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Un governo senza più senso

Il declassamento di Standard & Poor’ – agenzia di rating certamente criminale, ma capace di tirare lo stesso sgambetto anche agli Stati Uniti – sembra aver abbattuto le residue capacità di difesa. Poi, certo, si può sempre trovre un giudice che sposti un’inchiesta da un’altra parte, ma il tocco magico è ormai un ricordo lontano. Prepariamoci al cambiamento di clima politico. Perché sarà drastico sul piano sociale, senza opposizioni ammesse alle “misure di risanamento” e nemmeno divertente come questa masnada di rubagalline.

 

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Francesco Piccioni
Riforme Quelle che chiedono Marcegaglia & co. toccano soprattutto il mondo del lavoro, ma anche parti del «blocco sociale» berlusconiano
L’ultima idea di Tremonti
Disperato tentativo di presentare già domani un «pacchetto per la crescita» per accogliere alcune delle richieste di Confindustria. Ma Napolitano invoca «una piattaforma meditata che nasca da consultazioni ampie» Viale dell’Astronomia: «innalzare subito l’età pensionabile a 70 anni». Ma anche privatizzazioni e liberalizzazioni

Bisogna fare subito qualcosa… Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, bombarda ormai quotidianamente il governo: «ci vuole discontinuità», «o il governo vara riforme serie e impopolari» subito «oppure deve andare a casa; non ho paura a dirlo». La manovra da 54 miliardi non è piaciuta nemmeno un po’ («tutta tasse») e non si vuol nemmeno sentir parlare di «patrimoniale spot» – un prelievo dai conti bancari in stile Giuliano Amato, oppure (anche) sulla proprietà immobiliare – ma si chiedono a voce altissima «riforme subito: pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni».
Bisogna fare subito qualcosa, si son detti anche al governo. Perché avere contro anche gli imprenditori significa aver sbagliato proprio tutto. Ieri mattina, dunque, il ministro dell’economia Giulio Tremonti ha riunito un «tavolo per lo sviluppo» in cui ha (avrebbe) dettato le linee guida per «dare l’idea di quel che il paese fa nei prossimi dieci anni». Tempo esagerato per qualunque governo, figuriamoci per uno appeso al voto su Milanese o al «processo lungo».
Le intenzioni operative per «rilanciare la crescita» si dovrebbero concretizzare in un «decreto sulle infrastrutture» da presentare già domani in consiglio dei ministri, in attesa di completare il testo sul «rilancio» entro la prossima settimana. E po tanto «marketing per l’Italia», perché «serve un po’ di allure». Ma soprattutto «liberalizzazioni» e una «norma alla greca suggerita dalla Ue» che fa pensare a colpi d’ascia su quel poco di stato sociale che resta. A cominciare dall’art. 41 della Costituzione (che fissa il principio delle «finalità sociali» dell’attività economica), che andrebbe rovesciato in un ben più selvaggio e un po’ criminogeno «tutto è lecito se non è espressamente vietato». Intonata alla discussione, dunque, anche la citazione bismarckiana: «se il popolo sapesse come sono fatte le sue salse e le sue leggi, non le mangerebbe». Frasi comunque smentite poche ore dopo dal suo portavoce come «totalmente infondate», ma confernate dall’Ansa come «frasi riportate da persone presenti all’incontro».
