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le reazioni sulla stampa di oggi.
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dal Corriere della sera
Un nuovo governo dell’economia
Venerdì il governo ha preso decisioni che avranno notevole impatto sull’economia e la società italiana e questa volta, come era atteso da tempo, anche sul settore pubblico. Le singole misure sono analizzate e commentate in altre parti del giornale. Qui vorrei mettere in luce una scelta di fondo di cui non si è parlato, ma che non deve essere stata facile per il Presidente del Consiglio. Una scelta che, per le sue implicazioni, potrebbe cambiare l’impostazione di politica economica del governo Berlusconi nella parte restante di questa legislatura.
Di fronte alle perentorie richieste dell’Europa e dei mercati, il governo ha dovuto scegliere tra la via dell’irredentismo e la via della redenzione.
Avrebbe potuto cercare di sottrarsi alle indicazioni del «podestà forestiero» (l’articolo di domenica scorsa, 7 agosto, ha dato luogo a un dibattito sul quale tornerò prossimamente) e rivendicare con spirito irredentista un maggiore spazio, quello che l’Unione Europea normalmente riconosce, per le scelte politiche nazionali. Invece ha deciso, con lucidità e rapidità, di imboccare una strada di redenzione o, in termini più asettici, di modifica di alcuni connotati di fondo che avevano caratterizzato, fin dall’inizio, l’impostazione di politica economica del governo.
E’ comprensibile che l’inversione di rotta venga ora attribuita per intero all’aggravamento, innegabile, della crisi internazionale. Ma quei limiti – di natura politica, non tecnica – erano evidenti da molto tempo ed erano stati segnalati da più commentatori.
Il ministro dell’Economia, di cui molti tendono oggi a dimenticare il merito di aver saputo mantenere un certo rigore di bilancio con un governo e una maggioranza poco inclini a tale virtù, non ha affrontato, né forse valutato, adeguatamente i problemi della competitività, della crescita, delle riforme strutturali indispensabili per rimuovere i vincoli alla crescita (il federalismo fiscale, oggi oggetto di dibattiti accesi, è stato spesso presentato come la riforma strutturale introdotta da questo governo).
Il Presidente del Consiglio, da parte sua, non ha mai mostrato di considerare l’economia – tranne l’agognata riduzione delle tasse – come una vera priorità del suo governo, né ha mai assunto un visibile ruolo di coordinamento attivo e di impulso della politica economica, come fanno da tempo gli altri capi di governo. Essi lo esercitano soprattutto nel promuovere la crescita, assistiti da un ministro dell’economia reale o dello sviluppo di alto profilo, oltre che nel garantire copertura politica al ministro finanziario, nella sua azione rivolta prioritariamente alla disciplina di bilancio. Negli ultimi tempi, invece, Berlusconi pareva spesso infastidito dall’arcigno Tremonti e dai suoi «no» agli altri ministri, più che dedicarsi alla guida strategica dello sviluppo, in raccordo con l’Europa (due responsabilità a lungo lasciate scoperte di titolari).
Negli ultimi giorni, tutto pare cambiato. Il Presidente del Consiglio ha preso visibilmente la guida. Si è schierato, per amore o per forza, dalla parte del rigore. Almeno su questo, non dovrebbero più esserci contrapposizioni con il ministro dell’Economia.
Entrambi, dopo avere prestato scarsa attenzione alle raccomandazioni rivolte loro per anni dalla Banca d’Italia, si premurano di seguire ora le indicazioni – molto simili! – della Banca Centrale Europea.
È una svolta positiva e importante, pur se avvenuta nella precipitazione e perciò con due conseguenze negative. Le misure adottate, che potrebbero ben chiamarsi «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa», non hanno potuto essere studiate con il dovuto riguardo all’equità e gravano particolarmente sui ceti medi. Inoltre, la priorità crescita, pur sottolineata dalla Commissione europea e dalla Bce, rischia di essere vissuta come «meno prioritaria», nella situazione di emergenza in cui l’Italia, soprattutto per sua responsabilità, è venuta a trovarsi.
Crescita ed equità. Come molti osservatori hanno notato, è ora su questi due grandi problemi, trascurati nei primi tre anni della legislatura, che l’azione del governo, delle opposizioni e delle parti sociali dovrà concentrarsi, con un comune impegno come auspica il Presidente Napolitano. E ciò, ben inteso, non a scapito della finanza pubblica, ma anzi per rendere duraturi i progressi realizzati in quel campo.
