GENOVA
«Sono sicuro. I fori erano due. Uno in testa e uno su una guancia». Dopo dieci anni, uno degli infermieri arrivati a piazza Alimonda pochi minuti dopo la morte di Carlo Giuliani, quel 20 luglio 2001, ha deciso di parlare. Lo fa tenendo per mano una figlia di cinque anni «che ancora non può capire che cosa è successo in quelle giornate». Si chiama Leonardo Livi, ha 46 anni e oggi lavora al 118 di Voltri, quartiere dell’estrema propaggine di Genova andando a Ponente. È un professionista stimato. Oggi è in ferie. Veste una maglia “La rossa primavera gang”.
Dove lavorava nel 2001?
Ero infermiere di pronto soccorso e sull’automedica, al San Carlo di Voltri, dove lavoro tuttora. Allora eravamo l’unico ospedale ad avere un’automedica. Le altre erano alla centrale del 118 all’ospedale di San Martino. La nostra serviva per coprire il ponente. In occasione del summit ci diedero una serie di incarichi operativi e utilizzarono anche il nostro mezzo. Io fui affidato con altri colleghi al Baluardo, proprio nell’area del Porto Antico, dove era stato allestito un posto di primo soccorso, con medici e infermieri che operavano sulle 24 ore. Si trovava in piena zona rossa e così ci dettero un pass, un grosso cartello di plastica che conservo ancora oggi, in modo da poter entrare e uscire senza difficoltà. In quella zona, a parte una giornalista giapponese che aveva male ai piedi per i tacchi a spillo, focaccia al formaggio a go go e tavolate da favola per i vip, non succedeva niente. Ci annoiavamo da morire. Così si decise di andare in giro. Il 19 c’eravamo fermati tra corso Aurelio Saffi e via Fiodor e vedemmo passare il corteo dei migranti. Quel corteo era una cosa meravigliosa, corrispondeva proprio all’idea che mi ero fatto del G8 a Genova: una grande Woodstock con Manu Chao sul palco, la gente che accoglie gli stranieri, i genovesi che regalano pizze alla Foce. Il 20 mattina avevo perso tempo al Baluardo.
Che cosa successe nelle ore successive?
Nell’isola felice del Baluardo, non sapevamo niente dei disordini già in mattinata in corso Torino. Ma il primario di Voltri, Paolo Cremonesi, ci informò e disse che era meglio andare per la città. È difficile descrivere quello che vivevamo. Se da una parte ci stringevamo il cuore per la storia delle griglie dappertutto, per il resto noi, inconsapevoli o incoscienti, con quel pass andavamo dove volevamo. Così nel primo pomeriggio siamo andati in piazza Dante. I manifestanti lanciavano degli oggetti oltre la rete e le forze di polizia rispondevano con gli idranti. Finita la cosa ci allontanammo col nostro primario e finimmo dalle parti della Questura, in corso Aurelio Saffi. Quel che succedeva in giro lo sapevo anche dalle continue telefonate di amici e parenti incollati alla tv a guardare quelle manifestazioni sempre più violente. Il mio cellulare era bollente. A un certo punto alla radio del 118 sentimmo «c’è un ferito da arma da taglio in piazza Alimonda». Andammo subito con la nostra automedica, eravamo così vicini che ci arrivammo in pochi minuti, forse erano le 17 e 35. Ci infilammo in mezzo a quel macello. Fummo i primi dei soccorsi ad arrivare. C’era ancora un grande casino in giro. Vedemmo un corpo a terra. Io misi gli elettrodi sul costato, era una linea piatta. Constatammo che non c’era più niente da fare. Era morto.
Nei video si vede un poliziotto che urla «sei tu che l’hai ucciso con quel sasso». Lei era già lì?
Quella scena non l’ho vista. Ho comprato quasi tutte le videocassette, mi sono rivisto, ma quella scena e altre cose non le ho viste. Forse sono successe prima.
Il defender era già andato via?
Sì. Avevano già ripulito la scena.
Giuliani aveva la canottiera?
No, nei miei ricordi era a torso nudo. Sicuramente senza passamontagna, altrimenti non gli avrei visto così bene la faccia.
Ebbe il tempo di analizzare più a fondo il corpo di Giuliani?