Il tentativo di venire incontro agli imprenditori è evidente e in qualche modo esibito. Ma sui contenuti concreti di un «pacchetto per lo sviluppo» non è facile – neppure per questo masnada di «pronti a tutto» – assumere in toto le richieste di Confindustria, peraltro dettagliate fin da luglio in un «manifesto» che campeggia da allora sul Sole 24 Ore.
La «riduzione della tassazione sul lavoro» per «alleggerire l’Irap» (una tassa pagata dalle imprese con cui si finanzia la spesa sanitaria) è complicata da disegnare e dagli effetti sistemici incerti (specie se «compensata» da un altro aumento dell’Iva). Duro da gestire, per qualsiasi governo, sarebbe invece «l’innalzamento obbligatorio per tutti a 70 anni dell’età pensionabile», avvicinando l’andata a regime al 2020 (anziché al 2050). Davvero «impopolare», bisogna ammettere; specie se si pensa alla brutta tendenza delle imprese a disfarsi dei dipendenti che superano i 50…
Anche le «privatizzazioni della Rai e delle aziende di public utilities» pongono parecchi problemi politici (almeno quanto «l’abolizione delle province e l’accorpamento dei comuni»), anche per la ragione sociale dei diversi enti. Sulla «liberalizzazione delle professioni» sono invece subito partite le risposte ironiche di alcuni ordini professionali («Confindustria si concentri sulle difficoltà delle aziende ed eviti di occuparsi» di cose che conosce meno). Già in corso, infine, anche forse con un po’ più di lentezza, «l’aumento delle rette universitarie» e l’adozione dei «costi standard per la spesa sanitaria».
Insomma, par di capire che l’intenzione di Tremonti fosse quella di portare già al consiglio dei ministri di domani un «pacchetto» contenente almeno alcune delle ricette confindustriali, anche se necessariamente muto sulle proposte più «indecenti» e politicamente insostenibili (la Lega deve pur sempre far finta di «difendere le pensioni del nord»).
Su questo percorso è però calata, in serata, la secchiata gelida proveniente dal Quirinale. Il presidente della Repubblica ha infatti ripetuto il suo mantra «unitario», spiegando che «è indispensabile l’impegno comune per fare fronte alla difficile situazione economica e finanziaria». Un ragionamento che, seppure prende atto della necessità di agire in fretta, tuttavia viene presentato come attento a non lacerare irreparabilmente la coesione sociale: «occorre un pacchetto, un insieme di misure. Sento parlare di un piano pluriennale, di una piattaforma meditata che nasca da consultazioni ampie per rilanciare la crescita anche perchè, se il pil decresce, l’impresa diventa ardua se non impossibile».
Ma per riuscirci «c’è bisogno di una piattaforma meditata che nasca da consultazioni ampie per rilanciare la crescita, perchè ormai è chiaro che l’accento va spostato sulla crescita». Usando almeno retoricamente quel «cemento nazionale unitario, che consenta la massima mobilitazione di grandi energie». La traduzione politicista è immediata: bisogna prima consultare tutte le parti sociali e quindi nessuno si illuda di poter buttare lì un altro elenco di cose che, nell’insieme, non fanno un progetto condiviso. Specie se a redigerlo è un governo il cui «tempo è scaduto», come dice Marcegaglia.

