Non è chiaro nulla. Come opererà questo maxi-fondo da 3.000 miliardi di euro? Chi prenderà la decisione di ammettere una banca o uno stato a usufruire del fondo? Che significa – in pratica – il ricorso alla “leva finanziaria” per alimentare il fondo? Solo una cosa è decisa; le banche non saranno lasciate fallire, gli stati (ossia i paesi o, come si diceva una volta, “le nazioni”) sì.
Ci eravmo occupati già domenica sera delle decisioni prese dal Fmi e dal G20. Ora vi proponiano una panoramica di punti di vista su queste decisioni, che hanno ovviamente drogato le borse mondiali per un giorno (e forse anche due…). Domani si vedrà. Nel capitalismo morente non si fanno piani a lunga scadenza…
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Un mare di euro salverà le banche
Dagli Usa dati negativi sull’economia reale. L’oro sotto i 1600 euro l’oncia
Per ora c’e una sola certezza: la concessione della sesta tranche di aiuti alla Grecia (8 miliardi di euro), che doveva essere deliberata dall’Ecofin nella riunione del 3-4 ottobre, slitta ancora. A dichiaralo è stato Amadeu Altafaj Tardio – portavoce del commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn – specificando che «la troika sta ancora verificando l’attuazione di tutti gli impegni da parte del governo greco» e che ciò «difficilmente potrà avvenire entro le riunioni di Lussemburgo». Insomma, la Grecia è ancora con il cappio al collo. Eppure da un paio di giorni a livello internazionale si parla di stanziare centinaia, anzi migliaia di miliardi per salvare il sistema finanziario globale da un nuovo tracollo. Solo chiacchiere o c’è qualcosa di vero?
Il punto di partenza è Washington dove domenica si è chiusa l’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale. In quella sede i grandi del mondo – il G20 – avrebbero messo sul piatto 3 mila miliardi (probabilmente dollari) per fronteggiare la crisi dei debiti sovrani e le difficoltà delle banche particolarmente esposte con i paesi nei quali la crisi del debito è più forte. Per dare l’idea della dimensione delle difficoltà, basta una cifra: solo le banche francesi sono esposte per 500 miliardi di euro con i paesi a rischio. E tra questi c’è anche l’Italia. E questo spiega da un lato perché da settimane le banche francesi sono sotto tiro (in borsa hanno perso in poco tempo il 50% della loro capitalizzazione) e dall’altro come mai si cerca di mettere in piedi un gigantesco meccanismo di sostegno del sistema creditizio che rischia di saltare se fallisce qualche stato, trascinando nel fallimento anche banche poco esposte con i paesi in crisi, ma che hanno in portafoglio obbligazioni di banche che potrebbero fallire scatenando così fallimenti a catena che coinvolgerebbero anche paesi forti e istituti di crediti apparentemente senza problemi.
C’è poi un altro piani in preparazione. Lo ha rivelato ieri mattina il londinese Times. Sarebbe un piano salva euro allo studio della comunità internazionale, legato però, al via libera del governo tedesco. Il piano consisterebbe in un aumento di 1000 miliardi di euro del fondo di stabilità europeo per acquistare il debito sovrano ad alto rischio dei paesi in crisi. Si tratterebbe di replicare – scrive il quotidiano- uno schema simile a quello con il quale George Bush finanziò il sistema creditizio Usa (con 700 miliardi di dollari) dopo il crack della Lehman. I mille miliardi di euro sarebbero solo un punto di partenza: usando, infatti, la leva creditizia, la somma potrebbe risultare 4 o 5 volte superiore. Il problema è riuscire a coinvolgere la Germania nell’operazione. Impresa non facile visto che i tedeschi sono stanchi di essere chiamati a finanziari paesi che i cittadino ritengono irresponsabili. Come ad esempio la Grecia.