Non molto. Fu tutto molto veloce. C’era un gran casino e non ci aspettavamo di vedere un morto. Noi eravamo arrivati lì pensando di trovare un accoltellato. Però mi ricordo che ero accanto a lui, io ero in piedi, lui era steso lungo a terra e sono certo di aver visto due fori. Uno alla testa e uno alla guancia. Intanto erano arrivate altre due automediche del 118. In breve tempo fummo tutti fatti allontanare. Quando siamo risaliti in auto e abbiamo cambiato zona non ho più sentito nessun messaggio radio su piazza Alimonda. Ho capito dopo che lo hanno tenuto lì per altre ore nella piazza. Quando siamo andati via noi forse erano le 18,30. Ne ho viste di tutti i colori, vado e lavoro allo stadio, ma una violenza come quella non l’ho mai vista. Ho pianto come una fontana. Per me, cittadino comune, il G8 è stato tre giorni di regime cileno e la cosa più terribile è stato vedere la mia città sfregiata, quando tutti avevano aperto le proprie case.
Nelle udienze del processo per devastazione e saccheggio contro 25 manifestanti è stato avanzato il dubbio, suffragato anche da immagini fotografiche, che qualcuno abbia colpito ripetutamente il cranio di Carlo. Vide qualcosa di anomalo alla testa?
No. Ma ripeto, le forze di polizia hanno circondato il corpo quasi subito e ci hanno fatto allontanare. Per un po’ siamo stati dall’altra parte della piazza, vicino all’edicola.
Ma è sicuro di aver visto quel foro in testa visto che l’autopsia (realizzata per altro senza un perito di parte) attesta che il cranio era «attinto» da un solo colpo allo zigomo sinistro?
Sì. È un dubbio atroce che mi porto dietro. Quando hai una versione che non collima con quella ufficiale, col tempo pensi di aver avuto le traveggole. Però le sensazioni che ebbi allora sono suffragate da un sms che mandai a un amico: «Un buco in testa, gli hanno sparato» (in testa, non sulla guancia come da autopsia, ndr). Lo ha tenuto per diversi anni. Poi ha cambiato il cellulare e così il messaggio è andato perso.
Che cosa ha ricavato da quelle giornate?
Sono incise nel cervello a carattere indelebile. Ricordo ogni singolo momento come fosse ieri. Per me Genova è una ferita che non rimarginerà mai. Noi della sanità immaginavamo di mettere qualche cerotto, non certo di vedere un morto in piazza. Quella scena ha cambiato la mia vita, anche quella affettiva. Domenica 22, passata anche la Diaz, ero da solo, a rimuginare tutto, senza poter dormire. Ho deciso che da lì dovevo ricominciare tutto da capo. E così ho fatto. Sono tornato con mia figlia a piazza Alimonda anche due anni fa e ci risaremo questo 20 luglio. Del G8 le ho raccontato che a Genova nel 2001 c’erano gli orsi cattivi e io mettevo i cerotti a tanti feriti perché gli orsi picchiavano. Per il resto ogni volta che ne parlo e che passò da piazza Alimonda mi viene la pelle d’oca. Dal ponente a San Martino ci vado molto di rado, ci porto solo i traumatizzati gravi. Ogni volta che passo rivedo quella scena al rallentatore. La scorsa settimana era mezzanotte, ero in ambulanza, il paziente che trasportavamo era sotto controllo. Ho aperto il finestrino. Ho guardato fuori. Cosa fai, mi ha detto un collega, guardi il panorama a mezzanotte? La mia collega allora aveva 15 anni. Le ho spiegato che per me dieci anni non sono mai passati. Le dichiarazioni di questa intervista riaccendono una serie di quesiti sull’omicidio avvenuto alle 17,27 di quel 20 luglio 2001: chi c’era esattamente sulla camionetta? Chi ha sparato visto che Placanica ha cambiato la sua versione diverse volte? Che credibilità ha la perizia che portò all’archiviazione dell’omicidio con l’ipotesi di un sasso che devia il proiettile verso il basso? E soprattutto quanti sono i proiettili sparati, visto che secondo il tribunale ce ne sono stati solo due: uno su Giuliani (deviato dal sasso, appunto) e l’altro sul muro della chiesa, e quella alla fronte era solo una ferita? La mamma di Carlo, Haidi, da noi interpellata dopo l’intervista a Livi, ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione.