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Pitagora
Con Silvio B. dieci anni di declino

Standard&Poor’s ha abbassato di un gradino (da A+ ad A) il giudizio sui titoli dello stato italiano a «causa dell’indebolimento delle prospettive di crescita e dell’incertezza del contesto politico», aggiungendo che «le prospettive rimangono negative». L’agenzia si è quindi lasciata aperta la possibilità di procedere a breve a un ulteriore declassamento, tenendo presente che «il debito pubblico dell’Italia è il più alto tra i paesi sovrani con rating A». In ogni caso, il giudizio rimane nella fascia più elevata di voto. CONTINUA | PAGINA 14
Al di là della decisione, di fatto scontata in presenza di condizioni di mercato che attribuiscono alla carta italiana un premio al rischio più elevato rispetto alla bassa probabilità di bancarotta stimata dell’agenzia di rating, appaiono di un certo interesse le motivazioni fornite.
La sostenibilità dell’elevato debito pubblico è messa in discussione dalle insufficienti prospettive di crescita dell’economia italiana che, in linea con le principali istituzioni internazionali (Bce, Fmi, Ocse), sono state abbassate e dalla «fragilità della coalizione di governo e delle divergenze politiche all’interno del Parlamento che continueranno a limitare la capacità del governo di rispondere in maniera decisiva al difficile contesto macroeconomico».
In seguito all’interpretazione malevola del governo, secondo cui il giudizio sarebbe stato «influenzato da considerazioni politiche», l’agenzia ha diffuso una nota in cui si dice che «la valutazione è basata su un’analisi dettagliata e indipendente delle prospettive economiche e fiscali dell’Italia e sulle ipotesi relative all’andamento atteso del debito». L’agenzia ha poi precisato che «i rating indicano come diverse iniziative politiche possono impattare l’affidabilità finanziaria e non intendono dare alcun suggerimento sulle politiche che un governo dovrebbe o non dovrebbe perseguire». Dopo poche ore, il Presidente della Confindustria si è espressa in termini più netti dichiarando che «non c’è più tempo: o il governo è in grado di mettere in piedi una serie di misure gravi, serie, anche impopolari, sennò deve andare a casa».
Il punto è questo: negli oltre otto anni di governo della destra in quest’ultimo decennio il declino dell’economia italiana è stato enorme. Il Pil del nostro Paese è stato sopravanzato da quello della Cina, dell’India e del Brasile; altri Paesi ci tallonano con tassi di crescita attesi molto più elevati del nostro; quello della Turchia è più elevato di quello cinese; il peso dell’Italia negli scambi commerciali è crollato; malgrado politiche retributive del lavoro sfavorevoli, la competitività delle nostre aziende nel mercato mondiale è calata; sebbene la domanda di prodotti esteri sia debole per il calo dei redditi delle famiglie, l’interscambio delle partite correnti è negativo; non esistono «campioni nazionali» nei comparti tecnologicamente avanzati.
La ricchezza pro-capite degli italiani, distribuita in modo sempre più diseguale è diminuita in media di quasi un punto percentuale all’anno. La povertà si è diffusa e va interessando ceti sociali prima benestanti. L’indebitamento delle famiglie è cresciuto a ritmi elevati.
Per quanto riguarda i conti pubblici si è sprecato il dividendo dell’euro non perseguendo all’inizio del decennio il pareggio di bilancio quando era un obiettivo di semplice portata, anche in virtù della migliore reputazione allora goduta dallo stato italiano in seguito al risanamento realizzato nel lustro precedente. I governi di destra hanno dissipato l’apprezzamento dei mercati accrescendo costantemente la spesa e allentando i controlli amministrativi, preventivi e susseguenti.
L’improvvisazione di questa estate nel formulare con colpevole ritardo una manovra correttiva dei conti pubblici e le intrinseche debolezze e ingiustizie di quella approvata in assenza di qualsiasi approfondimento da parte del Parlamento sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In una situazione di crollo della fiducia degli investitori che ha portato all’inusuale intervento dell’Eurosistema nell’acquisto di titoli di stato e al commissariamento del governo da parte di quelli francese e tedesco, la richiesta di S&P di un ricambio nelle politiche economiche del nostro Paese appare non solo ragionevole, ma scontato.

da “il manifesto” del 21 settembre 2011
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Dalle parti di Confindustria il clima è persino più pesante, e i toni davvero ultimativi. Leggere per credere l’editoriale del direttore de Il Sole 24 Ore e l’analisi della Bufacchi sulle conseguenze a breve del “declassamento”. E infine la nota di Stefano Folli, non certo un “ultrasinistro”.

Signor Presidente, l’Italia prima di tutto

di Roberto Napoletano


Il debito totale americano (Stato, imprese, finanza e famiglie) è pari a tre volte e mezzo il prodotto interno lordo. La geografia del mondo ha cambiato le sue ‘capitali’ e molti poveri di ieri sono i ricchi di oggi tra contraddizioni, processi democratici incompiuti, grandi squilibri, spirito di sacrificio e voglia di fare. La nuova Bretton Woods non si è vista e la finanza speculativa continua a farla da padrona (come prima, più di prima).

In una sola sera, nel luglio del 1790, tre uomini, Alexander Hamilton, da una parte, Thomas Jefferson e James Madison, dall’altra, raggiunsero un compromesso e fecero gli Stati Uniti d’America: una capitale, un esercito, un bilancio statale e buoni del Tesoro. Più di due secoli dopo l’Europa ha fatto l’euro e si è fermata: purtroppo, la cancelliera, Angela Merkel, e il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, insieme non fanno un Kohl.

