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Governo. Un sottosegretariato non si nega a nessuno

Il Cdm ha nominato Katia Polidori e Aurelio Misiti come viceministri, mentre Giuseppe Galati dei Cristiano Popolari è diventato sottosegretario all’Istruzione. Il senatore del Pdl, Guido Viceconte, sarà invece sottosegretaro all’Interno.

Può sembrare una follia questa corsa alla seggiola mentre tutto crolla e persino Scajola – uno dei “renitenti” – ha votato questa fiducia guirando che sarà l’ultima e adesso farà un suo “movimento politico”. Ma non è insolito. “Rimediare” un incarico, sia pure per qualche settimana, permette di manipolare qualche voce di spesa, dirottare qualche appalto o subappalto. Briciole, dal puto di vista “sistemico”; linfa vitale per signori nessuno che sanno benissimo di dover tornare a essere signori nessuno.

Non c’è da stupirsi se Confindustria, Abi, Vaticano e persino i costruttori edili – il “blocco di cemento” del blocco sociale berlusconiano – abbiano uno dopo l’altro decretato la fine dell’uomo e del regime politico da cui per quasi venti anni hanno tratto vantaggi nimmaginabili. Non è però un soprassanto di dignità di questi “poteri fortissimi”. E’ la crisi che mette a nudo incompetenze prima tollerabili, comportamenti amministrativi che fin qui rubavano un po’ di “grasso” in eccesso per fini clientelari e un po’ mafiosi oggi diventati “costi da tagliare” assolutamente.

Il fatto che berluska continui sullo stesso metro è indicativo di un’impossibilità di uscire dal cerchio stregato costituito da un modo di aggregare consenso che oggi non può ppiù funzionare. Finito il “grasso”, si  possono comprare singoli uomini che ti devono votare in parlamento, non settori sociali interi. La fine è in questi parametri.

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da La Stampa

Fini: “Elezioni a marzo, Bossi staccherà la spina”

MARCELLO SORGI

ROMA
Ven-du-ti! Ven-du-ti! Ven-du-ti!». Il coro degli «Indignados» che si preparano alla grande manifestazione di oggi alza forte la sua voce fino alle finestre dello studio del presidente della Camera. Gianfranco Fini non nasconde la sua preoccupazione: «Speriamo che non succeda niente. Questi giovani sono sinceri nell’esprimere il loro disgusto per la situazione in cui siamo. Molti di loro hanno buone ragioni per essere indignati, anche se forse non è giusto parlare solo di antipolitica. Se non c’è più la politica, infatti, anche l’antipolitica diventa difficile».

Ammetterà, presidente Fini, che quello che è successo nell’ultima settimana tra il governo e la Camera non è stata proprio un’iniezione di fiducia per l’opinione pubblica.
«Non posso darle torto, ma non credo che ci si potesse aspettare una conclusione diversa. Era chiaro che il governo avrebbe preso la fiducia, e altrettanto che da oggi tutto ricomincerà come prima».

Negli ultimi tre giorni è successo di tutto: le opposizioni sull’Aventino, il Quirinale costretto a intervenire due volte per contenere uno scontro insanabile, e alla fine Berlusconi che ottiene 316 voti di maggioranza e canta vittoria.
«Voto più, voto meno, non cambia molto. Se Berlusconi pensa di poter governare con una maggioranza così stretta, provi pure. Negli ultimi mesi non mi pare che ci sia riuscito. Forse, per la prima volta, ne è consapevole: per uno come lui, grande comunicatore, ridursi a fare un discorso mediocre come quello di giovedì vuol dire che ha rinunciato al grande orizzonte e alle riforme epocali che si aveva sempre sognato».

Lei è proprio convinto che Berlusconi cominci a rassegnarsi alla fine del berlusconismo?
«Con questi numeri e con le difficoltà che ha dovuto fronteggiare fino all’ultimo, inseguendo i dissidenti uno per uno, non solo non è in grado di realizzare le riforme, ma neppure di prendere i provvedimenti necessari per la crisi economica. I tagli annunciati da Tremonti sono già apertamente contestati dai ministri interessati. È stato Cicchitto, il capogruppo del Pdl, e non un membro dell’opposizione, a dire chiaramente che il decreto sviluppo, dalla gestazione lunga e sofferta, non potrà certo essere a costo zero. Parlava chiaramente al Presidente del consiglio e al ministro dell’Economia. Scajola per le stesse ragioni ha spiegato che la sua fiducia è a termine. Inoltre la Bce ha appena ribadito che i paesi più a rischio, tra cui l’Italia, devono prepararsi a una manovra aggiuntiva. Mal contati, di qui a fine anno, mancano ancora una ventina di miliardi di euro. Un governo come questo non è assolutamente in grado di trovarli per mettere a posto i conti».