Mario Monti
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Statali, arriva la mobilità Cambi anche da settembre
M. Antonietta Calabrò – Corriere della Sera
I dipendenti pubblici potranno essere trasferiti ad altra sede se il datore di lavoro (Stato, Ministeri, ecc…) lo riterrà necessario «per esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo».
È una delle misure innovative in campo di pubblica amministrazione contenute nella manovra per la riduzione della spesa pubblica. «In sostanza il datore di lavoro pubblico ha il potere di modificare il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa attraverso lo strumento del trasferimento definitivo o temporaneo», ha spiegato una nota del ministero guidato da Brunetta.
È bene dire che i trasferimenti potranno partire da subito, senza aspettare la contrattazione con i sindacati. Infatti, «l’esigibilità della prestazione da parte del datore di lavoro pubblico è previsto che passi attraverso una regolamentazione in sede di contrattazione collettiva di comparto, soprattutto per stabilire regole su mobilità interregionale». Ma intanto «nelle more della disciplina contrattuale si fa riferimento ai criteri datoriali, oggetto di informativa preventiva, e il trasferimento è consentito in ambito del territorio regionale di riferimento». Ciò vuol dire che all’interno della stessa regione già adesso si può.
Lo scopo è quello di ottenere anche per questa via gli obiettivi di risparmio nei ministeri di ulteriori 7 miliardi e mezzo di euro entro il 2013 ( cinque miliardi nel 2012 e due miliardi e mezzo l’anno successivo). Se questi obiettivi non saranno raggiunti sarà effettuato il differimento (senza interessi) del pagamento agli statali delle tredicesime mensilità in tre rate annuali posticipate. Ministeri ed enti pubblici insomma dovranno accorpare gli uffici, con una riduzione organica del costo del personale. In relazione alla diminuzione degli uffici — sottolinea Palazzo Vidoni — «è prevista anche la diminuzione della dotazione organica del personale assegnato. In tal caso la riduzione viene calcolata non sulle unità di personale bensì sulla spesa complessiva, che dovrà ridursi in misura non inferiore al 10%».
Quanto al rischio che non venga pagata la tredicesima (un istituto esteso a tutti i lavoratori dipendenti dal 1960) è ipotizzabile che se la misura diventerà effettiva si possa scatenare un’ondata di impugnazioni e ricorsi.
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da Il Sole 24 Ore
Manovra: 16 miliardi di tagli, stretta sulle tasse
di Davide Colombo e Marco Mobili
Una correzione da 45,5 miliardi. Da attuare in 24 mesi e con una scansione di 20 miliardi nel 2012 e di 25,5 nel 2013 per piegare il livello dell’indebitamento netto sul Pil dal 3,9% programmatico di quest’anno al pareggio, appunto, nel 2013. Sette giorni dopo il drammatico annuncio dell’anticipo di parte della manovra triennale, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti hanno sintetizzato con questi numeri la portata del decreto legge che dovrebbe essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di oggi.
Il presidente del Consiglio ha parlato di un testo equo e corrispondente alle indicazioni arrivate dalla Banca centrale europea. «Un equilibrio giusto tra tagli di spesa – ha detto Berlusconi – e nuove imposizioni che abbiamo adottato con il cuore che gronda di sangue per rispondere a una sfida che è planetaria».
Oltre ai saldi del prossimo biennio la correzione inciderà anche sul deficit del 2011, visto che il Consiglio del ministri, dopo aver stralciato la stretta sulle pensioni di anzianità, ha acceso il disco verde a un aumento dell’accisa sulla benzina e sul tabacco. Giulio Tremonti ha rinviato alla mattinata di oggi un’illustrazione più puntuale del testo con l’ausilio degli altri ministri, limitandosi a una prima elencazione delle misure più importanti. Si va dall’anticipo al 2012 del taglio per 6 miliardi aggiuntivi ai ministeri nel 2012 e di altri 6 miliardi agli enti territoriali; trasferimenti mancati che saranno compensati con un anticipo dell’attuazione del federalismo fiscale.