Fare pagare alla piccola Italia il conto di tutto ciò è troppo. Abbiamo scritto tante volte che il lavoro e il risparmio degli italiani meritano rispetto. Perché se è vero che la crisi è globale ed esige leader e risposte globali che tardano a venire o non arrivano affatto, è altrettanto vero che come avevamo avvertito (‘Guai se l’Italia diventa lo Stato da vendere’, sabato 30 luglio) il primo Paese che rischia ora, dopo la Grecia, è proprio l’Italia e questo avviene per la fragilità della sua coalizione di governo, la catena imbarazzante di scandali che tocca direttamente il presidente del Consiglio, suoi ministri e loro diretti collaboratori, l’incapacità perdurante di assumere decisioni dolorose ma necessarie, un quadro complessivo di decoro violato delle istituzioni. Sentirselo dire da Jacques Attali, davanti al fior fiore degli imprenditori del made in Italy, come è avvenuto ieri a Bologna, garantisco che fa un certo effetto.

La credibilità del Paese, in questo momento, è un bene troppo importante per essere sacrificato sull’altare di qualsiasi calcolo politico o peggio personale, ancorché legittimi. L’interesse generale viene prima di quello individuale (è giusto che sia così) e sottrarre oggi l’Italia dal circuito perverso – default Grecia, sfiducia sull’Italia e sulle banche sue e francesi, sfiducia sull’Europa che fatica a ‘salvare’ l’Italia, le banche e se stessa – è un imperativo categorico.

Il presidente del Consiglio dimostri di amare davvero l’Italia e di avere, di conseguenza, la forza e la volontà di farsi da parte se è costretto (come tutto rende evidente) a prendere atto che non riesce a fare quello che serve. Lo faccia nell’interesse del Paese, si comporti da uomo di Stato e da uomo dell’economia. Dopo la Grecia, Signor Presidente, non ci può essere l’Italia, mai e poi mai, per una volta non si giri dall’altra parte e si ricordi che grandi responsabilità impongono anche grandi sacrifici. Sappiamo che le costerà, ma sappia pure che la storia (dopo questo gesto) saprà fare i conti giusti.

 

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L’ombra della retrocessione multipla

di Isabella Bufacchi

 

Lo spread tra i rating sull’Italia di S&P e Moody’s si è allargato ieri a tre gradini. Tra la ‘A’ fresca di firma e la ‘Aa2’ (equivalente alla AA) sotto osservazione dallo scorso giugno e in via di retrocessione ci sono adesso i voti AA- e A+.

Se dunque Moody’s dovesse decidere di allinearsi alle valutazioni di S&P sull’Italia, dopo il declassamento deciso da quest’ultima, sarebbe costretta a tagliare di tre gradini in una sola volta, ‘Aa2’ alla ‘A2’. Un salto acrobatico ma affatto impegnativo per Moody’s che ha già sperimentato la retrocessione multipla per Grecia (quattro gradini) e Irlanda (cinque gradini).

L’Italia è però un caso a parte rispetto agli Stati periferici che sono dovuti ricorrere ai pacchetti di salvataggio Ue-Fmi per evitare la bancarotta. Per questo, i traders dei BTp hanno iniziato a interrogarsi sull’entità dell’intervento sul rating di Moody’s – atteso entro fine Ottobre – senza grandi preoccupazioni, senza mettere in conto il taglio di tre gradini. C’è chi è convinto che questa agenzia abbia rinviato l’esito del review sull’Italia la scorsa settimana proprio perchè molto indecisa tra uno o due gradini di retrocessione. Fino allo scorso lunedì, a Moody’s sarebbero bastati due notches per raggiungere il giudizio di S&P’s sull’Italia: un’eventualità fino a ieri sfavorita rispetto al più gettonato taglio di un solo gradino.

La decisione di S&P, che ha abbreviato i tempi classici dell’outlook negativo sull’Italia, potrebbe velocizzare a cascata il processo decisionale di Fitch che finora ha mantenuto saldamente le prospettive ‘stabili’ sulla ‘AA-‘ dell’Italia, posizionata due gradini sopra la ‘A’ di S&P e un gradino sotto la ‘Aa2’. Fitch non ha perso finora occasione per ribadire che il merito di credito dello Stato italiano è solido e stabile ma il recente deterioramento dello scenario politico ed economico potrebbe indurre una rivalutazione.

