Tra i sindacalisti autentici invece – quelli che ormai vengono definiti un po’ da tutti «conflittuali» – le differenze di interpretazione sono davvero poche.Gianni Rinaldini, ex segretario Fiom e coordinatore dell’area «La Cgil che vogliamo», sceglie per una volta l’arma dell’ironia. «Mi sono letto il testo più volte per tentare di capirne il senso; alla fine cercavo anche il nome dell’eventuale nuovo presidente del consiglio o la formula di governo. Ma non c’è». E quindi «il significato sta nel fatto in sé». Cosa che «rende evidente la svolta realizzata con l’accordo del 28 giugno», dove – «annullando il diritto di voto dei lavoratori su accordi e contratti» – «si dice che i lavoratori non contano nulla».
Fine dell’ironia. «È tutta un’operazione proiettata su un governo di salvezza nazionale, per rendere attuabili misure di vero e proprio massacro sociale». Il riferimento diretto è ai «9 punti» del programma presentato sul quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore. Ed è fuorviante anche il paragone con gli accordi del 1992-’93, «nel contesto attuale assolutamente improponibile, perché veniamo da 20 anni di redistribuzione della ricchezza dai lavoratori ai profitti e alle rendite», oltre che di «sistematica distruzione di diritti, tutele e contrattazione». Un risultato realizzato «con l’appoggio di Confindustria e del sistema finanziario, che oggi peraltro criticano la manovra del governo per ragioni esattamente opposte alle esigenze dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli». E quindi «resta misterioso il perché la Cgil annunci ‘forme di mobilitazione generale in autunno’ mentre sigla un documento che parla di ‘patto con imprese e banche’. Contro chi la facciamo la mobilitazione (a parte Berlusconi)?»
Toni simili da Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom e storico esponente della sinistra radicale in Cgil. «E se Berlusconi accettasse il ‘patto’? Consoliderebbe il suo governo e renderebbe ridicola questa operazione. Se invece lo rifiuta, che faranno i firmatari? Scenderanno in piazza insieme ai rappresentanti di Goldman Sachs?»
Anche il sindacato di base Usb batte sul tasto del «programma di Confindustria» («privatizzazione dei servizi, liberalizzazioni, in pensione a 70 anni, aumento delle rette universitaria, meno carico contributivo sul lavoro»), che non accenna nemmeno a «recupero dell’evasione fiscale, tassare le transazioni finanziarie, i grandi patrimoni,ecc». Da quelle parti non nutrono naturalmente alcuna nostalgia degli «accordi del ’92-93» ma individuano ora una «nuova triade» quasi cinese: «Confindustria, banche e sindacati». È un’innovazione di fatto. Nel loro linguaggio, infatti, c’era la «triplice» (Cgil, Cisl e Uil). Ma le cose cambiano, magari in (molto) e le categorie vanno aggiornate.
Patto senza senso
COFFERATI «I sindacati dovrebbero mobilitarsi contro la manovra»
Loris Campetti
«Prima finisce l’attività di questo governo meglio è. Poi ci sarebbe una sola cosa da fare: andare alle urne». Sergio Cofferati, europarlamentare del Pd ed ex segretario generale della Cgil, è molto preoccupato per l’autunno quando «si concretizzeranno sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati e dei giovani le conseguenze di una manovra economica ingiusta, senza sviluppo e temo inutile ai fini della riduzione del debito. Le organizzazioni sindacali dovrebbero mettere in campo grandi mobilitazioni contro l’iniquità della manovra, invece di sottoscrivere ambigui e inutili patti finalizzati allo stare insieme, senza contenuti. Il rischio è che i sindacati si riducano a svolgere, non so quanto consapevolmente, una funzione politica, rinunciando alla loro autonomia».
Tutti insieme appassionatamente, imprenditori, banchieri e sindacati per chiedere una discontinuità alla guida del governo. Seguono cori entusiasti che evocano lo spirito del ’92-’93. Come giudichi questa iniziativa, nel pieno di una pesante crisi finanziaria, economica e sociale?
