316 voti di fiducia per il governo (la 47° in tre anni), 314 sul testo, in serata; e subito la firma del presidente della repubblica, Giorgio Napolitano. Opposizione zero, dentro il Parlamento. Qualcosa fuori, nel paese, anche se la stagione e la velocità hanno quasi azzerato le possibilità di risposta popolare. Il Pd sembra aver capito solo dopo che è rimasto con nulla in mano: la disponibilità a «non mettersi di traverso» – allungando i tempi della discussione in aula – doveva essere condizionata all’accoglimento da parte del governo di «pochi emendamenti». Nemmeno presi in esame (la Commissione Bilancio si è riunita per mezz’ora, il tempo di alzare la mano e votare). E quindi la beffa finale di un Cicchitto che rivendica «abbiamo preso la fiducia e non ce ne andiamo»; di un Bossi, descritto come sempre lì lì per staccare la spina al Cavaliere, che garantisce «il governo ora va avanti». E infine Silvio Berlusconi, «il muto della settimana», che torna a parlare per dire – ma chi può stupirsene? – che ha fatto tutto lui, che aveva cose più importanti da fare che non parlare in televisione.
Lo stato comatoso dell’opposizione parlamentare è esaltato dalla rabbia con cui i cattolici di tutti gli schieramenti – a cominciare da Radio Vaticana – sparano a zero contro una manovra da 87 miliardi (se non di più) che dimostra «uno scandaloso accanimento contro le famiglie». Andrea Olivero, presidente delle Acli, sottolinea come «non si è avuto il coraggio di colpire le transazioni finanziarie né di introdurre una patrimoniale per i più ricchi, si è avuto invece il coraggio di colpire pesantemente le famiglie e di ignorare ancora una volta la condizione di povertà assoluta in cui versano tre milioni di persone nel nostro Paese».
Di «macelleria sociale» parla anche Sergio D’Antoni, ex segretario Cisl che sembra Che Guevara a confronto con l’attuale, Raffaele Bonanni. Al centro di tutte le critiche la logica dei «tagli lineari» che ha colpito tutte le centinaia di agevolazioni fiscali esistenti (dagli asili nido ai corsi di ginnastica, dagli interessi sui mutui ai figli minorenni) e, sul piano simbolico, dall’intangibile faccia tosta dei politici che non hanno ritenuto necessario neppure fare un gesto simbolico di partecipazione ai «sacrifici»; tagliandosi magari qualche privilegio secondario.
Se sul piano sociale le conseguenze sono chiare, indubbie, pesantissime, su quello macroeconomico rischiano di essere uno starnuto dentro l’uragano della crisi. Motivata da tutte le parti (dal Quirinale all’ultimo dei portaborse) come «indispensabile per tranquillizzare i mercati» sulla tenuta dei nostri conti pubblici, rischia di non avere nessun effetto proprio su questo fronte. La speculazione finanziaria, infatti, lavora su un orizzonte di brevissimo periodo e non si cura affatto né della velocità con cui viene varata una manovra, né della «coesione politica» di una classe dirigente (specie se complessivamente poco credibile come quella italiana); e soprattutto lo fa tenendo d’occhio cifre rispetto alle quali anche gli 87 miliardi cavati a forza dalle tasche degli italiani più poveri sono poco più che spiccioli. Se così non fosse, d’altro canto, la Grecia si sarebbe sottratta da tempo agli attacchi speculativi.
Resta quindi solo questo «brillante risultato»: Berlusconi rimesso in sella senza nemmeno sentirsi obbligato a ringraziare l’opposizione, Napolitano a fare i complimenti a tutti, e Bersani che solo all’ultimo momento – in aula e a giochi ormai chiusi – arriva a definire questa manovra come «classista». Se poi lunedì o martedì ci sarà un’altra giornata di panico in borsa, bisognerà ricordarsi bene di quel che ognuno ha combinato in questo frangente. Per la cabina elettorale, ovvio.
da “il manifesto” del 16 luglio 2011
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«Dalla crisi si può uscire solo con la riduzione delle disuguaglianze». «Questa maggioranza trascura i poveri e pensa solo a salvare i ricchi». Lo afferma in un’intervista a «L’Unità» l’ex leader della Cisl, Pierre Carniti, sottolineando che «se noi non riusciamo a disfarci di questo sistema di potere, temo che l’Italia scomparirà, sarà perduta».
«L’opposizione sociale e politica -aggiunge Carniti- deve crescere a tal punto da creare le condizioni perchè il Governo se ne vada. Il Paese non può reggere il costo di questa gestione dissennata». Quindi, riguardo la manovra appena approvata, l’ex leader sindacale afferma che «è una presa in giro collettiva, ci dà qualche mese di tempo. Tagliare i costi della politica sarebbe almeno un segnale».