Il mercato resta a guardare. Lo spread tra BTp e Bund, che ancora una volta ieri è tornato brevemente a testare la quota dei 400 punti, sconta già numerose retrocessioni di rating tanto che, in teoria, le tre agenzie S&P, Moody e Fitch vengono considerate «dietro la curva», in ritardo rispetto alla percezione degli operatori. Ma la crisi del debito ha lasciato gli investitori con i nervi scoperti e le cattive notizie, anche se ampiamente scontate e pronosticate in lungo e in largo, quando si concretizzano hanno comunque un impatto negativo su prezzi e rendimenti. Se S&P dovesse dar seguito all’outlook negativo sulla ‘A’ nell’arco dei prossimi 7-12 mesi, se Moody’s dovesse accorciare le distanze con un declassamento multiplo sull’Italia, se infine anche Fitch decidesse di svegliarsi dal suo torpore togliendo l’outlook stabile sulla ‘AA-‘ italiana, ebbene l’Italia e i BTp non se la passerebbero poi così bene.

 

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Il Parlamento, il Quirinale, il bunker: verso giorni decisivi

di Stefano Folli

 

Quali conseguenze politiche dal declassamento deciso da S&P’s? Molteplici, benché non ancora decisive. Non a caso il giudizio dell’agenzia americana cita in modo esplicito, fra le cause della crisi italiana, la «fragile coalizione di governo e le differenze politiche all’interno del Parlamento». Dunque descrive un quadro di grave incertezza, nonostante che le parole usate non siano le più idonee (in tutti i parlamenti del mondo esistono le «differenze politiche»).
Il senso della nota è tuttavia ben chiaro, con l’invito sottinteso alla classe politica affinché recuperi credibilità, se ci riesce, per mostrarsi adeguata all’urgenza dei problemi.

In breve, l’altra notte si è consumata una sorta di declassamento politico e non solo finanziario dell’Italia. E’ l’affidabilità complessiva del governo di Roma ad aver perso punti preziosi.
Si dirà che le agenzie di ‘rating’ e le loro sentenze non vanno divinizzate e i loro verdetti non devono essere usati in modo strumentale. Infatti molti ieri hanno sostenuto queste tesi nelle file della maggioranza. Il presidente del Consiglio però è andato anche oltre, in quel comunicato in cui si accusa S&P’s di essersi fatta influenzare «dai retroscena (leggi dalle falsità, ndr) dei quotidiani piuttosto che dalla realtà delle cose». Così facendo Berlusconi ha dimostrato una volta di più di volersi rinchiudere nella logica del bunker e di non comprendere quale sia oggi la posta in gioco.

È ormai evidente che in Europa tanti condividono l’immagine, evocata da un giornale tedesco, secondo cui l’Italia di Berlusconi sta trascinando nel baratro l’intera area della moneta unica. Che sia vero o no, questa è la convinzione ormai diffusa; e dunque questo è il problema politico di fronte al premier. Per affrontarlo Berlusconi propone due cose: una resistenza a oltranza, giocata sul filo della perenne sfida con la magistratura (fino ad adombrare una grande manifestazione di piazza entro l’anno); e la legittima difesa della manovra appena varata.

Circa quest’ultimo punto, tuttavia, proprio il giudizio dell’agenzia in questione contiene molti dubbi sull’efficacia delle misure adottate. E parecchi osservatori già considerano necessaria un’altra manovra a breve: sia per consolidare i provvedimenti precedenti, sia per dare qualche stimolo all’economia stagnante. Come si concilia allora l’arroccamento del premier, da un lato, e dall’altro le nuove sfide a cui potrebbe essere chiamato un centrodestra che appare oggi sfiancato, sfibrato dalla lunga tensione vissuta nelle ultime settimane? L’asse Pdl-Lega sembra aver dato tutto con l’ultima manovra. Adesso attende gli eventi in evidente affanno.

In altri termini, la situazione è appesa a un filo. È significativo che il presidente della Repubblica abbia stigmatizzato con asprezza le minacce secessioniste di Bossi. Altrettanto significativo che abbia sentito il bisogno di avviare una serie di colloqui politici al Quirinale. Proprio alla vigilia del voto alla Camera sul fatidico «caso Milanese»: voto segreto, come sappiamo, e come tale suscettibile di sorprese. È normale che il capo dello Stato voglia rendersi conto dell’aria che si respira in Parlamento. Qualsiasi novità, compreso l’avvio di una nuova fase politica, deve prendere forma nella cornice delle Camere. E ieri la maggioranza è stata battua cinque volte: votazioni minori, ma nessun indizio può essere trascurato.

