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Samba e martello: brevi considerazioni dopo una settimana di mondiale

E insomma, alla fine la Spagna ha abdicato ed è andata a casa con la coda tra le gambe. Rimane l’ultima partita, per la gloria, contro un’Australia (pure già eliminata) che comunque il suo lavoro l’ha fatto con onore, ma vuol dire poco. Se ne sono dette molte – e tante altre se ne diranno – sulla disfatta dei campioni del mondo, spazzati via dall’Olanda prima e umiliati dal Cile poi. C’è chi, con un po’ di soddisfazione, predica la morte del tiki-taka, chi vede nell’abbandono del miracoloso (e pericoloso) dottor Fuentes la causa della fine di tutto, chi mette in relazione l’uscita dal mondiale con l’abdicazione del vecchio re Juan Carlos.

Probabilmente la spiegazione è molto più semplice: si è capito come contrastare la grande strategia del possesso palla, basta ergere un muro tra il centrocampo e la difesa, e avere qualcuno che corre parecchio veloce in contropiede. L’Olanda, in fondo, ne ha rifilati cinque alle Furie Rosse giocando una partita in trenta metri di campo. Poi, certo, quando hai Robben, Snejider e Van Persie di fronte, la cosa importante è far arrivare il pallone là davanti. Mettiamoci anche un fisiologico calo fisico degli spagnoli (le prestazioni alterne del Barcellona nella Liga dovrebbero dire molto su questo punto) e la frittata è fatta. Ma parlare di «fine del tiki taka» pare francamente eccessivo. E comunque, dopo aver vinto in sequenza un europeo-un mondiale-un altro europeo, sarebbe stato un po’ troppo chiedere alla Spagna di ripetersi ancora.

Il Brasile, che rimane favoritissimo per la vittoria finale, paga l’assenza di un centravanti. Nel mesto zero a zero contro il Messico si è vista una squadra che sì giocava, ma che negli ultimi venti metri non riusciva a dare un senso ai propri sforzi. La beffa è che un asso come Diego Costa – doppio passaporto – ha scelto di vestire la maglia della Spagna, finendo per danneggiare tutti: sia la formazione di Del Bosque, che non è abituata a giocare con una punta, sia il Brasile che, come detto, di una punta avrebbe urgentemente bisogno.

Impressiona la Germania, che si è sbarazzata del Portogallo in un tempo record e, annuari statistici alla mano, sono ventiquattro anni che si aggirano nei pressi di una grande vittoria. Che sia arrivato il loro momento? Difficile a dirsi, la multietnica nazionale guidata da Loew è famosa per le sue partenze a razzo che finiscono in beffa, in semifinale o ancora più in là.

L’Argentina, dal canto suo, è sempre lì, ma mai come ora appare Messi-dipendente. La partita contro la Bosnia (che, ricordiamolo, è uno squadrone) l’ha risolta proprio la Pulce, che però non ha mai brillato nelle competizioni nazionali. La curiosità per le prossime partite è tanta, ma non dovrebbero esserci grandi problemi contro squadracce come la Nigeria e l’Iran.

Poi c’è l’Italia, che gioca un buon calcio ma soffre un po’ in difesa. Detto che il centrocampo azzurro appare come uno dei più forti del torneo, bisogna sempre tenere a mente una costante storica: la nazionale italiana ha sempre adorato complicarsi la vita. Qualsiasi cosa accadrà, bisognerà sudare parecchio.

Nella sfida tra due grandi famiglie nobili del calcio, è risorto l’Uruguay, che rimane un avversario temibile, mentre l’Inghilterra ha già un piede e mezzo fuori. Rooney e Gerrard appaiono terribilmente fuori condizione, addirittura un po’ troppo in carne. E gli altri non sembrano essere fenomeni, a partire dall’incerto portiere Hart.

In ultimo, attenzione alla Francia. L’esordio vincente con il modesto Honduras ha detto poco, ma partire con un secco 3-0 è sempre un segno incoraggiante.

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