Eppure Andreotti diceva che per un governo è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
«Altri tempi. Berlusconi è il primo a sapere che c’è una grande distanza tra le cose che ha promesso e quelle che ha realizzato. Basta leggere i sondaggi per accorgersi che la delusione s’è ormai fatta strada anche tra i suoi sostenitori».

E allora cosa farà?
«Proverà a vivacchiare più o meno fino a Natale, farà di tutto per ottenere l’approvazione di nuove leggi ad personam, indispensabili per trasformare quelli che lo riguardano in processi “pret a porter”, tagliati su misura per garantirgli l’impunità con la prescrizione breve o altri espedienti. Poi andrà alle elezioni. Presto, molto prima di quanto ci si possa aspettare, sarà Bossi a staccare la spina. Andremo alle urne a marzo 2012».

Ne è sicuro?
«Si voterà con l’attuale legge, per rinviare il referendum. Non solo io, tutti hanno capito che andrà così e cominciano a prepararsi a questa scadenza. Lei ha qualche dubbio al proposito?».

Non è questo. E’ che se il governo è uscito da questa prova con un risultato assai magro, non mi pare che l’opposizione possa cantare vittoria. Doveva essere il passaggio decisivo per archiviare Berlusconi e dar vita a un governo di larghe intese e a una nuova fase politica, e s’è visto com’è finita.
«È vero: anche questa che era un’ipotesi ragionevole, l’unica che poteva permettere di affrontare seriamente i gravi problemi imposti dalla crisi economica e tentare di varare le riforme più urgenti, è franata di fronte all’ostinazione di Berlusconi di non accettare di fare un passo indietro e guardare solo al suo interesse personale».

Presidente Fini, ma come si poteva pensare che Berlusconi accettasse un nuovo ribaltone?
«Guardi che nessuno ha mai pensato a un ribaltone. Anzi, il punto di partenza di qualsiasi ipotesi era che sarebbe stata praticabile solo col consenso del Pdl e costruita attorno alla maggioranza che ha vinto le elezioni. Il segno di discontinuità chiesto a Berlusconi, data la gravità della situazione, non significava che sarebbe dovuto andare all’opposizione».

Ma dall’interno del Pdl, chi aveva offerto appoggio a una prospettiva del genere?
«Apertamente Pisanu, e con più timidezza lo stesso Scajola, che si sono battuti fino alla fine per convincere il premier a pilotare lui stesso questo passaggio. E riservatamente, mentre la trattativa era in corso, sono stati in molti a farsi vivi, spingendo nella stessa direzione. Parlo di personaggi di prima fila del Pdl, ministri, dirigenti del cerchio più vicino al presidente del consiglio».

E lei che lo conosce da tanto tempo e così da vicino ha sperato davvero che stavolta Berlusconi potesse mollare?
«Io sono stato a sentire e ho dato le mie risposte a chi mi faceva domande. Quando il governo è stato battuto sul rendiconto, pensavo che l’occasione di un chiarimento fosse arrivata. E non perché ci fosse un obbligo giuridico – che non c’è – alle dimissioni. Ma un atto di sensibilità, un gesto politico, nel rispetto della chiarezza e di una prassi consolidata, questo c’era da attenderselo. Tra l’altro, se si fosse dimesso, Berlusconi, com’è accaduto in passato anche a governi diversi dal suo, sarebbe stato probabilmente rinviato alla Camera per verificare se avesse ancora la fiducia».

Di nuovo invece Berlusconi non s’è fidato.
«Pervicacemente, non ha voluto dimettersi. Ed è venuto in aula a dare dello sfascista a chiunque si proponga di dare al nostro Paese un esecutivo più adeguato alle necessità del momento. Confesso che ho trovato insopportabile sentir pronunciare l’accusa di sfascio da chi è riuscito a distruggere in tre anni il suo governo, il suo partito, la sua maggioranza e la credibilità internazionale dell’Italia».

Sia sincero: mentre lo ascoltava si sarà detto che con Berlusconi non c’è niente da fare.
«Mi sono reso conto che il governo, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto la fiducia e che l’ipotesi di un altro governo usciva almeno per ora dall’orizzonte di questa legislatura».