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La politica si fa lo sconto, sfuma il taglio agli stipendi degli onorevoli
Correzione notturna al testo neutralizza la norma precedente che riduceva le indennità alla media degli altri Paesi europei. L’ira delle opposizioni. I rimborsi elettorali saranno ridotti solo dalla prossima legislatura, meno auto blu ma dal 2012
di CARMELO LOPAPA
Taglio alle indennità dei parlamentari addio, o quasi. Meglio equipararsi ai sei paesi più ricchi dell’Unione europea. E poi rimborsi elettorali ridotti ma dalla prossima legislatura, auto blu da ridimensionare ma dal 2012, vitalizi salvati in extremis, finanziamenti ai partiti appena sforbiciati. Doveva essere il fiore all’occhiello della manovra lacrime e sangue. Il buon esempio all’insegna dell’austerity dato dalla politica, perché – ammoniva Tremonti ancora pochi giorni fa – non si possono chiedere sacrifici agli italiani senza imporli alla classe dirigente.
E invece ecco servito il bluff. La manovra appena approvata da 70 miliardi, che si abbatterà tra ticket e superbolli su famiglie e risparmiatori, nel testo definitivo rinvia e in qualche caso annulla i buoni propositi di chi l’ha scritta. Il colpo grosso è andato in scena nel chiuso delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio al Senato sulla norma più attesa. Proprio quella che avrebbe dovuto equiparare le indennità parlamentari a quelle dei paesi Ue. Falcidiata tra la notte del 12 e il 13 mattino grazie a un paio di emendamenti targati Pdl.
Il testo originario di Tremonti prevedeva (dalla prossima legislatura) l’equiparazione delle attuali indennità parlamentari italiane a quelle dei 17 paesi dell’area euro. A conti fatti, per passare dall’attuale “trattamento economico” base (al netto delle varie voci accessorie) di quasi 12 mila euro mensili lordi dei nostri parlamentari, ai 5.339 euro della media europea, com’è stata di recente calcolata dal Sole 24 ore. Risultato: Camera e Senato che oggi sborsano circa 144 milioni all’anno per le indennità, ne avrebbero spesi solo 62 milioni, meno della metà (il 53,5% in meno).
E invece, viene azzerato o quasi quel risparmio da 82 milioni. Come? Grazie a due colpi sottobanco. L’emendamento 1.1 del relatore in commissione, il pidiellino Picchetto, che prevede intanto un adeguamento della paga a quella non dei 17 paesi euro, ma dei “sei principali” paesi Ue, quindi dei più grandi. Infine, con l’emendamento 1.2 del duo siciliano (sempre Pdl) Fleres-Ferrara, con cui viene sancito che in futuro l’adeguamento andrà fatto in base alla “media”, sì, ma “ponderata, rispetto al Pil” di quei paesi. Dovrà tener conto cioè non del numero dei cittadini, ma della ricchezza dei sei paesi. Bizantinismi. Sta di fatto, protesta il senatore Pd Francesco Sanna che si è battuto in commissione, “che con il sistema prescelto da maggioranza e governo la riduzione, se ci sarà, sarà lievissima”. Anzi, con la media “ponderata al Pil”, non sarà neanche detto che la decurtazione ci sarà. Il Pdl d’altronde in commissione aveva difeso a spada tratta la busta paga, contro “la deriva populista” e in difesa della “prestigio del Parlamento”, con una sfilza di interventi, da Raffaele Lauro a Giuseppe Saro a Andrea Pastore. Missione compiuta.
Ma è solo il bluff più macroscopico, tra quelli che vengono a galla in queste ore in cui enti locali e sindacati denunciano la mannaia da 500 euro l’anno a famiglia in arrivo con la manovra. Scomparsa la norma che cancellava i vitalizi dei parlamentari che – grazie ai 2.238 assegni staccati ogni mese da Camera e Senato per gli “ex” – comportano un esborso annuo da 218,3 milioni di euro: ben più che per gli onorevoli in servizio. Mai messa nero su bianco quella annunciata sull’azzeramento delle indennità da 2.243 euro dei ministri (che si somma a quella da parlamentare) che avrebbe consentito di risparmiare 100 mila euro al mese, dunque un milione e 200 mila euro l’anno. Ha vissuto solo un paio di giorni sui giornali. Le auto blu – che sono oltre 15 mila e costano 1 miliardo di euro l’anno – non potranno avere in futuro una cilindrata superiore a 1.600, ma quelle in servizio saranno tenute fino alla rottamazione. I rimborsi elettorali ai partiti per le elezioni, che pesano per 180 milioni di euro, saranno ridotti, ma solo “dalla prossima legislatura” e solo del 10 per cento: 18 milioni appena di risparmio. Il voto di ogni tedesco oggi viene ripagato ai partiti con 38 centesimi, in Italia continuiamo a viaggiare sui 3,5 euro. Il rigore sulla politica può attendere.
