Riforma fiscale, subito. Facile da chiedere, facile da dire in tv; molto meno da mettere nero su bianco. Come si fa, se le entrate fanno fatica ad aumentare (la crisi riduce produzione, redditi e consumi, quindi anche le tasse) e le uscite devono diminuire?
La palla è stata passata a Giulio Tremonti con la ruvida imperiosità tipica di chi – Berlusconi, Brunetta e via abbassandosi – si sente ormai fuori dal giro vincente. E il Giulio «non divo» ha messo alla frusta i suoi tecnici, perché l’agenda politica è cambiata e ora – come peraltro diversamente chiedono nell’ordine l’Europa, Mario Draghi e Confindustria – il fisco diventa la bacchetta magica con cui il centrodestra (dice Brunetta) punta per «vincere le elezioni» (quali? quando?).
Fatta la tara a possibili dimissioni di Tremonti (l’ha già fatto nel 2004), il compito è parecchio complicato. L’incontro previsto ieri con i supertecnici – Piero Giarda per gli sprechi da tagliare; Vieri Ceriani per la revisione delle agevolazioni; il presidente dell’Istat Enrico Giovannini per sommerso ed evasione; Mauro Marè per lo sviluppo dei fondi pensione – è già slittato; ufficialmente per gli impegni internazionali di Tremonti. Ma in ogni caso, se l’obiettivo è risanare i conti, si è partiti con il piede sbagliato: la prima misura (impostata in modo bipartisan intorno a un testo presentato dal Pdl, e che ha ricevuto proprio ieri un primo via libera dalla Camera) è un allentamento sulle «ganasce fiscali». Nel provvedimento anche una revisione del meccanismo di calcolo delle sanzioni (a molti arrivano rivalutazioni assurde di multe inizialmente di importo irrisorio) e una peraltro meritoria revisione del meccanismo di espropriazione degli immobili (molti si son visti mettere la casa all’asta per non aver pagato contravvenzioni anche minime). Sia chiaro: lo sceriffo di Nottingham chiamato Equitalia si è meritato in pieno l’odio popolare (dagli imprenditori di fascia bassa ai semplici cittadini colti in contravvenzione), ma questa prima mossa, da sola, non è certo un segnale di «rigore».
L’impianto della riforma, per cui Tremonti avrebbe preferito tempi di preparazione più congrui, è semplice: riduzione progressiva del prelievo sui redditi (Irpef), bilanciato da un aumento dell’imposizione sui consumi (Iva e similiari). Il rischio è pure evidente: con una mano si restituisce reddito al lavoro dipendente (e alle imprese), con l’altra lo si sottrae (al solo lavoro, però). Il secondo pilastro, che viene chiesto soprattutto dai «cattolici», è l’introduzione del «quoziente familiare», che dovrebbe prendere in esame il reddito dei genitori diviso per il numero dei figli. Ma l’ideologia (soprattutto religiosa) è una pessima consigliera pratica: si rischia di scoraggiare molto l’occupazione femminile e di moltiplicare le separazioni per motivi fiscali.
Un esempio. Già il 20 ottobre Tremonti aveva individuato 242 (ma ora si dice 486) «agevolazioni» che sottraggono allo stato circa 142 miliardi (o 196, tra il 9% e il 12% del Pil, insomma). Ma ha senso «contabile» abolire alcune agevolazioni per introdurne altre? Dipende da quali si toccano, è evidente. Quindi il significato – «chi paga» – è sociale, non «tecnico». Sul piano del bilancio, le agevolazioni che pesano di più sono: l’aliquota Iva al 10% (anzichè al 20) per la cessione di beni di consumo (23.240 miliardi); l’aliquota Iva al 4% per l’acquisto della prima casa (13.711 miliardi) e le detrazioni in busta paga per i familiari a carico (11.379 miliardi). Se si va a incidere qui le conseguenze sociali sono immediate: meno consumi e meno acquisti di case. Depressivo.
Il «cuneo fiscale» (5.586 miliardi) riaguarda solo le imprese e quindi è «intoccabile». Il resto – detrazioni o deduzioni per la rendita catastale della prima casa, per le spese mediche, assegni per i figli dei separati, ristrutturazioni abitative, ecc) sono spiccioli (1 o 2 miliardi per ogni voce), ma da sottrarre quasi sempre ai consumi popolari e a quelli delle imprese più piccole.
Da questo breve elenco si vede che metter mano al fisco è un dannato problema, specie in tempi di crisi e necessità di «rientro nei parametri di Maasrticht». Se poi hai un presidente del consiglio che vorrebbe ordinarti di «allentare i cordoni della borsa» (quella pubblica, mica quella dei suoi amici immobiliaristi o finanzieri creativi), beh, il compito può rivelarsi impossibile. Perché sulla riva del fiume, in attesa, stanno sia i grandi nuovi controllori del bilancio nazionale (la Ue) che la Bce. E, soprattutto, «i mercati», cui l’Italia dovrà continuare a chiedere di rifinanziare il proprio debito.