Questi potranno ridursi a 5 se funzionerà la “Robin Hood tax” per il settore energetico. Si tratta di una maxi-addizionale all’Ires dovuta dai produttori petroliferi, di energia elettrica, gas, biomasse e fotovoltaico, per i tre anni d’imposta 2011-2013 nella misura del 10,5 per cento. L’attuale aliquota, infatti, viene maggiorata di ulteriori quattro punti percentuali. Sul fronte del pubblico impiego i dipendenti in uscita si vedranno liquidare l’indennità di buonuscita per anzianità (sarebbero escluse quelle di vecchiaia) con due anni di ritardo. Se poi i ministeri non rispetteranno gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità. Il pubblico impiego è colpito anche da due interventi previdenziali che garantiranno risparmi per un miliardo nel 2012: l’estensione della finestra unica di pensionamento alla scuola e il posticipo del Tfr per i pensionamenti si anzianità.
A contribuire al raggiungimento del pareggio nel 2013 peseranno i 4 miliardi attesi dall’attuazione della delega fiscale e assistenziale che ora il Governo chiede di ottenere entro la fine dell’anno. A garanzia dei quattro miliardi attesi dall’attuazione della riforma fiscale e assistenziale, ha ricordato lo stesso Tremonti, c’è il taglio delle tax exependitures per un importo equivalente.
Sul fronte fiscale la più pesante delle misure varate è il contributo di solidarietà biennale: sarà pari al 5% per i redditi sopra 90mila euro e del 10% sopra 150mila; un prelievo forzoso in linea con quello già in vigore nel settore pubblico per le pensioni più elevate (solidarietà raddoppiata per i parlamentari).
Arriva per decreto ed entrerà in vigore dal 1° gennaio la tassazione al 20% delle rendite finanziarie in luogo del 12,5% sui capital gains e degli interessi sui conti correnti bancari e postali. Sono esclusi titoli di Stato, mentre i rendimenti dei fondi di previdenza complementare non sconterebbero più alcun prelievo, visto che è stata cancellata l’aliquota dell’11%.
In arrivo poi la nuova rimodulazione degli studi di settore e una stretta sulla tracciabilità dei pagamenti in contanti: la soglia oltre la quale scatta l’obbligo di comunicazione al Fisco dell’operazione scende da 3.000 a 2.500 euro. Torna anche la sanzione accessoria per chi non emette fatture e scontrini. In particolare i professionisti che in cinque anni commetteranno quattro omissioni di fatture potranno essere sospesi dall’albo e quindi chiudere lo studio per un minimo di tre giorni fino a un massimo di un mese.
Per far cassa il Governo ricorre ancora una volta alla sorte e in particolare a nuovi giochi numerici o a nuove lotterie che potranno essere introdotti dai Monopoli. A completare gli interventi sul fronte della spesa i tagli ai costi della politica («54mila poltrone in meno» ha detto Berlusconi) e l’accorpamento delle festività laiche alle domeniche come avviene in Europa.
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Il Pd presenta una contro-manovra in sette punti
La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Per questo il Partito Democratico propone un «contro piano, un progetto responsabile e alternativo per il bene del Paese». Un piano articolato in sette punti: da un prelievo sui capitali scudati, alla tracciabilità per importi superiori ai mille euro fino al dimezzamento dei parlamentari, alle liberalizzazioni e alla dismissione di immobili pubblici.
«Per affrontare l’emergenza si prevede un prelievo straordinario una tantum sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e scudati – si legge nel testo presentato dal Pd -, in modo da perequare il prelievo su questi cespiti alla armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% e di adeguare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati.
Gran parte di questi 15 miliardi – si legge nel programma – dovrà essere utilizzata per i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno così da consentire immediati investimenti da parte dei comuni».
Il partito di Bersani ritiene poi necessario «un pacchetto di misure efficaci e non solo di facciata contro l’evasione fiscale, tali da produrre effetti immediati, consistenti e concreti. Si propongono dunque alcuni interventi, tra i quali figurano le misure anti-evasione che in parte riprendono quelle dolosamente abolite dal governo Berlusconi: tracciabilità dei pagamenti superiori a 1.000 euro (pensare a somme più elevate significa lasciare di fatto tutto come è oggi) ai fini del riciclaggio e soglie più basse, a partire dai 300 euro, per l’obbligo del pagamento elettronico per prestazioni e servizi; obbligo di tenere l’elenco clienti-fornitori, il vero strumento di trasparenza efficiente; descrizione del patrimonio nella dichiarazione del reddito annuo con previsione di severe sanzioni in caso di inadempimento».