Soprattutto Napolitano non può farsi trovare impreparato nel caso in cui la maggioranza non reggesse o in cui il presidente del Consiglio rinunciasse alla linea della resistenza a tutti i costi. Un colpo di scena è sempre possibile e, anzi, il clima sembra propizio. Dopo comincerà il difficile. Perchè si tratterà di gestire una crisi politica che coinciderà con la conclusione di un’epoca.

 

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dal Corriere della sera

 

Una possibile soluzione

di Romano Sergio

Il giudizio di Standard & Poor’s sull’Italia fa esplicito riferimento, con motivazioni politiche, alla credibilità internazionale e alla tenuta del governo. Ma, io ritengo, se il presidente del Consiglio fosse costretto a dimettersi domani, le agenzie e i mercati s’interrogherebbero sulla stabilità del sistema politico italiano e sulla sua capacità di fare fronte agli impegni assunti con l’ultima manovra finanziaria. Credo che l’abbassamento del rating dipenda soprattutto dalla constatazione che il Paese non cresce e paga il debito soltanto con imposte sempre più salate: una ricetta che può soltanto garantire un futuro peggiore del presente.

Ma esiste un altro rating, più importante, ed è quello del Paese. Il problema in questo caso è certamente il presidente del Consiglio. Berlusconi è stato per molti italiani una speranza di stabilità politica e dinamismo economico. Oggi quella speranza si è dissolta sotto il peso di una micidiale combinazione di promesse non mantenute, incidenti di percorso, scandali, comportamenti indecorosi e sorprendenti imprudenze. Oggi il maggiore problema italiano è la fine dell’era Berlusconi. Tutti, anche i migliori tra i suoi amici, sanno che l’era è finita e che Berlusconi deve uscire di scena. Ma non vi è ancora un accordo sul modo in cui voltare pagina. Qualcuno spera che la mirabolante e tempestosa storia del cavaliere di Arcore termini in un tribunale alla fine di un processo per corruzione, frode o indegnità morale. Altri sperano in un risolutivo messaggio alle Camere del capo dello Stato.

Sono due soluzioni che avrebbero uno stesso effetto: quello di provare l’impotenza della democrazia italiana, la sua incapacità di affrontare il problema con gli strumenti propri di un sistema democratico. Berlusconi deve andarsene, ma in un modo che non faccia violenza alla Costituzione e salvi ciò che della sua fase politica merita di essere conservato. Penso in particolare al suo partito. Non è interesse di nessuno che una grande forza politica, votata in tre circostanze dalla maggioranza degli elettori, si dissolva. Per evitarlo, per lasciare un segno del suo passaggio terreno, Berlusconi dovrebbe annunciare che non si candiderà più alla guida del governo e che le elezioni avranno luogo nella primavera del 2012.

I sette od otto mesi che ci separano dalla prossima scadenza elettorale avrebbero un effetto simile a quello che si è prodotto in Spagna quando Zapatero ha rinunciato al terzo mandato e ha poi anticipato le elezioni al 20 novembre di quest’anno. La sua mossa ha favorito l’intesa con l’opposizione su alcune questioni d’interesse nazionale e ha dato al candidato socialista, il ministro degli Interni Alfredo Pérez Rubalcaba, il tempo necessario per consolidare il suo ruolo al vertice del partito.

I vantaggi per l’Italia sarebbero considerevoli. Daremmo all’Europa e al mondo lo spettacolo di un Paese che è capace di organizzare razionalmente il proprio futuro, magari cambiando (ma non mi faccio grandi illusioni) una pessima legge elettorale. Restituiremmo la parola a un’opinione pubblica che oggi può soltanto manifestare rabbia e insofferenza. Daremmo ai partiti il tempo di prepararsi al confronto elettorale. Confermeremmo a noi stessi che gli italiani possono risolvere i loro problemi con i naturali meccanismi della democrazia. E Berlusconi potrebbe dire, non senza qualche ragione, che il merito di questa transizione è anche suo.

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