E non s’è rammaricato dell’ingenuità delle opposizioni che avevano creduto ai segnali di fumo che venivano dal Pdl?
«Non credo che fossero segnali di fumo. E le opposizioni, nel corso di questi quattro giorni hanno fatto di tutto per dare la propria disponibilità a un cambiamento. Poi si sa: in un contesto del genere, giocano tanti fattori, le volontà dei singoli, le pressioni, le piccole convenienze, il trasformismo, che è una malattia diffusa e, ahimè, non è una novità. E in ogni caso quattro deputati della maggioranza non hanno votato la fiducia.

Se si andrà a votare con l’attuale legge Porcellum, e con il premio di maggioranza come posta, non crede che ci si andrà di nuovo con due schieramenti e non con i tre attuali?
«No, sono sicuro che saranno tre. La novità sarà il Terzo polo, che ha grandi potenzialità e potrà intercettare tutto lo scontento che viene dagli elettori di centrodestra e anche parte di quello del centrosinistra. Per questo, dobbiamo arrivare al voto con un maggiore amalgama, una spinta unitaria, un’unica identità programmatica. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo riuscirci».

Se le elezioni saranno nel 2012, pensa che Berlusconi sarà nuovamente candidato premier?
«È molto probabile. Se non lo chiede lui, sarà il suo partito a chiederglielo. Non vedo vere alternative nel Pdl».

E lo considera ancora un avversario forte?
«Le dico la verità: molto meno del passato. Anche se in Parlamento riesce ancora a trovare i numeri di cui ha bisogno, le amministrative a Milano e Napoli e il voto dei referendum hanno dimostrato che Berlusconi ha perso la sua presa su gran parte del paese reale».

Non teme che con la stanchezza e l’esasperazione che c’è in giro nei confronti del Palazzo, Berlusconi possa essere tentato dal cavalcare di nuovo il vento dell’antipolitica?
«Con lui tutto è possibile, ma credo che finirebbe col farsi ridere dietro. Se è vero che con la crisi della politica, se non sapremo reagire, tutti corriamo il rischio di apparire come personaggi di un palcoscenico immobile, di quel teatrino – e credo sia il primo a saperlo – Berlusconi è diventato la prima marionetta».

 

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Opposte debolezze

Federico Geremicca

 

Silvio Berlusconi e la sua maggioranza esultano per la cinquantatreesima fiducia incassata, che stavolta ha significato davvero portare a casa la pelle; Pier Luigi Bersani e le opposizioni parlamentari, invece, sono soddisfatti per aver dimostrato al Paese che il governo è debole ogni giorno di più. E così, alla fine di una giornata nient’affatto edificante, può perfino accadere che tutti – o quasi tutti – abbiano un buon motivo per festeggiare. È qualcosa di diverso e di peggio dell’eterno «chi si contenta gode»: è il prodotto di un ormai lungo ed estenuante braccio di ferro tra due debolezze che da un anno e mezzo, di fatto, tengono praticamente in ostaggio il Paese.

Quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio assediata da Indignati, Draghi Ribelli e Popolo viola, non ha bisogno di molte spiegazioni, trattandosi del triste ed identico copione che va in scena dall’aprile dell’anno scorso: da quando, cioè, Fini e la sua pattuglia abbandonarono Silvio Berlusconi lasciandolo in balia di un drappello di cosiddetti «responsabili». Da allora, ogni voto di fiducia è al cardiopalma, preceduto da ricatti e minacce, e seguito da ringraziamenti e prebende ai dubbiosi e agli incerti: ieri, con la nomina fulminea di due nuovi sottosegretari e di due viceministri, il ringraziamento è stato tempestivo come mai. Non si è badato nemmeno a salvare l’apparenza: ma il punto, ormai, non è più nemmeno questo.

Quel che infatti comincia seriamente a preoccupare – anche per le prospettive che apre: altri mesi di paralisi in attesa di elezioni la prossima primavera – è il totale smarrimento del bandolo della matassa, l’assenza di qualunque strategia politica, nella convinzione che prove muscolari – da una parte – o semplice attesa della consunzione del nemico – dall’altra – siano sufficienti ad assolvere ed a legittimare i rispettivi ruoli. Il drammatico declino economico – e ormai perfino etico – lungo il quale si è incamminato il Paese, dovrebbe dimostrare che non è così: ma le locomotive sono lanciate l’una contro l’altra, e fermarle si sta rivelando ormai impossibile.