La palla è stata passata a Giulio Tremonti con la ruvida imperiosità tipica di chi – Berlusconi, Brunetta e via abbassandosi – si sente ormai fuori dal giro vincente. E il Giulio «non divo» ha messo alla frusta i suoi tecnici, perché l’agenda politica è cambiata e ora – come peraltro diversamente chiedono nell’ordine l’Europa, Mario Draghi e Confindustria – il fisco diventa la bacchetta magica con cui il centrodestra (dice Brunetta) punta per «vincere le elezioni» (quali? quando?).
Fatta la tara a possibili dimissioni di Tremonti (l’ha già fatto nel 2004), il compito è parecchio complicato. L’incontro previsto ieri con i supertecnici – Piero Giarda per gli sprechi da tagliare; Vieri Ceriani per la revisione delle agevolazioni; il presidente dell’Istat Enrico Giovannini per sommerso ed evasione; Mauro Marè per lo sviluppo dei fondi pensione – è già slittato; ufficialmente per gli impegni internazionali di Tremonti. Ma in ogni caso, se l’obiettivo è risanare i conti, si è partiti con il piede sbagliato: la prima misura (impostata in modo bipartisan intorno a un testo presentato dal Pdl, e che ha ricevuto proprio ieri un primo via libera dalla Camera) è un allentamento sulle «ganasce fiscali». Nel provvedimento anche una revisione del meccanismo di calcolo delle sanzioni (a molti arrivano rivalutazioni assurde di multe inizialmente di importo irrisorio) e una peraltro meritoria revisione del meccanismo di espropriazione degli immobili (molti si son visti mettere la casa all’asta per non aver pagato contravvenzioni anche minime). Sia chiaro: lo sceriffo di Nottingham chiamato Equitalia si è meritato in pieno l’odio popolare (dagli imprenditori di fascia bassa ai semplici cittadini colti in contravvenzione), ma questa prima mossa, da sola, non è certo un segnale di «rigore».
L’impianto della riforma, per cui Tremonti avrebbe preferito tempi di preparazione più congrui, è semplice: riduzione progressiva del prelievo sui redditi (Irpef), bilanciato da un aumento dell’imposizione sui consumi (Iva e similiari). Il rischio è pure evidente: con una mano si restituisce reddito al lavoro dipendente (e alle imprese), con l’altra lo si sottrae (al solo lavoro, però). Il secondo pilastro, che viene chiesto soprattutto dai «cattolici», è l’introduzione del «quoziente familiare», che dovrebbe prendere in esame il reddito dei genitori diviso per il numero dei figli. Ma l’ideologia (soprattutto religiosa) è una pessima consigliera pratica: si rischia di scoraggiare molto l’occupazione femminile e di moltiplicare le separazioni per motivi fiscali.
Un esempio. Già il 20 ottobre Tremonti aveva individuato 242 (ma ora si dice 486) «agevolazioni» che sottraggono allo stato circa 142 miliardi (o 196, tra il 9% e il 12% del Pil, insomma). Ma ha senso «contabile» abolire alcune agevolazioni per introdurne altre? Dipende da quali si toccano, è evidente. Quindi il significato – «chi paga» – è sociale, non «tecnico». Sul piano del bilancio, le agevolazioni che pesano di più sono: l’aliquota Iva al 10% (anzichè al 20) per la cessione di beni di consumo (23.240 miliardi); l’aliquota Iva al 4% per l’acquisto della prima casa (13.711 miliardi) e le detrazioni in busta paga per i familiari a carico (11.379 miliardi). Se si va a incidere qui le conseguenze sociali sono immediate: meno consumi e meno acquisti di case. Depressivo.
Il «cuneo fiscale» (5.586 miliardi) riaguarda solo le imprese e quindi è «intoccabile». Il resto – detrazioni o deduzioni per la rendita catastale della prima casa, per le spese mediche, assegni per i figli dei separati, ristrutturazioni abitative, ecc) sono spiccioli (1 o 2 miliardi per ogni voce), ma da sottrarre quasi sempre ai consumi popolari e a quelli delle imprese più piccole.
Da questo breve elenco si vede che metter mano al fisco è un dannato problema, specie in tempi di crisi e necessità di «rientro nei parametri di Maasrticht». Se poi hai un presidente del consiglio che vorrebbe ordinarti di «allentare i cordoni della borsa» (quella pubblica, mica quella dei suoi amici immobiliaristi o finanzieri creativi), beh, il compito può rivelarsi impossibile. Perché sulla riva del fiume, in attesa, stanno sia i grandi nuovi controllori del bilancio nazionale (la Ue) che la Bce. E, soprattutto, «i mercati», cui l’Italia dovrà continuare a chiedere di rifinanziare il proprio debito.
da “il manifesto” del 2 giugno 2011
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