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Il welfare paga il risanamento
Passa la «legge Fiat». Salteranno le cause della Fiom contro gli accordi separati
Modesti saranno anche gli introiti dell’«imposta di solidarietà»: dovrebbe trattarsi di un contributo del 5 percento per i redditi oltre i 90 mila euro, del 10 percento per quelli sopra i 150 mila euro. A pagare l’addizionale sarà dunque solo chi ha redditi attualmente tassati con l’aliquota del 41 percento. Viene aumentata l’aliquota Irpef per i lavoratori autonomi che dichiarano redditi oltre 55 mila euro l’anno. La tassazione sulle rendite finanziarie sale al 20 percento: capital gain e interessi sulle obbligazioni, ma non quelle pubbliche (Bot, Ccct, e bond a tasso variabile) che continueranno ad avere una ritenuta alla fonte del 12,5 percento.
Anche i roboanti annunci (corredati da campagna pubblicitaria) sulla lotta all’evasione fiscale si traducono in poca cosa: tutte le transazioni superiori ai 2500 euro dovranno essere tracciabili (prima l’obbligo scattava dai 5 mila euro in su), e le sanzioni per la mancata emissione di fatture o scontrini fiscali saranno inasprite fino alla sospensione dell’attività.
Il grosso della manovra verrà dai tagli alle pensioni. La mediazione con Bossi ha portato allo stralcio dell’intervento sulle pensioni di anzianità (nella bozza di decreto per diverse migliaia di lavoratori la possibilità di ritiro sarebbe stata bloccata a partire dal 2012). Ma il grosso dei risparmi verrà dalle donne: il progressivo innalzamento a 65 anni dell’età di pensionamento per le donne impiegate nel privato (per quelle del settore pubblico l’innalzamento era già stato deciso lo scorso anno) viene anticipato dal 2020 al 2016.
E la campana suona anche per gli statali: i dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità. Mentre il trattamento di fine rapporto, sempre agli statali, verrà corrisposto con due anni di ritardo.
La manovra varata dal consiglio dei ministri contiene «un meccanismo efficace di privatizzazione dei servizi locali e una normativa efficace su municipalizzate, oltre a norme per la semplificazione e le liberalizzazioni che anticipano la riforma dell’articolo 41 della Costituzione» ha annunciato Tremonti. È stato invece stralciato il taglio del 30 percento degli incentivi alle energie rinnovabili.
«Addolorati ma soddisfatti» Berlusconi e Tremonti, l’unico ministro a cantare vittoria è Maurizio Sacconi che nel decreto è riuscito a inserire alcune norme in materia di lavoro. Passa la cosiddetta «legge Fiat», la legge voluta dal Lingotto per sterilizzare i ricorsi della Fiom contro i contratti separati firmati da Cisl e Uil. I contratti aziendali o territoriali, d’ora in avanti, avranno la capacità di regolare tutto ciò che attiene all’organizzazione del lavoro e della produzione «anche in deroga ai contratti collettivi e alle disposizioni di legge quando non attengano ai diritti fondamentali nel lavoro che in quanto tali sono inderogabili e universali».
Domenico Gallo
ARTICOLO 41
La costituzione economica, l’ultima sfida
Anzi la situazione di emergenza rende l’attacco ancora più insidioso. Invocare la manomissione dell’art. 41 della Costituzione, come strumento per reagire al disastro dei conti pubblici, significa attribuire alla Costituzione il fallimento economico che è stato determinato, invece, dalla politica. Da una politica dissennata di dissipazione dei beni pubblici, a cominciare dall’Erario (condoni agli evasori, scudi fiscali, etc.)
Ma veniamo all’art. 41. Cosa dice questa norma? Comincia con l’affermazione «l’iniziativa economica privata è libera». Aggiunge poi che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Precisa infine che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Cosa c’è in tali previsioni che possa mortificare lo sviluppo delle forze produttive? Cosa si vuole? Che vengano cancellate le norme finalizzate a contrastare la formazione di monopoli? O alcune di quelle finalizzate alla tutela del lavoro o dei consumatori? O che si possa intraprendere qualsiasi attività economica, anche se pericolosa, senza alcuna autorizzazione preventiva?
A ben vedere l’art. 41 è uno dei capitoli più innovativi e originali della Costituzione italiana, nel quale è sviluppata una concezione dell’attività economica che equilibra la logica del mercato e della proprietà con le funzioni sociali, garantite e promosse dall’intervento pubblico. Essa si fonda sul riconoscimento della centralità del lavoro e sulla consapevolezza dell’importanza che l’assetto e i rapporti economici hanno ai fini della realizzazione di una società di esseri umani liberi e uguali. Si tratta di una scelta di civiltà, come fu una scelta di civiltà quella tra democrazia e totalitarismo.