L’impressione è che Berlino sia ormai convinta che la la soluzione «meno peggio» per Atene sia un default controllato, cioè realizzato garantendo alla Grecia la permanenza nell’area dell’euro. Secondo alcune stime un default organizzato costerebbe meno al sistema creditizio globale per il quale sarebbe anche da lezione. Alla base di tutto c’è la sfiducia della Germania sulla capacità della Grecia di rispettare gli impegni presi. Anche se stasera il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro greco George Papandreou discuteranno in un incontro a Berlino delle riforme che Atene deve attuare per ottenere gli aiuti. Sarà «uno scambio importante sulla situazione economica – ha detto il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert – con un Paese di cui si sta occupando tutta L’Europa».
Il clima, però, non è dei migliori. Domenica, ad esempio, la Merkel,nel corso di un’intervista al canale televisivo Ard, ha ribadito che «l’Europa vale ogni sforzo» e che è necessario «prendere tempo per la Grecia e altri Paesi, affinché l’euro resti stabile. Dobbiamo andare a piccoli passi e poi controllare. Io ascolto i consigli di tutti, ma poi devo decidere e rispondere delle decisioni prese. Ciò che non possiamo fare, è distruggere la fiducia degli investitori, che non metterebbero più il loro denaro in Europa». La Merkel sembra consapevole che una soluzione per la Grecia deve essere trovata e insiste nel sostenere che il default di Atene «non è un’opzione» perché «determinerebbe un effetto domino incontrollato». Tuttavia, si muove con prudenza. Forse troppa, come nel 2009 quando bloccò per mesi gli aiuti europei alla Grecia fecendo degenerare la situazione.
Ma i mercati credono alla creazione o al potenziamento dei fondi di salvataggio? Sembrerebbe di sì, visto che ieri le borse hanno reagito alla diffuzione delle indiscrezioni con un forte rimbalzo. A Piazzaffari – la migliore – l’indice Mib ha messo a segno un recupero del 3,32% trainato dalle performance dei titoli bancari. Ma non è stata una giornata tranquilla: le quotazioni hanno fatto il solito sù e giù con gli operatori che compravano e vendevano nel giro di pochi minuti. Invece è certo che dall’economia reale arrivano segnali non buoni: la fiducia degli imprenditori in Germania è di nuovo diminuita, anche se meno delle aspettative e quindi il dato non è stato accolto male. Negli Usa, invece, la Fed di Chicago e quella di Dallas hanno fatto sapere che i rispettivi indici che misurano l’andamento dell’attività produttiva sono ulteriormente scesi. Così come le vendite di nuove case in agosto e più in generale le quotazioni delle materie prime. A cominciare dal petrolio.
Michelangelo Cocco
Meglio partecipazioni che titoli di stato. E detta le condizioni al vecchio continente
La Cina non salva, compra
L’Europa «salvata» dalla Cina, che fa incetta di titoli di Stato, da Atene a Roma passando per Madrid, forte di un portafoglio gonfio di 3,2 miliardi di dollari di riserve valutarie? Un’ipotesi tornata attuale nei giorni scorsi, assieme alle notizie di contatti tra il governo Berlusconi e Pechino, con l’Italia che avrebbe chiesto a due dei maggiori fondi sovrani del mondo, il China investment corp (Cic) e lo State administration of foreign exchange (Safe), di comprare dosi massicce di Btp.
Ma il vice presidente del Cic, Gao Xiqing, nel corso della riunione del Fondo monetario internazionale (Fmi) dello scorso fine settimana si è schermito: il suo fondo non può essere considerato un «salvatore» di altri paesi, perché «noi abbiamo le nostre politiche e i nostri problemi». E il capo della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, è sembrato dettare sempre a Washington delle condizioni quando ha suggerito di adottare «misure di consolidamento fiscale energiche e credibili», perché la crisi «deve essere risolta subito per stabilizzare i mercati».
Secondo quanto riportato dal China Daily, in un incontro a porte chiuse del direttivo del Fmi, Zhou ha detto che «elemento essenziale di cooperazione è che ogni paese prenda in mano la situazione, vari misure ben mirate e metta ordine in casa propria». La Cina – dove il Partito comunista (Pcc) pianifica la politica economica e la mette in atto sostanzialmente senza ostacoli – chiede che l’Europa tagli strutturalmente la spesa pubblica e che smetta di «vivere al di sopra delle proprie possibilità».