Al terzo punto il Pd suggerisce l’introduzione «di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni e che inglobi l’attuale imposta comunale unica sugli immobili, in modo di ricollocare l’Italia nella media e nella tradizione di tutti i maggiori paesi avanzati del mondo». Si deve poi attuare un «piano quinquennale di dismissioni di immobili pubblici in partenariato con gli enti locali (obiettivo minimo 25 miliardi di euro)».
Capitolo liberalizzazioni: il Pd propone «di realizzare immediatamente almeno una parte delle proposte di liberalizzazione che il partito ha già preparato e presentato: ordini professionali, farmaci, filiera petrolifera, RC auto, portabilità dei conti correnti, dei mutui e dei servizi bancari, separazione Snam rete gas, servizi pubblici locali. Il Pd è contro la privatizzazione forzata, ma non contro le gare e la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Tutto questo si può fare immediatamente senza bisogno di riforme costituzionali.
Il sesto punto del progetto è dedicato alle politiche industriali per la crescita. Il Pd propone «di adottare subito misure concrete per alleggerire gli oneri sociali e un pacchetto di progetti per l’efficienza energetica, la tecnologia italiana e la ricerca, con particolare riferimento alle risorse potenziali e sollecitabili del Mezzogiorno.
Sarebbe un errore imperdonabile intervenire sul controllo dei conti pubblici senza mettere in campo, sia pure limitatamente alle risorse disponibili, un pacchetto di stimoli alla crescita e per l’occupazione. In questo contesto rientra anche l’implementazione dei più recenti accordi tra le parti sociali senza intromissioni che ledano la loro autonomia».
Infine la parte dedicata a pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. «In Italia – spiega il testo – la riduzione della spesa deve riguardare non tanto sulla spesa sociale, ma l’area della Pubblica Amministrazione, le istituzioni politiche e i settori collegati. A Cominciare dal Parlamento: il primo passo è il dimezzamento del numero dei parlamentari. Il Pd ha presentato da tre anni proposte specifiche su questo punto. Su sollecitazione dei gruppi parlamentari del Pd la discussione su questi progetti è stata calendarizzata in Parlamento per settembre. Si agisca immediatamente. Da lì in giù, bisogna intervenire su Regioni, Province, Comuni con lo snellimento degli organi, l’accorpamento dei piccoli comuni, il dimezzamento o più delle province secondo l’emendamento presentato dal Pd e dall’Udc alla manovra di luglio o, in alternativa, riconducendole ad organi di secondo livello, accorpamento degli uffici periferici dello Stato, dimezzamento delle società pubbliche, centralizzazione e controllo stretto per l’acquisto di beni e servizi nella pubblica amministrazione».
Secondo il Partito Democratico si deve inoltre riprendere «un vero lavoro di spending review, interrotto dal governo Berlusconi, dal punto di vista di una politica industriale per la pubblica amministrazione. Il Pd ha proposte specifiche su ciascuno di questi punti. In particolare sui costi della politica il riferimento è il programma contenuto nell’ordine del giorno presentato due settimane or sono in Parlamento».
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Aliquota unica sulle rendite
di Matteo Prioschi
Arriva l’aliquota unica sulle rendite finanziarie. Il consiglio dei ministri di ieri ha confermato le indicazioni fornite dal ministro Tremonti nei giorni scorsi. I conti correnti bancari, anche quelli vincolati, e quelli postali vedranno la tassazione sui rendimenti scendere dal 27 al 20 per cento. Obbligazioni, pronti contro termine, azioni, fondi comuni ed Etf, invece, saliranno di 7,5 punti rispetto al 12,5% attuale.
Non saranno toccati dal provvedimento i titoli di Stato, che rimarranno al 12,5 per cento. Secondo quanto stimato dal governo, queste modifiche, peraltro già previste dalla delega fiscale e ora anticipate, determineranno maggiori entrate per circa due miliardi di euro.
A beneficiarne saranno i rendimenti dei conti correnti, sia quelli liberi che quelli vincolati. Questi ultimi sono già particolarmente apprezzati dai risparmiatori perché offrono rendimenti netti superiori al 3% a fronte dell’obbligo di lasciare depositate le somme per periodi compresi tra i 12 e i 24 mesi. A dire il vero, però, ci potrebbero essere effetti diversi sui vari prodotti, in quanto alcuni depositi vincolati hanno come sottostante dei titoli di Stato (non toccati dal provvedimento) mentre altri hanno Pct od obbligazioni, la cui aliquota salirà con conseguente diminuzione del rendimento.
