memoria il numero del cognato, scrisse al Ceis, provò a comunicare con l’esterno, scrisse con la mano tremante chiedendo aiuto alla comunità terapeutica». Dagli Stati Uniti, poi, arriva una nuova perizia, con le lastre di Stefano finalmente analizzate a fondo: una dimostrazione della relazione tra i traumi e il digiuno dell’uomo, l’ultimo – vano – tentativo di vincere l’isolamento cui era stato costretto dai carcerieri.
Quest’ultima analisi potrebbe essere la carta vincente di Anselmo e della famiglia Cucchi, la smentita “ufficiale” dei teoremi dell’accusa. Stefano non è morto per errore medico, ma per tortura.
Adesso la parola passa alla difesa degli imputati.
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