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Che cosa cambia per le famiglie con il decreto che scatta lunedì?
I tagli alle detrazioni costeranno mille euro
Dagli sconti fiscali per i figli a carico agli asili e agli interessi sui mutui Mille euro di tasse in più in due anni. Tanto potrebbe costare a una famiglia media il taglio delle deduzioni, detrazioni e sconti fiscali previsto nel 2013 e nel 2014 dalla manovra per la correzione dei conti pubblici. Gli sconti fiscali appena censiti dal governo sono la bellezza di 483 e valgono nel complesso 161,2 miliardi di euro: il taglio lineare del 5% previsto nel 2010 farebbe risparmiare 8 miliardi, che l’anno successivo, quando è prevista un’altra sforbiciata del 15%, salirebbero a 32. Sempreché non scatti prima la riforma dell’assistenza, che scongiurerebbe l’aumento delle imposte, ma finirebbe per scaricare i tagli sulle prestazioni sociali.
Se non si arrivasse al riordino dell’assistenza entro il 30 settembre 2013, il taglio delle agevolazioni fiscali sarebbe automatico, e colpirebbe pesantemente e senza scrupoli famiglie, lavoratori dipendenti, autonomi, pensionati, imprese, risparmiatori. A pagare il conto più salato sarebbero le persone fisiche che beneficiano attualmente di 103 miliardi di euro di agevolazioni fiscali a vario titolo. E per la famiglia media italiana sarebbero dolori. Per un contribuente sposato, con figli e coniuge a carico e una casa di proprietà sulla quale pagare il mutuo, la batosta potrebbe arrivare a quasi mille euro nei due anni.
La deduzione della rendita catastale della prima casa oggi consente un beneficio in media di 126,8 euro, che scenderebbero nel 2014 a poco più di 100 mentre la detrazione degli interessi del mutuo diminuirebbe dagli attuali 328 euro annui a 264 euro. Le detrazioni per i figli ed il coniuge a carico, che oggi valgono in media 829 euro per gli 11,8 milioni di contribuenti che ne usufruiscono, con il taglio del 20% scenderebbero a 665 euro. La detrazione da lavoro dipendente, che vale in media 1.332 euro scenderebbe a poco più di mille euro l’anno. Poi si ridurrebbero in proporzione anche le detrazioni per le spese mediche, per i contributi previdenziali e assistenziali, per l’assicurazione sulla vita. Con un aumento delle tasse di 190 euro nel 2013 e di 750 nel 2014.
Di fatto, la detrazione del 19% delle spese mediche sostenute, diverrebbe nel 2013 una detrazione del 18% (-5%) e nel 2014 scenderebbe a poco più del 15%. Così le agevolazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie: oggi sono pari al 36% della spesa (con un limite di 48 mila euro), nel 2013 la detrazione scenderebbe al 34% e nel 2014 a poco meno del 29%.
Nel complesso, la fetta maggiore delle agevolazioni è assorbita dagli sconti fiscali sui redditi da lavoro dipendente e pensione, che valgono 56,8 miliardi di euro l’anno. Le detrazioni, da sole, valgono 37,7 miliardi e riguardano 28,3 milioni di italiani (1.332 euro a testa) seguite dagli sconti sui contributi (9 miliardi), e dalla tassazione separata del Tfr e della liquidazione (4,6 miliardi). Le agevolazioni sulla famiglia valgono 21,4 miliardi e sono assorbite per quasi la metà dalle detrazioni per i familiari a carico (10,5 miliardi per 11,7 milioni di beneficiari). Poi ci sono gli sconti fiscali sulla casa, che pesano 9 miliardi di euro, quelli concessi sulle imposte dirette dovute dalle imprese (10,3 miliardi di euro), tra i quali il cuneo fiscale (4,4 miliardi per 1,1 milioni di soggetti Irap), le agevolazioni sull’accisa, che assorbono 3,7 miliardi l’anno. Per completare il quadro delle 483 agevolazioni esistenti vanno messi in conto l’Iva agevolata (al 10 e al 4%), che si porta via 38,7 miliardi l’anno, le agevolazioni sulle imposte catastali e di registro (4,7 miliardi), e quelle sugli strumenti finanziari (15 miliardi di euro).