Nel momento in cui il fallimento dell’ideologia liberista e del capitalismo selvaggio (certificato ieri dalla crisi dei mutui e oggi dalla crisi delle borse) ha mostrato i limiti invalicabili di una politica che pretende di trasferire tutta la sovranità al mercato, la concezione equilibrata del fenomeno economico prefigurata dai costituenti si rivela di straordinaria attualità. Questa concezione ha ricevuto un’ulteriore legittimazione dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che ha inserito le dinamiche produttive nei binari dell’economia sociale di mercato, fondata sul riconoscimento della dignità prevalente della persona.
L’attacco politico all’art. 41 della Costituzione prefigura pertanto un inaccettabile imbarbarimento dei rapporti economico-sociali, e svela un progetto politico che punta a demolire l’edificio dei diritti dell’uomo il cui destino non può essere separato dal contesto economico sociale nel quale si svolge la vita di ciascuno. Questo proposito conferma la natura eversiva del progetto politico che fa capo all’attuale maggioranza di governo che, abbandonando ogni cautela, punta ora al bersaglio grosso: la demolizione della «costituzione economica».
Certo la modifica dell’art. 41 è un obiettivo, più che altro simbolico perché non determina effetti concreti immediati, bensì rimanda a un’altra idea di società e di Stato, ma proprio per questo bisogna opporsi con determinazione.
Formigoni: il federalismo fiscale è morto
«Con i tagli che il Governo ci ha proposto oggi possiamo dire ufficialmente che il federalismo fiscale è morto». Il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni non usa mezze misure dopo l’incontro con il Governo a Palazzo Chigi. «Il federalismo fiscale era già stato affossato dalla manovra di luglio – ha detto Formigoni – senza dimenticare che che era pesata molto anche la manovra dell’autunno 2010. Ma con le prospettive di tagli comunicateci oggi dal Governo possiamo dire – ha ribadito – che il federalismo fiscale è definitivamente morto».
Tagli per 6 miliardi agli enti locali. Ma per Formigoni «il decreto non è blindato»
Il Governatore della Lombardia è poi entrato nello specifio sull’entità dei tagli annunciati dal Governo: «Per quanto riguarda il comparto Regioni, Province, Comuni, c’è stato annunciato un taglio di 6 miliardi per il 2012 e 3 miliardi per il 2013. I 6 miliardi – ha spiegato Formigoni – sono così
distribuiti: 1,7 miliardi ai Comuni, 0,7 alle province, 1,6 alle Regioni a statuto ordinario e 2 alle Regioni a statuto speciale».
Eppure Formigoni si dice certo che l’ultima parola sul decreto non è stata ancora detta: «Anche il presidente Berlusconi si è mostrato perplesso sui tagli agli enti locali che rischiano di mettere ancora più in difficoltà la nostra gente», ha aggiunto, ribadendo la disponibilità a cercare, assieme al Governo, delle «misure alternative» per fare fronte alla crisi, senza però «apportare quei tagli che rischiano di tradursi a tagli alla spesa sociale e ai servizi». «Ma il decreto non è blindato», ha concluso
Calderoli: «Formigoni si sbaglia sul federalismo fiscale»
«Mi spiace dissentire profondamente dal giudizio espresso dal presidente Formigoni in relazione al federalismo», afferma il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli. «Sbaglia completamente, tenuto conto che Comuni e Province hanno fortemente richiesto, all’incontro
che abbiamo avuto oggi con loro, tavolo a cui peraltro partecipava lo stesso Formigoni, un’anticipazione al 1° gennaio 2012 dell’attuazione completa del federalismo Comunale e Provinciale. La suddetta richiesta di anticipo da parte di Comuni e Province certifica che il federalismo, per gli enti locali, rappresenta l’unico strumento tramite cui superare l’attuale crisi. Il Governo ha dato disponibilità alle richieste in tal senso di Comuni e Province e se anche le Regioni lo vorranno confermiamo la stessa analoga disponibilità anche nei loro confronti».
Zaia: «Non toccheremo i servizi sociali». Alemanno: «L’Anci pronto a mobilitarsi»
Ma sui tagli agli enti locali la battaglia non sembra finita. Anche Luca Zaia, governatore del Veneto, chiosa che «nonostante il bilancio rigoroso che
dovremo affrontare il Veneto salverà dai tagli le colonne portanti della vita dei propri cittadini: Sanità, Sociale, Formazione Scuola Lavoro e Trasporto Pubblico non verranno toccati».