Un po’ di «politica all’antica» (detto senza nostalgia) e un briciolo di lungimiranza, avrebbero forse fatto intendere a Berlusconi, già un anno fa, che la via del governo del Paese – non della sopravvivenza: perché in quella è riuscito – non poteva passare da un patto/ricatto con gruppi di transfughi in cerca di fortuna. E’ a quell’epoca che andava offerta un’intesa al Terzo Polo di Casini, un patto proposto oggi in maniera affannosa e non credibile. Non averlo fatto ha condotto il governo sulle secche che lo bloccano da mesi. Oggi una soluzione non appare più possibile: e quel che per Berlusconi è peggio, è che questa sorta di muoia Sansone con tutti i filistei non ha solo paralizzato l’esecutivo in un momento difficilissimo, ma ha anche – secondo qualunque sondaggio – compromesso ogni possibilità di alleanza e di vittoria del centrodestra alle prossime elezioni.

Fatte molte differenze (e la fondamentale attiene alle diverse responsabilità di chi governa e di chi è all’opposizione) anche il Pd – perno dell’alternativa – dovrebbe interrogarsi circa il fallimento della propria strategia (caduta del governo Berlusconi a vantaggio di un esecutivo di responsabilità nazionale). Considerata l’aria che tira – e non da oggi – non ha senso sorprendersi delle fiducie incassate dal premier, se l’alternativa è il puro e semplice scioglimento delle Camere: i fatti continuano a dimostrare (ieri qualche «responsabile» l’ha perfino detto in chiaro) che molti parlamentari non intendono «tornare a casa», e che difenderanno stipendio e vitalizio con le unghie e con i denti.

Come mai e perché – in una legislatura che ha visto scissioni, rotture e nascita di nuovi gruppi parlamentari – il tandem Bersani-Casini non è riuscito a catalizzare consensi e voti nelle aule parlamentari, così da render credibile (e possibile) la nascita di un governo diverso, che costituisse per incerti e dubbiosi un’alternativa al bivio «o Berlusconi o il voto»? Cos’è che ha frenato un’iniziativa politica capace di sbloccare la situazione, offrendo perfino qualche margine d’azione in più allo stesso Quirinale?

Le risposte possono essere molte, e vanno cercate. Un partito-calamita come vuol essere il Pd, infatti, non può rassegnarsi a questa apparente incapacità di costruire e allargare le sue alleanze. E’ un tema ineludibile, visto che condiziona anche linea e strategia con le quali affrontare le future elezioni. Se la storia insegna qualcosa, verrebbe da dire che puntare solo sulla crescente debolezza di Silvio Berlusconi, potrebbe essere fatale. Come rischiò di esserlo nelle elezioni del 2006, considerate una passeggiata e vinte, alla fine, per la miseria di 20 mila voti…

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da Repubblica

Fiducia mutilata

di EZIO MAURO

DUNQUE il governo è salvo. Ma è politicamente vivo? Questo aveva chiesto Napolitano a Berlusconi dopo il voto negativo sul rendiconto di bilancio: i numeri sono fondamentali, ma davanti all’evidenza di litigi continui nell’esecutivo, di tensioni nella maggioranza, di indecisioni patenti su misure fondamentali, il Premier è in condizione di garantire una tenuta politica del suo governo?

Berlusconi ha risposto con un voto di fiducia risicato e faticoso, dopo una mattinata di fibrillazioni, passata ad inseguire l’ultimo dei cosiddetti “Responsabili” sull’uscio della Camera. Ma non ha potuto rispondere alla vera questione, che riguarda la salute e la forza del suo ministero. Cioè la sua capacità di governare l’Italia, soprattutto in un momento difficile, con la fiducia da riconquistare nei mercati, nelle istituzioni internazionali e nella pubblica opinione.

La crisi latente che sovrasta Berlusconi – e purtroppo il Paese con lui – continua quindi dopo il voto, intatta. Il Premier vanta come una vittoria una fiducia mutilata, dopo aver perso altri pezzi per strada, affondando ogni giorno di più. Non c’è un significato politico, non c’è alcun valore ideale, non c’è più nessuna capacità d’amministrazione in questa avventura che s’incupisce mentre non sa finire.

Al punto in cui siamo, la fiducia non serve per governare, visto che il Premier non sa garantire né coesione né visione. Serve soltanto per comandare, per rimanere chiusi nel bunker del potere, per difendersi e attaccare. Rimanendo a Palazzo Chigi, il Premier non affronterà le emergenze che premono il Paese ma le sue personali urgenze, con la legge sulle intercettazioni e la prescrizione breve. Più che mai il Paese ha bisogno d’altro: e lo avrà.