L’alternativa, come detto, è quella di recuperare i soldi (in questo caso basterebbero 24 miliardi) dal riordino dell’assistenza. Un serbatoio che vale nominalmente 38 miliardi l’anno, ma che viene alimentato anche dal fisco, che svolge funzioni assistenziali indirette. La razionalizzazione, in questo caso, partirebbe con la costruzione di un nuovo indice di bisogno che sostituirà l’Isee dell’Inps, il che significa avere parametri reddituali più stretti per godere delle prestazioni assistenziali. Ci sarà poi la revisione dei criteri per le invalidità (giunte a costare 16 miliardi di euro l’anno) e per le pensioni di reversibilità, che si mangiano ogni anno circa 34 miliardi di euro. Con un problema evidente, perché le pensioni di reversibilità pagate oggi dall’Inps e dall’Inpdap valgono, in media ed in proporzione, tre volte quelle olandesi e due volte quelle concesse da Francia e Germania.
Mario Sensini
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Caro-Irpef, chi ha 20mila euro pagherà il doppio dei più ricchi
Le previsioni della Voce.info. Le detrazioni ridotte si concentrano sui redditi medio-bassi. E dal taglio agli sconti Iva altri 200 euro di extracosti di VALENTINA CONTE
Alla fine, chi li pagherà quei tagli alle agevolazioni fiscali? Soprattutto le famiglie italiane con redditi medio-bassi. E quanto? Quasi il doppio di quelle abbienti. Fare i conti il giorno dopo l’approvazione d’emergenza della manovra da 48 miliardi non porta buone notizie ai contribuenti. Le famiglie con redditi modesti, e che versano le tasse, nei prossimi anni subiranno la stangata più odiosa. Grazie a una clausola di salvaguardia che mette in sicurezza i conti dello Stato, ma che stravolge quelli domestici.
E dunque, proprio chi fino ad ora contava su detrazioni, deduzioni e bonus fiscali per alleggerire l’Irpef, nel 2013 e nel 2014 vedrà ridotti sensibilmente gli sconti. L’effetto regressivo, calcolato per il sito lavoce. info da Massimo Baldini, economista e docente, si abbatte con particolare iniquità sui nuclei familiari con un reddito medio tra i 16 e i 27 mila euro che a regime, nel 2014, perderanno 620 euro di agevolazioni, su un totale medio di 3 mila euro, quasi il 21%. Un quinto in meno. Al contrario, il 10% più ricco delle famiglie, quelle con un reddito superiore ai 54 mila euro, lasceranno allo Stato solo 364 euro. Perché?
Perché all’aumentare del reddito, le detrazioni Irpef a cui si ha diritto diminuiscono. E dunque i tagli lineari, così come previsti in manovra, per ora indistinti – del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014 sulle 483 agevolazioni oggi esistenti che valgono 161 miliardi l’anno e che dovranno assicurare 4 miliardi il primo anno e 20 il secondo – pesano molto di
più su chi ha più sconti. Ovvero le classi intermedie. Anche perché si tratta di spese per medici e farmaci, per la scuola e la palestra dei figli, l’affitto, la previdenza integrativa, le ristrutturazioni, gli assegni al coniuge, gli interessi sui mutui, le detrazioni per il lavoro dipendente. Una previsione talmente dirompente che lo stesso autore dei calcoli considera “molto bassa la probabilità di un’applicazione” di una manovra siffatta. A meno che, entro il 30 settembre 2013, non venga varata la riforma fiscale e assistenziale con tagli “mirati”.
La regressività del salasso Irpef si somma, poi, anche a un analogo recupero di soldi, ai fini del pareggio del bilancio dello Stato, dall’Iva agevolata del 4 e del 10% che oggi gli italiani pagano quando fanno la spesa, quando comprano medicine, libri, giornali, cellulari, fanno benzina, viaggiano, ristrutturano casa, pagano le bollette o la badante per un genitore malato. Di fatto anche queste aliquote, inferiori a quella più diffusa del 20%, rappresentano agevolazioni fiscali. E dunque soggette alla futura scure dei “tagli lineari”. Lo studio di Baldini calcola che le sforbiciate del 5 e poi del 20% fissate in manovra equivalgono, nei fatti, ad un aumento delle due aliquote agevolate rispettivamente al 4,7% e al 10,5% nel 2013 e al 6,8% e al 12,1% nel 2014. La conseguenza è che un’Iva più alta riscalda i prezzi e lascia meno soldi in tasca alle famiglie. Anche qui esiste un effetto regressivo. Ma più modesto del caso Irpef. Questo perché, spiega lo studio, “le famiglie ad alto reddito consumano molti beni e servizi oggi tassati al 4 o al 10%”. In valore assoluto, le famiglie più povere (con un reddito inferiore ai 12 mila euro) nel 2014 pagheranno 119 euro in più. Quelle ricche (reddito sopra i 54 mila euro) 313 euro in più. La regressività si legge nell’incidenza di questo aumento Iva sul reddito disponibile, chiaramente più alta per chi ha buste paga più magre. Saldando i due effetti, Irpef e Iva, questa manovra pesa il 7% su chi guadagna al di sotto dei 12 mila euro, il 10% su chi denuncia tra i 12 e i 54 mila euro e il 9% sui benestanti. Alla fine, pagano tutti.