Difficile prevedere oggi se e come il provvedimento impatterà sulle scelte dei risparmiatori, modificando le composizioni del portafoglio delle famiglie (si veda il grafico in pagina). Assogestioni ha preferito non commentare, in attesa di analizzare il provvedimento nel dettaglio e quindi valutare meglio le possibili conseguenze sui fondi, che quale effetto dell’aumento di aliquota potrebbero essere soggetti a un consistente deflusso. Tra gli istituti bancari IWBank, invece, ipotizza che sul fronte del trading l’aggravio dell’aliquota potrebbe incidere sugli heavy trader mentre non dovrebbe modificare le abitudini dei piccoli risparmiatori e i cassettisti con operatività limitata.
Sempre sul fronte bancario, gli istituti di credito dovranno fare i conti con il passaggio dal 12,5 al 20% del prelievo sulle obbligazioni da loro emesse, strumento ampiamente usato negli ultimi anni per finanziarsi. Già ora questo tipo di bond in media è meno competitivo rispetto a titoli di Stato equivalenti e il gap molto probabilmente sarà destinato ad allargarsi a meno che le banche non siano disposte ad aumentare i rendimenti pur di recuperare liquidità. Nei prossimi mesi, quindi, si potrebbe assistere a un aggiornamento delle offerte commerciali da parte degli istituti di credito al fine di ritarare i vari strumenti sulla base delle nuove disposizioni.
Quanto ai titoli di Stato, gli addetti ai lavori fanno notare che il 12,5% rimarrà in vigore se gli stessi saranno tenuti fino a scadenza, mentre se verranno ceduti prima, per necessità o con l’obiettivo di incassare la differenza tra prezzo d’acquisto e quello di vendita, si applicherà l’aliquota del 20% prevista in generale per il capital gain ora, a fronte del 12,5% precedente. Altro elemento contenuto nel provvedimento riguarda la tassazione sugli investimenti nei fondi di previdenza complementare che verrebbe azzerata.
La decisione del governo incassa la soddisfazione delle associazioni dei consumatori. «Non si comprende – afferma Pietro Giordano, segretario generale di Adiconsum – perché finora si è favorita la finanza piuttosto che la produzione reale della ricchezza. Si dice che gli italiani siano un popolo di risparmiatori ma poi paradossalmente il prelievo sui conti correnti è al 27% mentre per le transazioni finanziarie si ferma al 12,5 per cento. Le decisioni relative all’aliquota vanno nella direzione di una maggiore equità». Positivo anche il giudizio di Anna Vizzari, esperta dell’area legale e giuridica di Altroconsumo: «L’aliquota unica ci vede favorevoli, è un delle misure più eque della manovra e dà maggiore appeal a strumenti già molto utilizzati dai risparmiatori quali i conti di deposito e i conti correnti. I conti di deposito al momento sono quelli che maggiormente consigliamo per proteggere i risparmi».
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da “il manifesto”
Rocco Di Michele
CORSO D’ITALIA
Categorie in rivolta «Contro la manovra dobbiamo reagire»
Quello che il decreto prevede in materia di lavoro è infatti «una vera operazione fascista e antidemocratica, che cancella 100 anni di storia del sindacato confederale e del movimento dei lavoratori». Gianni Rinaldini – coordinatore della minoranza congressuale – soppesa con più cura del solito le parole, non vuole far prevalere la polemica interna sulla necessità di una risposta, «la più ampia possibile, immediata, adeguata», a un dispositivo che significa di fatto «la cancellazione del contratto nazionale, sostituito da contratti aziendali o di territorio che possono derogare su tutto, comprese le leggi esistenti». A partire da quell’art. 18 che subordina la possibilità di licenziamento a una «giusta causa» verificabile da un giudice, messo a protezione dei lavoratori dai ricatti aziendali. Proprio quello che – «con il recepimento per legge dell’accordo Fiat», chiesto espressamente da Confindustria nell’incontro con il governo – il governo vuole ora generalizzare «in una situazione di crisi», che indebolisce già da sola la posizione del lavoratore. Un ritorno alla preistoria delle relazioni industriali, quando al lavoro era «negata anche la dignità», a «un modello sindacale che dice: o accettate le mie condizioni o siete tutti licenziati». Non è retorica. «Viene stracciato il significato stesso della Costituzione del nostro paese», costruita sull’«equilibrio di valori politici e di valori sociali universali». Quelli sociali, nel decreto, «diventano valori variabili da azienda ad azienda, dipendenti dalle scelte di ogni singola impresa».