Lascerei da parte lo spirito del ’92-’93, e persino la manovra fatta da Prodi con una tassa per l’Europa, restituita un anno dopo alla metà dei contribuenti. Comunque la si pensi, in quelle manovre c’erano anche elementi di equità. In vent’anni, poi, la condizione sociale non è certo migliorata. Oggi la manovra economica del governo è iniqua, non c’è un’idea di crescita e sviluppo perché non si investe un euro nella ricerca e nell’innovazione o in una seria politica di infrastrutture. Una manovra che colpisce le famiglie, i lavoratori dipendenti, i pensionati e soprattutto i giovani. Con i ticket sanitari, l’Irpef sulla prima casa, l’attacco alla previdenza. Non c’è occupazione aggiuntiva in vista e senza investimenti i giovani che escono dalla scuola non hanno prospettive lavorative, mentre centinaia di migliaia di dipendenti in cassa integrazione in deroga perderanno il lavoro. La crescita della disoccupazione, contestualmente alla caduta delle protezioni sociali, può determinare un clima pericoloso non tra un anno ma subito, già a settembre: temo reazioni di scoramento, sfiducia, disaffezione, lontananza crescente dalla politica. I sindacati, qualora se ne rendessero conto dovrebbero organizzare grandi mobilitazioni contro la manovra, non per ridurne l’entità ma per introdurre elementi di equità sociale. Firmare invece patti generici con le controparti che chiedono politiche di sviluppo senza dire come e quali, fa pensare a una scelta politicista, a una rinuncia a esercitare la propria autonomia. A chi evoca lo spirito del ’92-’93 sfugge che gli elementi positivi di quella stagione sono stati cancellati dall’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil di un mese fa su contratti e rappresentanza.
L’Italia è a rischio, e in nome dell’emergenza crescono le tentazioni di unità senza principi. Come valuti questa crisi, e come bisognerebbe affrontarla?
L’emergenza è reale, è sotto gli occhi di tutti. È stata provocata dagli errori clamorosi del governo Berlusconi per le cose fatte e per quelle non fatte. Abbiamo un grande debito che ci espone alle richieste europee di rientro ma abbiamo anche, a differenza di altri paesi, un’assenza di crescita. Rischiamo il tracollo provocato dalla speculazione sul debito e l’esplosione di una crisi sociale per mancanza di risorse, riduzione del welfare e caduta dell’occupazione. A questo il governo risponde con una manovra che non prende neanche in considerazione l’idea della crescita, iniqua perché pesa sui redditi più bassi e inefficace persino a fini della riduzione del debito. Insospettabili commentatori parlano di macelleria sociale su giornali che l’indomani brindano allo spirito del patto inconsistente tra le parti sociali. In questo quadro, invece di generici richiami allo stare insieme servirebbero, lo ripeto, iniziative sindacali di lotta. Le manovre e gli accordi del ’92-’93, la stessa manovra correttiva di Dini del ’95 erano molto pesanti ma contenevano elementi di equità in un contesto di coesione, concertazione, politica dei redditi, e incentivi alla crescita.
Cosa bisognerebbe mettere in campo per riavviare una politica di sviluppo?
Investimenti per l’innovazione e la ricerca e l’ammodernamento delle infrastrutture, in chiave keynesiana. Le risorse si possono trovare dai privati e con interventi previsti in campo europeo, dagli eurobond a una tassa sulle transizioni finanziarie. Lo so anch’io che tali interventi dovrebbero essere messi in campo a livello europeo, ma nessuno ci impedirebbe di anticiparli, o di intervenire sulle grandi ricchezze accumulate, sia finanziarie che materiali. Questo dovrebbe essere messo al centro di una grande battaglia per l’uscita dalla crisi e l’avvio di una stagione di sviluppo, reintroducendo elementi di giustizia sociale. Mi rendo conto che si tratterebbe di invertire una tendenza negativa e penso che in questo ipotetico ma concreto scenario l’accordo sventolato tra le parti sociali non avrebbe, come non ha, né capo né coda. Il documento «unitario» tra le rappresentanze sociali è privo di indicazioni concrete, ha un carattere puramente evocativo, chiede una discontinuità al vertice del governo sognandone uno di larghe intese ed è rivolto all’embrassons nous della politica. Berlusconi se ne deve andare il prima possibile, ma l’unica conseguenza logica e democratica dovrebbero essere le elezioni.
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Loris Campetti
UN PATTO A PERDERE
Il manifesto della «discontinuità» incontra il pensiero di un Sergio Marchionne particolarmente affezionato alla metafora della nave da guerra che combatte nel libero mercato contro le altre navi da guerra, in cui il nemico del rematore non è più l’armatore con cui dev’essere pappa e ciccia ma la nave nemica, e dunque i rematori e l’armatore nemici. Tutti uniti per salvare il paese, in pace come in guerra, sembra un appello lanciato dal presidente Giorgio Napolitano per essere fatto proprio da un arco di forze che va da Bersani a Fini, naturalmente aperto a un pdl postberlusconiano.