Dura anche la reazione di Gianni Alemanno, sindaco di Roma e vicepresidente dell’Anci: «I tagli che ci sono stati comunicati oggi dal Governo attaccano il solo fronte sociale. Per quanto ci riguarda noi sindaci siamo disponibili a mettere ai raggi X le nostre spese, che sono tutte incontenibili». A questo punto – ha esortato Alemanno – l’Anci deve mobilitarsi, anche se ci auguriamo che il Governo possa apportare le opportune correzioni ai tagli di cui oggi ci ha parlato. Anche ad Alemanno, però, il premier è sembrato «molto perplesso» sul piano tagli. E come gli altri, spera in una revisione di quanto annunciato, anche perché per la città di Roma, che nell’ottobre scorso ha acquisito lo status di Capitale, i tagli significherebbero «una riduzione delle sue risorse per 270 milioni di euro in due anni, visto che pesa per il 10% del totale». (Ch. B.)
Una stangata da anni ’80
STEFANO LEPRI
Abolire i «ponti» potrà forse impressionare i più stolidi tra gli analisti finanziari americani, soliti a giudicare l’Italia attraverso gli stereotipi della dolce vita e del mandolino. Però non ci si può illudere che lavorare due o tre giorni in più possa guarire la malattia di bassa crescita di cui soffre l’economia italiana. Non è che la produttività del lavoro sia bassa in assoluto, è che ristagna da anni: un problema assai più complesso, con aspetti sia interni sia esterni alle imprese.
Lo spostamento al lunedì delle festività civili è solo un aspetto marginale della nuova maxi-manovra di bilancio, che solo nel 2012 ci costerà circa mille euro a famiglia; tuttavia ne simbolizza bene l’aspetto di déjà-vu. Sembra di tornare agli Anni 80.
Beninteso, una «stangata» – come si cominciò a dire allora – purtroppo ci vuole, e pesante (lo sarebbe stata meno se ci si fosse pensato prima). Sarà inevitabile che nei prossimi giorni molti strillino «perché a me?» tentando di scaricare l’onere su altri. Siamo invece in un momento in cui nessuno si può tirare indietro. Ma ciò non impedisce di stupirsi di fronte a un insieme di misure che appare piuttosto oscuro nella sua logica: tante, disparate, talvolta modificate all’ultimo da mercanteggiamenti politici; alcune che servono soltanto a prendere tempo e non a risanare, come il rinvio di due anni del Tfr agli statali che vanno in pensione.
Abbiamo un sistema fiscale complicato, e lo si complica ancor più. Dovendo aumentare le tasse, si sceglie di non toccare quelle che sulla crescita economica incidono meno, ovvero quelle sugli immobili e su patrimoni di altro genere. Si esclude una misura semplice e a gettito certo come l’aumento dell’Iva, che era stata discussa nei giorni scorsi. Dopo aver parlato di lotta all’evasione si vara una sovrattassa differenziata fra redditi da lavoro dipendente e da lavoro autonomo, con l’implicita ammissione che gli autonomi evadono, e dunque occorre stangarli a partire da cifre dichiarate più basse rispetto ai dipendenti.
In altri casi, c’è una inversione di rotta. Le sanzioni più severe contro i negozianti che non fanno lo scontrino fiscale, o la tracciabilità dei pagamenti, sono misure che in altri tempi all’attuale maggioranza piaceva definire vessatorie, ed attribuire alle tendenze vampiresche dell’ex ministro Vincenzo Visco. La tassazione al 20% delle rendite finanziarie era stata volta a volta suggerita dalle opposizioni, dai sindacati, in alcune fasi anche dalla Confindustria, e respinta in modo più o meno sgarbato a seconda di chi fosse l’interlocutore.
Purtroppo non c’è nulla sulle pensioni di anzianità, mentre un intervento lì avrebbe risparmiato sacrifici più duri altrove. Certo, alcune novità sono positive. Accorpare i piccoli Comuni si poteva già cinquant’anni fa, quando l’emigrazione svuotò le campagne; va benissimo anche farlo adesso, pochi mesi dopo che Commissione europea e Fondo monetario l’hanno imposto alla Grecia. Si risparmierà qualcosa eliminando le Province minori, sebbene non si possa escludere che in una prima fase l’efficienza amministrativa, dato il trasferimento dell’ufficio ad altra sede, diminuisca (trasmettere i poteri alla Regione, o al Comune nelle grandi città, sarebbe stato più semplice).