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da “IlSole24Ore”
La correzione al 60% con nuove entrate
di Marco Mobili
ROMA. Se non si ribalta poco ci manca. Il rapporto tra nuove entrate e minori spese esce stravolto dopo il passaggio in Parlamento della manovra e il maxiemendamento del Governo. La manovra licenziata definitivamente ieri a Montecitorio e già promulgata dal Capo dello Stato, per il 60% produrrà maggiori entrate e per il restante 40% inciderà sulla spesa. A ribaltare il rapporto è stato l’inserimento al Senato della norma che prevede per il 2013 e il 2014 il taglio delle agevolazioni fiscali, per 4 miliardi il primo anno e per 20 nel secondo.
Nel testo iniziale, sia nel 2011 che nel 2012, le maggiori entrate producevano un effetto marginale sui saldi, mentre nel biennio successivo la riduzione del deficit operava prevalentemente attraverso il contenimento delle spese: circa il 61% nel 2013 e il 74% nel 2014. Ora dal testo licenziato dalle Camere, nel 2011 all’apporto più significativo delle entrate, cui è affidato circa l’89% della correzione, si unisce una contenuta riduzione della spesa. Nel 2012 l’apporto alla manovra netta è interamente legato alle entrate, a fronte di un aumento delle spesa. Nel biennio successivo, entrambe le componenti contribuiscono al miglioramento dei saldi, anche se resta prevalente l’apporto delle entrate: 54,6% nel 2013 e 60,1% nel 2014.
A conti fatti tra maggiori entrate e minori spese la manovra approderà sulla Gazzetta Ufficiale con saldi rinforzati passando dagli iniziali 25,3 miliardi ai 47,9 miliardi attesi per il pareggio di bilancio del 2014. Nel ricordare che l’effetto nei quattro anni è incrementale e non aritmetico, in quanto le misure adottate producono effetti strutturali, la manovra avrà un effetto di riduzione dell’indebitamento netto pari a 2,1 miliardi nell’esercizio in corso, 5,6 miliardi nel 2012, 24,4 miliardi nel 2013 e, come detto, di 47,9 miliardi nel 2014. Il che tradotto in termini di incidenza sul Pil, vorrà dire una correzione sul prodotto interno lordo del 2,7% nell’ultimo anno.
In termini di contenuti sono due i capitoli su cui si sarebbe forse potuto fare di più. I costi della politica dove sono fissati principi generali, ma in un momento di coesione nazionale l’effetto in termini di ‘sacrificio’ economico è di fatto risibile. Tra i principi fissati viene previsto che il trattamento economico dei titolari di parlamentari e titolari di cariche pubbliche non può superare la media ponderata rispetto al Pil degli stipendi percepiti nei sei principali paesi Ue (inizialmente erano 27 i paesi di riferimento).
Qualche contributo in più lo si aspettava anche sull’altro capitolo dello sviluppo. Fatta eccezione dei 623 milioni appostati per il 2011, i 650 per il 2012, i 900 per il 2013 e gli 1,2 miliardi per il 2014 in termini di spesa in conto capitale e destinati alle infrastrutture, per il rilancio del sistema produttivo e la competitività del Paese nel menù finale c’è poco o nulla.
Sulle privatizzazioni e liberalizzazioni poi arrivano due norme ‘programmatiche’: entro il 2013 giungerà il via libera a uno o più piani di privatizzazioni per la dismissione di partecipazioni azionarie dello Stato e di enti pubblici non territoriali; sulle liberalizzazioni delle professioni si rinvia il confronto con le categoria, prevedendo che trascorsi 8 mesi tutto ciò che non sarà regolamentato sarà libero.
In termini di maggiori entrate le poste più ricche arrivano dall’annunciato taglio delle agevolazioni, dal bollo sul deposito titoli, dall’aumento dell’Irap per banche, assicurazioni e concessionari e dalla stabilizzazione dell’aumento dell’accisa della benzina: aumento che peserà nelle tasche degli italiani a partire dal 2012 per ben 2 miliardi di euro.
Ad allarmare i contribuenti è soprattutto, però, il taglio del 5% per il 2013 e del 20% a partire dal 2014 che, se non sarà selettivo, finirà per colpire tutti i bonus garantendo all’Erario un recupero di gettito a regime pari a 20 miliardi di euro. La tagliola sulle agevolazioni, esenzioni, detrazioni e aliquote ridotte non verrà applicata soltanto se entro il 30 settembre 2013 la delega con la riforma fiscale e assistenziale avrà prodotto i suoi effetti.
A pagare un conto salato che nel 2014 toccherà i 2,4 miliardi di euro di maggiori carichi fiscali (si veda il servizio a pagina 6) saranno le imprese.