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da Il Sole 24 Ore

Una vittoria che non scioglie i nodi

di Stefano Folli


Ai tempi dell’ultimo governo Prodi era abitudine dell’opposizione polemizzare e ironizzare con una certa grevità sulla pretesa dell’allora presidente del Consiglio di voler governare con uno o due voti di maggioranza. Si contestava di fatto la legittimità di quell’esecutivo, se ne sottolineava la distanza dal cosiddetto Paese reale. Da oggi Berlusconi si trova in una condizione molto simile. Quei 316 voti racimolati dopo averne persi per strada almeno cinque, non sono una sorpresa: definiscono un risultato più che prevedibile. Però offrono l’immagine plastica di un’assoluta precarietà, in uno scenario politico ed economico molto degradato rispetto agli anni di Prodi. Senza alcun dubbio stiamo marciando verso le elezioni anticipate nel 2012, perché è impensabile che il castello di carte regga più di qualche mese, forse di qualche settimana.

«È stata una vittoria di Pirro» era il commento più comune ieri a Montecitorio, condiviso in via riservata da quei parlamentari della maggioranza che non hanno smarrito il senso della realtà. Certo, c’è anche l’argomento di Cazzola e altri: «Meglio una vittoria di Pirro che una sconfitta». Banale, in apparenza, ma vero. Numerosi deputati del Pdl hanno votato perché vincere male è comunque preferibile a una disfatta. E dopo diciassette anni di berlusconismo non è facile per nessuno archiviare sul piano formale una stagione peraltro già conclusa nella sostanza. Soprattutto quando non c’è un’alternativa praticabile e la prospettiva è di finire nel limbo del «gruppo misto» in attesa degli eventi. Quel che è certo, questa fiducia è solo un cerotto sulle ferite e le contraddizioni della maggioranza.

Si è trattato di una «verifica» parlamentare che ha verificato poco o niente perché non ha risolto alcuna questione di fondo. E infatti il decreto sviluppo è ancora in alto mare, mentre si è proceduto subito alla nomina di due nuovi viceministri e un sottosegretario. Tre poltrone abbastanza inutili. E tutto il resto?

Sull’unica nomina che invece sarebbe urgente, quella del governatore della Banca d’Italia, il premier ha confidato al capo dello Stato le sue «persistenti difficoltà». Una frase inquietante che si attaglia anche ad altri capitoli dell’agenda politica. È la prova che la fiducia è solo uno schermo effimero sul nulla. Mentre sul tavolo c’è il punto della credibilità complessiva del governo posto nei giorni scorsi da Napolitano e ribadito ieri sera.

Ne deriva che il passaggio parlamentare è servito solo a Berlusconi: è stata una verifica «ad personam», nella quale il premier ha agitato la paura del salto nel buio e una volta di più è riuscito ad allineare dietro di sé il suo partito e la Lega, cioè Bossi. Ma la capacità propulsiva e di attrazione è finita, la luce sembra essersi spenta. Nonostante tutte le lusinghe, è cominciato il cammino inverso: chi si è staccato (anche parlamentari di antica lealtà, come Giustina Destro), chi ha votato di malavoglia «per l’ultima volta».

Mai come in queste ore la Camera ha dato l’impressione di essere inadeguata rispetto all’enormità dei problemi economici e sociali che gravano sull’Italia. Una fortezza remota e abbastanza sorda, chiusa in un gioco di palazzo che l’opinione pubblica non solo non comprende, ma guarda con crescente fastidio. E questo vale in buona misura anche per l’opposizione. Che non esce rinvigorita dallo scontro parlamentare.

Se quella di Berlusconi è una vittoria di Pirro, quella offerta dall’opposizione è una prova di debolezza. I fuochi d’artificio (l’Aventino, il tira e molla sul numero legale) sono stati fantasiosi, ma in termini politici sterili. Perché gli oppositori del governo non riescono a fare l’unico passo avanti che sarebbe utile: dimostrare agli elettori che esiste un’alternativa al centrodestra.