Un giudizio completo si potrà dare quando i provvedimenti saranno noti in tutti i dettagli. Frattanto, il lungo elenco di misure fiscali e para-fiscali fa sospettare che, spezzettandolo in più voci, si voglia camuffare il purtroppo inevitabile aumento delle tasse. Il risultato che si ottiene è appunto la somiglianza con le manovre raffazzonate degli Anni 80. Ovvero che ci si trovi a che fare con una classe dirigente che, come si disse di certi militari del XX secolo, erano benissimo preparati a combattere la guerra precedente.
È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana. Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull’aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che “non mette le mani nelle tasche degli italiani”. Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che “in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato”. Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall’inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall’inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall’inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell’occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.
La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto “contributo di solidarietà” per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l’eurotassa introdotta dal governo Prodi nel ’96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore “di classe”, come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell’allevamento di Arcore. La scelta di aggredire l’Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi “super-ricchi” (511 mila italiani, cioè l’1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l’anno) fa sì che all’imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l’anno). Dunque, l’intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.
Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l’impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l’intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l’universo dei pensionati, che tra disincentivi all’anzianità e anticipo dell’età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare. Dall’altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l’esito non potrà non essere l’aumento dei tributi locali e l’azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c’è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.
Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell’emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai “costi della politica”. Ancora una volta l’improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già malriposte attese della vigilia. C’è finalmente una sforbiciata delle province e l’accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente “svenduta” nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c’è poco e niente, a parte il modestissimo “obolo” sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy. Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta “patrimoniale”: l’unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all’inizio della sua legislatura perché le considerava “leggi di stampo sovietico”.
Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell’economia e alla produzione della ricchezza. È l’aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un’idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino. Tutti gli stati dell’Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un’economia. “Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo”, ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.
Via le piccole province e i micro-Comuni
Tagli sul Tfr dei lavoratori pubblici
Decurtazioni per chi non rispetta gli obiettivi di riduzione della spesa. Pagamento ritardato per le buoneuscite
MILANO – Nel decreto varato del Consiglio dei ministri non ci sono solo i contributi di solidarietà addizionali all’Irpef, di cui si parlava già da due giorni e che vengono comunque confermati: 5% della quota eccedente i 90.000 euro e 10% della quota eccedente i 150.000 euro per i lavoratori dipendenti; e addizionale a partire dall’aliquota del 41% applicata ai redditi superiori a 55mila euro per gli autonomi. Nel documento contenente le «disposizioni per la stabilizzazione finanziaria» ci sono interventi in diversi altri settori, alcuni puramente di taglio – come i minori trasferimenti agli enti locali e la minore dotazione per le spese dei ministeri -, altri legati a nuove forme di entrata.
IL SETTORE PUBBLICO – Alcuni interventi – il sito di Palazzo Chigi li elenca solo per titoli, qualcosa dei dettagli è invece emerso durante la conferenza stampa di Berlusconi e Tremonti – riguardano in particolare il settore pubblico. Ad esempio, secondo le anticipazioni dell’Ansa, i dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità. E, ancora, potrebbe essere stabilito il pagamento con due anni di ritardo dell’indennità di buonuscita dei lavoratori pubblici. Non è invece prevista alcuna riduzione degli stipendi degli statali, notizia che era circolata nelle prime indiscrezioni nei giorni scorsi ma sarebbe al momento saltata.
GLI ENTI LOCALI – Quanto alla paventata riduzione delle Province considerate inutili, dalle prossime elezioni vi sarebbe la soppressione di quelle relative ad una popolazione complessiva al di sotto dei 300.000 abitanti, ovvero 36 enti sparsi nell’intero territorio nazionale. Il governo vorrebbe poi la fusione dei Comuni sotto i mille abitanti – e sarebbero coinvolti circa 1.500 enti su un totale di circa 8 mila – e la riduzione dei componenti i Consigli regionali.
LE PENSIONI – Ci saranno poi aggiustamenti in campo previdenziale, su cui probabilmente la Lega farà pesare la propria posizione negativa. In particolare, viene anticipato dal 2020 al 2015 il progressivo innalzamento a 65 anni (entro il 2027) dell’età pensionabile delle donne nel settore privato. Sono previsti inoltre interventi disincentivanti per le pensioni di anzianità, con l’anticipo al 2012 del requisito della quota 97 data dalla somma tra età anagrafica e anni di contribuzione.