Sanità e pensioni sono le altre due voci dove lo Stato conta di recuperare risorse. Nel primo caso con la stretta sui ticket sanitari. Nel secondo con una serie di interventi mirati, tra cui la rivalutazione delle pensioni, l’introduzione del contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro, l’aggancio all’aspettativa di vita e dal 2020 l’aumento dell’età di pensione per le donne del settore privato.
Altro contributo consistente arriva dai ministeri che a regime dal 2014 si vedranno congelare 5 miliardi se non convergeranno verso i costi standard. A questi si devono aggiungere i 2,4 miliardi accantonati a fine anno in attesa dell’asta sulle frequenze Tv e ora definitivamente dirottati al miglioramento dell’indebitamento.
Regioni e Comuni, infine, si vedranno ridurre ancora i trasferimenti per un totale di 6,4 miliardi di euro.
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16 giugno 2011
Calderoli vuol ridurre i parlamentari a 500 – Intanto la casta si garantisce lo stipendio di 12mila euro
di Eugenio Bruno e Roberto Turno
La manovra allontana il taglio dei costi della politica ma dentro il Governo la Lega prova ad accelerare. Il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, ha messo a punto la bozza di Ddl costituzionale in 33 articoli che dimezza e porta da 945 a a 500 i parlamentari, rafforza i poteri del «primo ministro», manda in soffitta il bicameralismo perfetto, introduce il Senato federale e abbrevia l’iter delle leggi. Ed è pronto a portarla al pre-Consiglio dei ministri della prossima settimana.
L’intento politico è chiaro: far passare il messaggio che, dopo una maxi-correzione dei conti da 47,8 miliardi che ha impattato solo per lo 0,016% sui partiti che si sono visti tagliare appena 7,7 milioni di rimborsi elettorali, chi amministra la cosa pubblica non può essere esente da sacrifici. Dando così seguito, anche se in ritardo, a uno degli slogan lanciati da Pontida un mese fa. Ma il rischio di un effetto spot c’è tutto. Anche per lo strumento prescelto: una legge di revisione costituzionale avrà bisogno di tempi lunghi, mentre le Camere, in un quadro politico traballante, hanno davanti non più di 20 mesi di lavoro vero.
Il testo, che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, ricalca non senza novità quello messo a punto un anno fa dallo stesso ministro leghista. A cominciare dagli interventi sul Parlamento. Accanto a una Camera dei deputati, formata da 250 componenti anziché i 630 attuali, compare il Senato federale: sarà eletto a suffragio universale su base regionale in concomitanza con le elezioni locali e avrà anch’esso 250 membri, al posto dei 315 odierni. Contemporaneamente sparisce la circoscrizione estero e viene sancito il principio che l’indennità di onorevoli e senatori sarà «stabilita dalla legge, in misura corrispondente alla loro effettiva partecipazione ai lavori secondo le norme dei rispettivi regolamenti». Si potrà diventare deputati e senatori a 21 anni. E presidente della Repubblica a 40. Il suo supplente, in caso di impedimento, sarà il presidente della Camera.
I due rami del Parlamento avranno poteri diversi. La Camera si occuperà delle materie di competenza statale in base a un nuovo elenco della materie contenute dall’articolo 117 della Costituzione che vedrà tornare sotto l’ala dello Stato reti, comunicazione ed energia; il Senato federale esaminerà quelle di competenza concorrente. Camera e Senato federale esamineranno insieme i Ddl costituzionali e quelli sui maggiori poteri regionali su istruzione, ambiente e giudici di pace. Dopo l’approvazione della Camera competente, l’altra assemblea potrà solo esprimere un parere, non vincolante, entro 30 giorni. I tempi di discussione di una legge dovranno avere «termini certi» e il Governo potrà chiedere di limitarli a 30 giorni, ma con altrettante garanzie per le opposizioni.
Il presidente del Consiglio diventa «primo ministro» e acquista più poteri. Sarà nominato sulla base dei risultati elettorali e la fiducia gli sarà data solo dalla Camera «su un determinato programma». In caso di sfiducia il premier dovrà dimettersi entro sette giorni. Per evitare ribaltoni, la mozione di sfiducia potrà indicare un sostituto ma dovrà essere votata dalla maggioranza assoluta dei deputati purché «conforme ai risultati» elettorali. E il capo dello Stato dovrà adeguarsi.
Per il presidente della Repubblica sono però previste anche altre limitazioni. Non nominerà più i senatori a vita: arrivano invece i «deputati a vita», limitati agli ex inquilini del Quirinale. Potrà sciogliere solo la Camera, «anche su richiesta» del primo ministro. E potrà farlo anche negli ultimi sei mesi del suo mandato: scompare così il cosiddetto ‘semestre bianco’.
