Il Belgio ha raggiunto oggi il record di un anno senza governo. Dopo le elezioni politiche del 13 giugno 2010, quando per la prima volta nella storia del Paese il partito separatista fiammingo ha riportato la maggioranza dei voti tra la popolazione di lingua fiamminga, i rappresentanti dei principali partiti sembrano tuttora lontani dal trovare una soluzione e, passata l’estate, si profila l’ipotesi di un ritorno alle urne. Lo scoglio più difficile da superare è costituito dalla riforma dello Stato con i partiti fiamminghi, separatisti in testa, che reclamano il trasferimento di maggiori poteri alle regioni. L’incarico di formare un nuovo esecutivo è ora nelle mani del socialista di origini italiane, Elio Di Rupo, alla guida del partito uscito vincitore nella regione belga di lingua francofona. Il capo del Partito Socialista spera di poter trovare una soluzione entro la fine di giugno, per poi negoziare la formazione di un governo durante l’estate ed evitare così nuove elezioni. Sullo sfondo resta l’ipotesi della secessione del Paese a cui, tuttavia, sembra che la maggioranza dei belgi non sembra credere: stando agli ultimi sondaggi, per i due terzi della popolazione sarà possibile evitare la dissoluzione del Belgio. La situazione economica e finanziaria del Paese va di male in peggio, con il debito pubblico al 96,8% del Pil e le agenzie di rating che minacciano un ulteriore declassamento. Il compito di Di Rupo si profila tutt’altro che facile. Il governo uscente continua a gestire gli affari correnti, senza apparenti scossoni, ma l’agenzia di rating Fitch di recente ha rivisto l’outlook del Belgio portandolo a «negativo» da «stabile», suonando un primo campanello d’allarme. A maggio, nel suo rapporto regionale sull’Europa, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia l’eurozona sul fatto che il rischio contagio sul piano del debito resti elevato non solo per Irlanda, Grecia e Portogallo, ma anche per Spagna, Belgio e Italia.
Sulle prospettive del Belgio sembrano in modo inquietante le profetiche parole di un articolo del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung “Dobbiamo forse dedurne che uno stato debole di questi tempi non ha più bisogno di un governo, ma solo di iniezioni di denaro? I politici sono ormai solo gli animali da circo delle sfide elettorali e delle conferenze stampa?” sriveva a gennaio il più influente giornale dell’establishment tedesco.
Il suo autore, Dirk Schumer, parlando del Belgio, era arrivato a sostenere che “Il blocco del governo non mette in pericolo il funzionamento del federalismo, già in panne da tempo, ma l’economia. La caduta o meno di questo stato-modello europeo sembra dipendere più che altro dai costi di medio termine. Perché ormai il Belgio non commuove più nessuno.
Anche questo deve imparare l’Ue, che proprio adesso sta mettendo alla prova i nuovi candidati Islanda e Croazia mentre la sua moneta comune si sbriciola: tutto è passeggero in questo continente”.
I fatti sembrano dar ragione all’analista tedesco, il quale sottolinea come “Le nazioni non sono eterne, mentre le lingue e le tradizioni sembrano al contrario incredibilmente resistenti. In un’economia globale uno stato fa presto a diventare irrilevante”. Uno stato nel cuore dell’Unione Europea da un anno senza governo e a rischio secessione ha mantenuto però gli impegni con i mercati finanziari. Basta questo per diventare uno stato superfluo? Non è solo la Grecia dunque a pagare il prezzo dell’egemonia tedesca sull’Unione Europea.
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