LE FESTE INFRASETTIMANALI – Quanto alle festività infrasettimanali «non concordatarie», ovvero non religiose, verranno spostate alla domenica e di conseguenza non ci sarà vacanza da scuola o dal lavoro nel giorno esatto in cui cadono. Il 25 aprile del prossimo anno, ad esempio, cadrà di mercoledì ma all’atto pratico sarà un giorno come tutti gli altri. Le celebrazioni per la Liberazione saranno spostate alla domenica precedente o successiva. E lo stesso varrà per le altre festività laiche. In questo modo non ci sarà interruzione dell’attività produttiva e, come ha sottolineato Berlusconi, «non ci saranno più i ponti», considerati deleteri dalle aziende. Era stato ipotizzato anche uno spostamento delle festività al lunedì, per limitare solamente i ponti ma senza cancellare del tutto la festività infrasettimanale. Ma poi ha prevalso l’accorpamento alla domenica «come accade a livello europeo».
LOTTA ALL’EVASIONE – C’è poi il capitolo della lotta all’evasione fiscale. E’ stata prevista la tracciabilità – vale a dire l’obbligo di pagare con assegni o trasferimenti bancari e non in contanti – di tutte le transazioni superiori ai 2.500 euro con comunicazione all’Agenzia delle entrate delle operazioni per le quali è prevista l’applicazione dell’Iva. È inoltre previsto ‘inasprimento delle sanzioni, fino alla sospensione dell’attività, per la mancata emissione di fatture o scontrini fiscali.
NIENTE RITOCCHI DELL’IVA – Nella bozza di manovra non vi sarebbe invece alcuna traccia di un possibile aumento dell’Iva. Anzi l’ipotesi sarebbe accantonata. E salterebbe anche qualunque intervento sugli immobili e i patrimoni mobiliari. E’ poi stato confermato l’aumento al 20% per tutte le rendite finanziarie, esclusi gli interessi dei titoli di Stato che restano al 12,5%.
VOLI IN CLASSE ECONOMICA – Non saranno interessati dalle riduzioni «del comparto pubblico la sanità, la scuola, la ricerca, la cultura e il 5 per mille», come ha sottolineato Tremonti nel corso della conferenza stampa a Palazzo Chigi. Un’altra delle misure adottate riguarda l’utilizzo di voli in classe economica da parte di parlamentari, amministratori pubblici, dipendenti dello Stato, componenti di enti ed organismi.
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Le Province che rischiano di sparire
Gli enti che amministrano meno di 300 mila abitanti che la manovra anti-crisi potrebbe cancellare
MILANO – Questo l’elenco delle 36 province sotto i 300mila abitanti, comprese quelle delle regioni a statuto speciale, che rischiano di sparire in base alla norma contenuta nella bozza della manovra all’esame del Consiglio dei ministri. Accanto il numero degli abitanti, tra parentesi il partito del presidente della provincia: 18 del Pd, 12 del Pdl, 4 della lega, e uno ciascuno di Mpa e Sel.
Ascoli Piceno: 214.068 (Pdl)
Asti: 221.687 (Pdl)
Belluno: 213.474 (Lega)
Benevento: 287.874 (Pd)
Biella: 185.768 (Lega)
Caltanissetta: 271.729 (Mpa)
Campobasso: 231.086 (Pdl)
Carbonia-Iglesias: 129.840 (Pd)
Crotone: 174.605 (Pdl)
Enna:172.485 (Pdl)
Fermo:177.914 (Sel)
Gorizia:142.407 (Pd)
Grosseto:228.157 (Pd)
Imperia:222.648 (Pdl)
Isernia:88.694 (Pdl)
La Spezia:223.516 (Pd)
Lodi:227.655 (Lega)
Massa Carrara: 203.901 (Pd)
Matera:203.726 (Pd)
Medio Campidano:102.409 (Pd)
Nuoro:160.677 (Pd)
Ogliastra:57.965 (Pd)
Olbia Tempio: 157.859 (Pdl)
Oristano: 166.244 (Pdl)
Pistoia: 293.061 (Pd)
Prato: 249.775 (Pd)
Rieti: 160.467 (Pd)
Rovigo: 247.884 (Pd)
Savona: 287.906 (Pdl)
Siena: 272.638 (Pd)
Sondrio: 183.169 (Lega)
Terni: 234.665 (Pd)
Trieste: 236.556 (Pd)
Verbano-Cusio-Ossola: 163.247 (Pdl)
Vercelli: 179.562 (Pdl)
Vibo Valentia: 166.560 (Pd).
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