Per la Cgil, soprattutto per Susanna Camusso, il segretario generale che ha fortemente voluto il ritorno di questo sindacato «ai tavoli di contrattazione», fino al clamoroso accordo del 28 giugno scorso, si tratta di una mazzata in pieno volto. Il decreto – che pure Sacconi in qualche modo cerca di collegare a quell’accordo «tra parti sociali» – lo svuota completamente di significato. Creando una situazione paradossale in Cgil, dove si sta procedendo alla consultazione degli iscritti (ma per la Fiom e la minoranza anche tra tutti i lavoratori) per validare o meno un accordo già morto e sepolto. «Non possiamo prendere in giro la gente – sintetizza ancora Rinaldini – va ritirata la firma della Cgil e bisogna convocare immediatamente gli organismi dirigenti, perché un’operazione di questa portata non può arrivare alla discussione parlamentare senza che la Cgil promuova la più ampia mobilitazione». Una risposta «non solo sindacale», perché tra «pubblico impiego, servizi, privatizzazioni e tagli al welfare» la dimensione della resistenza non può che essere «politica generale». A memoria di militante, «non si è mai vista una situazione del genere e non credo che la Cgil possa superarla senza una risposta adeguata». Che ovviamente sotterri rapidamente la «strategia» seguita fin qui e che «ha spianato la strada» all’attacco del governo.
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Francesco Piccioni
Il rega loNel decreto del governo c’è la norma chiesta dal Lingotto che sterilizza le cause della Fiom contro gli accordi separati firmati con Cisl e Uil. Murizio Landini: Il segretario Fiom: «Mai vista una cosa simile in tutto il dopoguerra»
«Gravissima la legge Fiat»
Sei rimasto sorpreso da questa novità?
La Fiat aveva attaccato questo governo chiedendo una legge che le permettesse di uscire illesa dagli accordi illegittimi fatti fin qui. E quindi siamo al paradosso: abbiamo un’azienda condannata per comportamento antisindacale e un governo – e un ministro del lavoro – che fa una legge ad aziendam per cavarla d’impaccio. Erano abituati a fare leggi ad personam per Berlusconi, deve essergli sembrato normale. È un fatto gravissimo che lede l’autonomia contrattuale delle parti. Non ricordo, in tutto il dopoguerra, che un governo abbia mai legiferato per cancellare il contratto nazionale e dare libertà di licenziare, aggirando l’art. 18.
Si può bloccare l’operazione?
Occorre chiedere il ritiro immediato di tutti i provvedimenti che vanno sotto il titolo «Crescita e sviluppo», che in realtà cancellano i diritti. Il primo obiettivo di un sindacato deve essere azzerare questa parte. In secondo luogo, questi provvedimenti presentano secondo me anche dei profili di incostituzionalità. La Carta dei diritti europei vieta di legiferare retroattivamente su processi ancora aperti. E c’è una sentenza della Cassazione dello scorso gennaio – non a caso sul «collegato lavoro» di Sacconi – che rimanda a un pronuciamento della Corte Costituzionale. La gravità del decreto è doppia: primo, non è vero che per uscire dalla crisi sia necessario cancellare i diritti; secondo, in questo modo si azzera anche la libertà sindacale e l’autonomia delle parti.
Ma Sacconi cita l’accordo del 28 giugno «tra le parti sociali».
La Cgil dovrebbe riflettere sull’uso che il governo ha fatto sia di quell’accordo che del «contributo del 4 agosto» presentato insieme a Confindustria e banche. Quelle iniziative hanno permesso al governo di mettere a punto una manovra tutta contro i lavoratori, i giovani, i pensionati e la libertà sindacale. In particolare proprio contro la Cgil. Per questo penso ci sia bisogno di mettere in campo una mobilitazione straordinaria, fino allo sciopero generale. Fin dai prossimi giorni va aperta una campagna di discussione e mobilitazione nel paese. È necessario che la discussione parlamentare sia «accompagnata» con mobilitazioni in ogni città, in cui si chieda al Parlamento di rispondere al paese, di cambiare la manovra e ritirare tutti gli odiosi provvedimenti contro il lavoro. Trovo poi particolarmente inaccettabile che il 25 aprile e il 1 maggio si sia costretti ad andare a lavorare. Queste sono feste che danno identità all’Italia.