Un’alternativa in grado di andare al governo sulla base di proposte riconoscibili e di ricette più efficaci di quelle del trittico Berlusconi-Bossi-Tremonti. Ma così non è. Insistere per il secondo giorno consecutivo nella polemica contro i radicali (questa volta rei di aver votato alla prima chiama), significa avvitarsi nelle manovre procedurali, nonché dimostrare una chiusura mentale e politica verso un gruppo, il partito di Pannella ed Emma Bonino, che per tradizione non è omologabile. E di ciò il centrosinistra dovrebbe essere il primo a rallegrarsi.

Quanto a Pierferdinando Casini, l’affanno crescente del centrodestra lo incoraggia. Ma ora dovrà dimostrare agli elettori moderati che l’abbraccio con l’asse Bersani-Di Pietro-Vendola è solo tattico, un’esigenza imposta dalla guerra a Berlusconi. In un certo senso anche per Casini, come per il «terzo polo», ieri è cominciata una lunga campagna elettorale. In cui occorrerà essere molto abili per non sbagliare la posizione e il messaggio agli elettori.

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da Corriere della sera

Il messaggio di Bossi: si vota quando lo diciamo noi

MILANO – A sentire Umberto Bossi, sembra facile: «Silvio Berlusconi andrà a votare quando lo diremo noi». E non è affatto detto che ciò avverrà alla scadenza naturale della legislatura: «Non lo so» ha risposto il capo padano alla relativa domanda. La novità vera, in effetti, è proprio quella. Giovedì sera il leader leghista era a cena al Tempio di Iside, a due passi dal Laterano. E ai suoi, l’ha detta che più chiara non si può: «Ma noi dobbiamo tenere in piedi il governo per mettere le tasse? No, no… Andiamo a votare e la gente sceglie». Tanto più che nel Carroccio si va facendo strada la consapevolezza che il decreto sviluppo «a saldi invariati» rischi di trasformarsi nel migliore dei casi in acqua fresca, nel peggiore in un altro boomerang con nuove categorie che insorgono contro il provvedimento.

Con il ritorno alle urne, è vero, la Lega probabilmente non sarà in grado di replicare il successo elettorale del 2008. Ma Bossi, anche venerdì, ha contemplato con un certo compiacimento le difficoltà del Partito democratico e dell’opposizione in genere. E ha cominciato a ritenere che la partita, comunque, la Lega se la possa giocare. Né peraltro, il Carroccio si nasconde l’altissima probabilità che il governo vada clamorosamente sotto in altre occasioni: «Martedì – spiega un deputato – ci sono gli ordini del giorno sul trasporto locale. Senza la mobilitazione di un voto di fiducia, siamo sicuri che la maggioranza ce la farà?». Insomma, resta solo da attendere: «Se il governo cade adesso, Napolitano potrebbe inseguire il governo tecnico. A gennaio-febbraio, si vola alle urne».

Ma a tenere il Carroccio sulla graticola resta la questione interna: i rapporti tra le diverse anime del movimento restano tesissimi. Anche e soprattutto a Varese, là dove il movimento è nato. Venerdì il sindaco della città, Attilio Fontana, da sempre vicino a Roberto Maroni, ha scritto al neo segretario provinciale, quel Maurilio Canton designato al termine di un congresso a tratti drammatico. Scrive il primo cittadino di essere rimasto di stucco nell’apprendere dalla lettura dei giornali che «il mio nome sarebbe stato inserito in “una lista di epurandi” e rischio l’espulsione dalla Lega». Fontana chiede dunque delle «spiegazioni». O meglio: «Una smentita ufficiale, dal momento che mi auguro sia una falsa informazione». Fontana ricorda un appuntamento preso con Canton a cui quest’ultimo ha dato buca: «Non vorrei pensar male… ». E conclude con il fuoco d’artificio: «Ho ricevuto proprio in questo momento una telefonata del ministro Maroni, che si sente offeso dal non essere stato inserito in questa ipotetica lista, al numero 1!». Canton ha risposto attraverso il sito di Varese news: «Ad Attilio, che è un mio grandissimo amico e resta il nostro sindaco di riferimento, dico con assoluta serenità che non esiste alcuna lista e che dunque lui non è in alcuna lista di epurandi. E nemmeno lo è il ministro Maroni».

Quanto al Veneto, le fibrillazioni riguardano il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Che a dispetto degli ordini di scuderia l’altra sera è tornato a chiedere il passo indietro di Silvio Berlusconi. Nel marasma, l’unica isola felice resta tutto sommato il Piemonte di Roberto Cota. Mentre le apprensioni per un possibile consiglio federale di lunedì, a venerdì peraltro non convocato, tengono il movimento in tensione.

Marco Cremonesi

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