«Sono sicuro. I fori erano due. Uno in testa e uno su una guancia». Dopo dieci anni, uno degli infermieri arrivati a piazza Alimonda pochi minuti dopo la morte di Carlo Giuliani, quel 20 luglio 2001, ha deciso di parlare. Lo fa tenendo per mano una figlia di cinque anni «che ancora non può capire che cosa è successo in quelle giornate». Si chiama Leonardo Livi, ha 46 anni e oggi lavora al 118 di Voltri, quartiere dell’estrema propaggine di Genova andando a Ponente. È un professionista stimato. Oggi è in ferie. Veste una maglia “La rossa primavera gang”.
Dove lavorava nel 2001?
Ero infermiere di pronto soccorso e sull’automedica, al San Carlo di Voltri, dove lavoro tuttora. Allora eravamo l’unico ospedale ad avere un’automedica. Le altre erano alla centrale del 118 all’ospedale di San Martino. La nostra serviva per coprire il ponente. In occasione del summit ci diedero una serie di incarichi operativi e utilizzarono anche il nostro mezzo. Io fui affidato con altri colleghi al Baluardo, proprio nell’area del Porto Antico, dove era stato allestito un posto di primo soccorso, con medici e infermieri che operavano sulle 24 ore. Si trovava in piena zona rossa e così ci dettero un pass, un grosso cartello di plastica che conservo ancora oggi, in modo da poter entrare e uscire senza difficoltà. In quella zona, a parte una giornalista giapponese che aveva male ai piedi per i tacchi a spillo, focaccia al formaggio a go go e tavolate da favola per i vip, non succedeva niente. Ci annoiavamo da morire. Così si decise di andare in giro. Il 19 c’eravamo fermati tra corso Aurelio Saffi e via Fiodor e vedemmo passare il corteo dei migranti. Quel corteo era una cosa meravigliosa, corrispondeva proprio all’idea che mi ero fatto del G8 a Genova: una grande Woodstock con Manu Chao sul palco, la gente che accoglie gli stranieri, i genovesi che regalano pizze alla Foce. Il 20 mattina avevo perso tempo al Baluardo.
Che cosa successe nelle ore successive?
Nell’isola felice del Baluardo, non sapevamo niente dei disordini già in mattinata in corso Torino. Ma il primario di Voltri, Paolo Cremonesi, ci informò e disse che era meglio andare per la città. È difficile descrivere quello che vivevamo. Se da una parte ci stringevamo il cuore per la storia delle griglie dappertutto, per il resto noi, inconsapevoli o incoscienti, con quel pass andavamo dove volevamo. Così nel primo pomeriggio siamo andati in piazza Dante. I manifestanti lanciavano degli oggetti oltre la rete e le forze di polizia rispondevano con gli idranti. Finita la cosa ci allontanammo col nostro primario e finimmo dalle parti della Questura, in corso Aurelio Saffi. Quel che succedeva in giro lo sapevo anche dalle continue telefonate di amici e parenti incollati alla tv a guardare quelle manifestazioni sempre più violente. Il mio cellulare era bollente. A un certo punto alla radio del 118 sentimmo «c’è un ferito da arma da taglio in piazza Alimonda». Andammo subito con la nostra automedica, eravamo così vicini che ci arrivammo in pochi minuti, forse erano le 17 e 35. Ci infilammo in mezzo a quel macello. Fummo i primi dei soccorsi ad arrivare. C’era ancora un grande casino in giro. Vedemmo un corpo a terra. Io misi gli elettrodi sul costato, era una linea piatta. Constatammo che non c’era più niente da fare. Era morto.
Nei video si vede un poliziotto che urla «sei tu che l’hai ucciso con quel sasso». Lei era già lì?
Quella scena non l’ho vista. Ho comprato quasi tutte le videocassette, mi sono rivisto, ma quella scena e altre cose non le ho viste. Forse sono successe prima.
Il defender era già andato via?
Sì. Avevano già ripulito la scena.
Giuliani aveva la canottiera?
No, nei miei ricordi era a torso nudo. Sicuramente senza passamontagna, altrimenti non gli avrei visto così bene la faccia.
Ebbe il tempo di analizzare più a fondo il corpo di Giuliani?