Prima che antipopolare è – sarebbe – un patto politicista, finalizzato per molti dei sottoscrittori a garantire un governo di unità nazionale, o di transizione che dir si voglia, senza Berlusconi ma impedendo il passaggio del timone nelle mani del centrosinistra come esito possibile e forse anche probabile di un ricorso anticipato alle urne. Questo vuol dire «discontinuità». Un patto vuoto di contenuti che immagina manovre economiche non dissimili da quelle di Tremonti. Non un patto per lo sviluppo ma un patto contro Berlusconi, blindato da tutti per evitare ipotetici cambiamenti di campo. Ammesso che il centrosinistra garantirebbe un cambiamento di paradigma e di interlocutori nella definizione di un piano anticrisi.
Come ha detto ieri al manifesto il segretario della Fiom Maurizio Landini e come ripete oggi Sergio Cofferati sul nostro giornale, le organizzazioni sindacali dovrebbero organizzare grandi mobilitazioni contro la manovra ingiusta e la politica economica del governo, invece di stringere patti contro natura e inefficaci ad affrontare la precipitazione della questione sociale in autunno. Scegliere invece la seconda strada, da parte della Cgil, segnala un’ulteriore, pericolosissima perdita di autonomia del sindacato.
Ciampi: serve un’intesa nello spirito del ’92-’93
di Dino Pesole
Se lo sostiene un padre nobile della concertazione, c’è da credergli. «Osservo con soddisfazione – commenta Carlo Azeglio Ciampi – che nell’appello lanciato da diciassette associazioni rappresentative di tutte le parti sociali, si evoca lo spirito del ’92-93. È un’iniziativa che condivido in pieno».
Il presidente emerito della Repubblica coglie in quell’appello tutti gli elementi di svolta che già aveva ampiamente sottolineato e apprezzato nell’accordo interconfederale del 28 giugno tra Confindustria e i sindacati. «Tra quell’intesa e l’appello lanciato due giorni fa colgo forti elementi di continuità. E come allora anche oggi formulo l’auspicio che si torni allo spirito di quegli anni, il 1992 e 1993, spirito di responsabilità e condivisione di grandi obiettivi». Ora – aggiunge – «ci vorrebbe un bis».
La lettura dei giornali, le lunghe passeggiate all’Alpe di Siusi, lontano dal frastuono delle polemiche politiche contingenti, inducono Ciampi a riflettere ad alta voce sui problemi di fondo che anche al di là di è chiamato pro tempore a fronteggiarli richiedono risposte di lunga durata. «Vede, insisto da tempo su un un punto, che mi pare fondamentale. Quando si pone l’attenzione sugli andamenti dell’economia e della finanza pubblica, non si considera a pieno che se non aumenta il denominatore anche lo sforzo per risanare i conti si fa molto più arduo. Non cresciamo da troppo tempo. Ecco l’imperativo categorico. Occorrono segnali, occorre una scossa. Il paese ha le energie per uscire da questa lunga fase di bassa crescita».
Può sembrare fuor di luogo, oggi, rievocare lo spirito del ’93, ma Ciampi invita a riflettere per un attimo l’attenzione su quel che accadde in quegli anni. Nell’autunno del ’92 siamo finiti a un passo dal precipizio. Ne siamo usciti perché ha prevalso in tutti, governo e parti sociali in primo luogo la percezione che occorreva uno sforzo congiunto. Come dire, tutti concentrati sullo stesso obiettivo. «La situazione oggi è radicalmente diversa da allora, eppure non posso non cogliere delle similitudini. L’ho vissuto in prima persona, da presidente del Consiglio, quello spirito di condivisione che condusse alla firma dell’accordo del luglio 1993. L’anno prima, il 31 luglio del 1992, con il governo Amato era stata raggiunta un’importante intesa sul costo del lavoro, con la sofferta firma di Bruno Trentin». Due passaggi che Ciampi non esita a definire dei veri «punti di svolta». Allora l’imperativo era contenere la dinamica salariale, e porre le premesse per il risanamento della finanza pubblica. I risultati furono evidenti, perché su quella base fu possibile costruire il percorso che avrebbe portato, sotto la regia di Ciampi ministro del Tesoro del governo Prodi, a ridurre in un solo anno il deficit di quattro punti, consentendo così di agganciare il treno della moneta unica.
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