Ma è credibile che così si favorisca «lo sviluppo»?
La manovra è sbagliata anche perché non affronta affatto le ragioni della crisi e del debito pubblico. Non si apre nessuna battaglia vera contro l’evasione fiscale. Persino il «contributo di solidarietà» è di fatto a carico del lavoro dipendente di fascia elevata. E sappiamo che il 90% delle entrate dello Stato sono a carico di lavoratori e pensionati; sappiamo che molti imprenditori denunciano al fisco redditi personali inferiori a quelli dei loro dipendenti, ecc. Non a caso non si fa una tassa patrimoniale, non si toccano le rendite finanziarie. Infine, è davvero inaccettabile che non si rispetti il voto della maggioranza degli italiani espresso soltanto due mesi fa. Il governo rilancia privatizzazioni e liberalizzazioni nei servizi pubblici come nelle aziende municipalizzate. Ricette che negli ultimi anni hanno ingigantita la crisi.
Ma senza sviluppo non si esce dalla crisi, dicono.
Certo. Ma un nuovo modello di sviluppo non può che concentrarsi sulla valorizzazione del lavoro e su nuovi prodotti sostenibili. Se parliamo di mobilità servirebbe un rapporto intelligente tra imprese, lavoro, università, istituzioni, per mettere al centro un’idea di sviluppo sostenibile. Mentre qui il governo fa una legge per rendere legale ciò che non lo è e la beneficiaria – Fiat – chiuderà entro l’anno Termini Imerese e venderà la Iribus di Avellino.
Cosa farà la Fiom?
Abbiamo bisogno di discutere con i lavoratori. Erano previste assemblee sull’accordo del 28 giugno, che dobbiamo capire quale valore abbia a questo punto, visto che viene utilizzato per abolire l’art. 18. Vogliamo presentare una piattaforma rivendicativa dei metalmeccanici per un accordo nazionale senza «deroghe». Ma soprattutto questo provvedimento va ritirato. Il 31 ci incontreremo con tutte le associazioni e i movimenti che dal 16 ottobre in poi hano lottato insieme a noi e dovremo valutare assieme il che fare alla luce di questa manovra gravissima. Non solo per protestare, ma per cancellare quelle norme e affermare l’idea che bisogna anche mandare a casa questo governo.
Pagano sempre i soliti noti
di EUGENIO SCALFARI
Sintesi della manovra per Berlusconi: “Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese”.
Sintesi della manovra per Tremonti: “La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese”.
Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: “È una tardiva e inutile schifezza”.
Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d’un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l’uno e l’altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.
Berlusconi avrebbe voluto aumentare l’Iva di uno o due punti, Tremonti gliel’ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.
Tremonti voleva un’imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l’entrata nell’euro. Berlusconi gliel’ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel’ha impedito.
Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel’ha impedito. Bossi, terzo incomodo, non voleva che fossero manomesse le pensioni d’anzianità. In parte c’è riuscito ed ora ne mena vanto.
Il decreto esce oggi in “Gazzetta Ufficiale” ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c’è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.
Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.
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C’è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell’Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l’avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l’immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d’Italia. Berlusconi chiamò Letta e l’incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.
Letta non trovò di meglio che chiedere l’aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l’eventuale aiutante o forse l’aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c’è male.
Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d’Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest’anno all’1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.
* * *
Di buono nel decreto-schifezza c’è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l’abolizione d’una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui “indotti”. E l’accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.
Era un progetto da tempo allo studio, dall’epoca del governo Prodi del ’96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell’emergenza. Si tratta d’una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d’aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.
Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l’età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell’attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.
Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c’è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi – se può – di fare altrettanto.
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La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.
Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell’operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c’è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.
Tutto spremuto e ridotto all’osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c’è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c’è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: “Io sto alle previsioni dell’Istat: il Pil crescerà quest’anno dell’1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall’America e dall’Europa”.
Questa è l’analisi della manovra.
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La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:
1) prelievo “una tantum” sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell’ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all’erario 15 miliardi.
2) Una lotta all’evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull’elenco dei fornitori.
3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.
4) Un’imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.
5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.
Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.
Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.
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Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all’opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i “patrimoni-scudati” sarebbe una vera bomba.
L’accetterebbe anche Tremonti? E come l’accoglierebbero i mercati?
Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l’udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l’Occidente e non solo.
Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d’aver operato per il bene del paese.
(14 agosto 2011)
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