Non molto. Fu tutto molto veloce. C’era un gran casino e non ci aspettavamo di vedere un morto. Noi eravamo arrivati lì pensando di trovare un accoltellato. Però mi ricordo che ero accanto a lui, io ero in piedi, lui era steso lungo a terra e sono certo di aver visto due fori. Uno alla testa e uno alla guancia. Intanto erano arrivate altre due automediche del 118. In breve tempo fummo tutti fatti allontanare. Quando siamo risaliti in auto e abbiamo cambiato zona non ho più sentito nessun messaggio radio su piazza Alimonda. Ho capito dopo che lo hanno tenuto lì per altre ore nella piazza. Quando siamo andati via noi forse erano le 18,30. Ne ho viste di tutti i colori, vado e lavoro allo stadio, ma una violenza come quella non l’ho mai vista. Ho pianto come una fontana. Per me, cittadino comune, il G8 è stato tre giorni di regime cileno e la cosa più terribile è stato vedere la mia città sfregiata, quando tutti avevano aperto le proprie case.
Nelle udienze del processo per devastazione e saccheggio contro 25 manifestanti è stato avanzato il dubbio, suffragato anche da immagini fotografiche, che qualcuno abbia colpito ripetutamente il cranio di Carlo. Vide qualcosa di anomalo alla testa?
No. Ma ripeto, le forze di polizia hanno circondato il corpo quasi subito e ci hanno fatto allontanare. Per un po’ siamo stati dall’altra parte della piazza, vicino all’edicola.
Ma è sicuro di aver visto quel foro in testa visto che l’autopsia (realizzata per altro senza un perito di parte) attesta che il cranio era «attinto» da un solo colpo allo zigomo sinistro?
Sì. È un dubbio atroce che mi porto dietro. Quando hai una versione che non collima con quella ufficiale, col tempo pensi di aver avuto le traveggole. Però le sensazioni che ebbi allora sono suffragate da un sms che mandai a un amico: «Un buco in testa, gli hanno sparato» (in testa, non sulla guancia come da autopsia, ndr). Lo ha tenuto per diversi anni. Poi ha cambiato il cellulare e così il messaggio è andato perso.
Che cosa ha ricavato da quelle giornate?
Sono incise nel cervello a carattere indelebile. Ricordo ogni singolo momento come fosse ieri. Per me Genova è una ferita che non rimarginerà mai. Noi della sanità immaginavamo di mettere qualche cerotto, non certo di vedere un morto in piazza. Quella scena ha cambiato la mia vita, anche quella affettiva. Domenica 22, passata anche la Diaz, ero da solo, a rimuginare tutto, senza poter dormire. Ho deciso che da lì dovevo ricominciare tutto da capo. E così ho fatto. Sono tornato con mia figlia a piazza Alimonda anche due anni fa e ci risaremo questo 20 luglio. Del G8 le ho raccontato che a Genova nel 2001 c’erano gli orsi cattivi e io mettevo i cerotti a tanti feriti perché gli orsi picchiavano. Per il resto ogni volta che ne parlo e che passò da piazza Alimonda mi viene la pelle d’oca. Dal ponente a San Martino ci vado molto di rado, ci porto solo i traumatizzati gravi. Ogni volta che passo rivedo quella scena al rallentatore. La scorsa settimana era mezzanotte, ero in ambulanza, il paziente che trasportavamo era sotto controllo. Ho aperto il finestrino. Ho guardato fuori. Cosa fai, mi ha detto un collega, guardi il panorama a mezzanotte? La mia collega allora aveva 15 anni. Le ho spiegato che per me dieci anni non sono mai passati. Le dichiarazioni di questa intervista riaccendono una serie di quesiti sull’omicidio avvenuto alle 17,27 di quel 20 luglio 2001: chi c’era esattamente sulla camionetta? Chi ha sparato visto che Placanica ha cambiato la sua versione diverse volte? Che credibilità ha la perizia che portò all’archiviazione dell’omicidio con l’ipotesi di un sasso che devia il proiettile verso il basso? E soprattutto quanti sono i proiettili sparati, visto che secondo il tribunale ce ne sono stati solo due: uno su Giuliani (deviato dal sasso, appunto) e l’altro sul muro della chiesa, e quella alla fronte era solo una ferita? La mamma di Carlo, Haidi, da noi interpellata dopo l’intervista a Livi, ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione.
da “il manifesto” del 17 luglio 2011
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