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da “La Stampa”
Le cure mediche a prezzi stracciati valgono 10 miliardi di euro all’anno. I risparmi vanno dal 30 al 60%
Aggirando le liste d’attesa di Asl e ospedali e pagando qualche spicciolo in più del super-ticket in vigore dalla prossima settimana su visite e analisi, sempre più italiani scoprono la scorciatoia della sanità low cost privata, che oramai fattura quasi 10 miliardi di euro con una crescita del 20-30% l’anno.
L’esplosione
Un vero e proprio boom, destinato a espandersi ancor di più con l’entrata in vigore con la manovra, dei 10 euro su visite specialistiche, analisi e accertamenti diagnostici, che vanno ad aggiungersi ai ticket da 36, in alcuni casi 46 euro già in vigore in tutte le Regioni. Importi destinati a crescere, nel 2014, quando con i contributi degli assistiti bisognerà ottenere il 40% dei risparmi previsti – e sono tanti- per la sanità. A quel punto curarsi nei nuovi centri medici privati low cost che stanno spuntando come funghi in tutta Italia diventerà quasi più conveniente che rivolgersi al pubblico. E i capitali privati l’hanno capito, spingendo il piede sull’acceleratore degli investimenti. Lo dimostra la scesa in campo di grandi gruppi bancari, come Intesa SanPaolo e il Gruppo Banche popolari, primi azionisti della Welfare Italia, 25 poliambulatori specialistici e odontoiatrici sparsi per l’Italia a fine anno, che diventeranno 130 tra 4 anni.
Le stime
A fornire le stime di mercato è la Assolowcost, l’associazione che rappresenta le più svariate imprese, da Ikea alla Dacia automobili, accomunate dalla politica dei bassi costi a buoni livelli di qualità. «Nella sanità è difficile fare stime – spiega il presidente Andrea Cinosi – ma essendo questo uno dei settori di punta del low cost non è azzardato stimare una incidenza pari al 6% della spesa sanitaria complessiva». Ossia un mercato miliardario che sfiora le due cifre.
I due fronti
Alla base del fenomeno c’è ovviamente la crisi, che grava sia sui pazienti che sui medici. Il centro Studi di economia sanitaria, Ceis-Tor Vergata, ha calcolato che nel 2010 in Italia più di 3 milioni di persone hanno avuto problemi economici a causa delle spese sanitarie e che oltre 2 milioni e mezzo di italiani, soprattutto famiglie con bambini e pensionati, sono stati costretti a rinunciare a visite, analisi o appuntamenti dal dentista. E così, per fermare l’emorragia di pazienti/clienti anche gli studi medici e le strutture sanitarie hanno deciso di scendere nell’arena dell’offerta a basso costo, come hanno già fatto trasporto aereo, abbigliamento ed altre professioni.
Secondo l’indagine condotta dalla Scuola di Formazione Continua del Campus Biomedico di Roma,(che non a caso sta avviando un master in imprenditorialità sanitaria) le struttura sanitarie low cost riescono in media a far risparmiare tra il 30% e il 60% rispetto alle normali tariffe di mercato. «Soprattutto concentrando più medici in un unico poliambulatorio per ottenere economie di scala sfruttando in modo intensivo le apparecchiature», spiega Fabio Capasso, direttore della Scuola di formazione dell’Ateneo.
La formula
Le strutture per ora sono concentrate soprattutto a Nord ed offrono servizi medici di vario genere, anche se dove l’offerta low cost è determinante sono i settori non coperti dal Servizio Sanitario Nazionale: cure dentarie e psicoterapia. Due campi dove circa il 90% degli assistiti è costretto a rivolgersi al privato. Ma la formula «bassi prezzi, buona qualità» si sta rivelando vincente anche per visite specialistiche e accertamenti diagnostici, dove il low cost sanitario ha affilato due armi vincenti: prezzi non di molto superiori ai ticket e tempi di attesa praticamente azzerati. Un miracolo ottenuto senza diminuire i livelli di qualità e sicurezza dell’offerta ma, spiega il Presidente di Assolowcost, Andrea Cinosi, sfrondando i costi. «Ad esempio uno studio può decidere di puntare su centrali di acquisto, risparmiando fino al 70% sui materiali sanitari».
Completamente diversa è l’analisi che fa del fenomeno Costantino Troise, segretario nazionale del forte sindacato dei medici ospedalieri Anaao, per il quale «anche il low cost è comunque un privato profit portato per sua natura ad inflazionare la domanda». Come dire: paghi di meno ma spendi di più per prestazioni non sempre necessarie. Il tutto, aggiunge Troise, «con il rischio che continuando con tagli e ticket si favorisca una privatizzazione strisciante facendo del servizio pubblico una sanità povera per i poveri».
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Cresce la pressione fiscale. Colpite le famiglie più deboli
Le riduzioni alle agevolazioni potrebbe pesare fino a 1800 euro a nucleo
Le opposizioni (e si capisce), ma anche i sindacati, le Regioni, il forum delle Famiglie (cioè i vescovi), le associazioni non profit. Il coro di chi protesta contro il taglio lineare dei 483 tra bonus fiscali e agevolazioni che potrebbe scattare nel 2013 in assenza del varo della riforma fiscale, è numeroso, forte e dà voce alle famiglie italiane sulle quali, in massima parte, ricadranno tutte queste sforbiciate. Il perché di tanta rimostranza, semmai fosse necessario argomentarlo, è tutto in un numero: l’abbattimento dei bonus vale 20 miliardi, quindi circa 1,2% del Pil. Di conseguenza la pressione fiscale raggiungerà quota 43,7%. Pagheremo di più per avere di meno: il senso è questo.
Ad andarci di mezzo subito saranno le Regioni e gli enti locali, soggetti principali dell’erogazione dei servizi. Tant’è che la prima voce ad alzarsi contro questa falcidia è stata quella del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani. «Lo squilibrio dei tagli proposti dalla manovra – ha spiegato Errani sta nel fatto che questi gravano in modo insopportabile su Regioni ed enti locali. Basti pensare che poco meno del 50% dell’intervento finanziario pesa sui bilanci delle Regioni, e questo rappresenta un’ingiustizia e necessita di un serio riequilibrio. L’idea di dar luogo a un vergognoso scaricabarile istituzionale non è assolutamente praticabile».
Errani poi giudica la reintroduzione dei ticket sanitari, con i quali tutti dovremo fare i conti da lunedì prossimo, «una scelta gravissima che tocca il portafoglio degli italiani e che peraltro non contribuisce in alcun modo al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e che, semmai, può dirottare la fornitura di determinati servizi verso il privato che proprio a causa del ticket guadagnerebbe una posizione di privilegio sul mercato».
Il dipartimento economico della Cgil ha prodotto uno studio sugli effetti della manovra e ne ha quantificato l’impatto tra i 1.200 e i 1.800 euro annui a nucleo familiare, con la specificazione che sarà soprattutto il lavoro dipendente a doversene fare carico. Lo ha ricordato anche la segretaria del sindacato, Susanna Camusso: «Quando si dice che si interviene sulle detrazioni – spiega – bisogna ricordare che la prima quota di detrazioni sono di protezione al reddito e che la seconda sono gli assegni familiari, cioè le detrazioni per i figli. Siamo di fronte, quindi, a una manovra che, partita per cambiare le aliquote e abbassare le tasse, si risolve nell’appesantire la pressione fiscale per lavoratori e pensionati».
Errani e la Cgil – si dirà – corrono con la sinistra, ma il Forum delle Famiglie, emanazione dei vescovi, è di tutt’altra sensibilità. Eppure tra le posizioni più dure contro i «tagli lineari» c’è proprio quella di questo organismo: «Noi – dice il vicepresidente Roberto Bolsonaro – avevamo individuato delle priorità su cosa tagliare tra le 483 voci di bonus e agevolazioni. Invece il governo cerca la guerra frontale con le associazioni delle famiglie. Non si può tagliare in maniera indiscriminata su tutto. La possibilità di fare scelte c’è, certo si scomoda qualcuno, ma un governo deve saper fare delle scelte». E il vescovo Mario Toso, segretario del pontificio consiglio Giustizia e Pace, se la prende proprio con il Pdl che, in quanto «partito di ispirazione cristiana» (fa parte del Ppe), non dovrebbe «considerare un’ulteriore penalizzazione della famiglia, tanto più che è rimasta uno dei pochi ammortizzatori sociali ancora in funzione». Anche il presidente dell’Agenzia per il terzo settore, Stefano Zamagni, commenta negativamente la scelta dei tagli alle agevolazioni fiscali: «Hanno scelto l’efficienza a scapito della giustizia redistributiva».
«La situazione – conclude la sociologa Chiara Saraceno – impone sacrifici per tutti, ma una politica di pura austerità, che non considera le condizioni per arrivare al domani, rischia di essere una manovra suicida: non si consuma più. Ma – insiste – non si può vivere solo di esportazioni». «Se proprio si dovevano ridurre le detrazioni – sostiene – l’intervento doveva riguardare altri familiari a carico, non i figli minori o quelli che studiano regolarmente. Tutto ciò succede in un Paese in cui esiste pochissimo per i figli. Le detrazioni non sono misure eque: sono più vantaggiose per i redditi alti che per quelli bassi o gli incapienti. Andava pure fatto un “disboscamento”, indubbiamente, ma in cambio di servizi»
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