Solo a quel punto la Repubblica popolare sarebbe disposta a spingere il suo soccorso oltre i buoni del tesoro di Stati europei già acquistati nei mesi scorsi. Per questo motivo, ha spiegato Zhou, «è troppo presto» per vedere se la Cina potrà concedere un ulteriore aiuto.
Insomma, come ha detto ieri a Tgcom Samih Sawiris, imprenditore edile e fratello del più noto Naguib (azionista di Wind), «Pechino non è Babbo Natale». E infatti ha già pronte le contropartite «politiche» da chiedere all’Unione europea, anche se il Quotidiano del popolo respinge al mittente l’accusa di «amichevole ricatto». Pechino vuole che l’Unione europea riconosca la Cina come economia di mercato – richiesta ricordata dal premier Wen Jiabao all’ultimo forum di Davos – il che garantirebbe alle merci cinesi maggiore accesso al mercato europeo.
Con la Grecia che rischia un default incontrollato che causerebbe fallimenti a catena di banche (elleniche, tedesche, britanniche e francesi anzitutto), è improbabile che l’aiuto di Pechino prenda la forma di acquisti massicci di buoni che potrebbero diventare presto carta straccia. Wang Weihua, del dipartimento affari internazionali della Shanghai International Studies University, ha spiegato a China Daily: «Ritengo che un forte aumento degli investimenti nelle attività europee da parte dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr) sarebbe più efficace – per aumentare la fiducia e creare posti di lavoro – dell’investimento diretto nei bond».
Già all’inizio di quest’anno la Cina ha siglato accordi con la Spagna per investirvi 7.3miliardi di dollari in progetti che vanno dal settore energetico a quello bancario al petrolio. Per non parlare della Grecia, dove, appena è esplosa la crisi, la società Cosco ha rilevato la gestione di alcuni terminal del porto del Pireo.
L’Europa, che ne assorbe circa il 20 per cento delle esportazioni, è uno dei principali partner commerciali della Cina, la quale a sua volta è diventata il mercato più attraente per i beni di lusso francesi, italiani e per le auto di grossa cilindrata tedesche.
«Energia, tecnologia, oppure alcuni marchi famosi o risorse naturali. Se le società italiane accettano – ha dichiarato ad AgiChina24 He Jun, capo analista della società Anbound Services, che collabora con il governo di Pechino -, la Cina potrebbe investire in questi settori».
Yao Ling, a ricercatore presso la Chinese Academy of International Trade and Economic Cooperation del ministero del commercio, ha parlato esplicitamente di terreno fertile, pronto a essere sfruttato. Se in passato molti europei vedevano con sospetto gli industriali cinesi, ora – ha concluso Yao – «ci vogliono lì».
intervento di Christine Lagarde
WASHINGTON – L’economia globale è entrata in una fase nuova e pericolosa. La strada per un ripresa solida c’è, ma gli ostacoli si moltiplicano. Per non perdere la bussola serve una volontà politica chiara, in ogni parte del mondo: c’è bisogno di leader capaci e con le idee chiare, non di politici che giocano sul filo del rasoio; c’è bisogno di collaborazione, non di competizione; e infine c’è bisogno di agire, non di reagire.
Uno dei problemi principali, oggi, è l’eccessivo indebitamento del sistema finanziario globale, che riguarda Stati sovrani, banche e famiglie, e che riguarda soprattutto le economie avanzate. La fiducia manca e frena le spese, gli investimenti e l’occupazione. Questi Paesi fanno i conti con una ripresa debole e piena di ostacoli, con livelli di disoccupazione inaccettabili. La crisi debitoria della zona euro si è aggravata e aumentano le tensioni nel settore finanziario. L’indecisione politica, in certi casi, sta peggiorando le cose. Le tensioni sociali che covano sotto la cenere rischiano di alimentare ulteriormente la crisi di sfiducia.
In queste circostanze c’è bisogno di un’iniziativa collettiva per favorire la ripresa globale, lungo quattro direttrici principali: riparazione, riforme, riequilibrio e ricostruzione.
Cominciamo dalla riparazione. Prima di fare qualunque altra cosa, è necessario ridare un po’ di respiro ai bilanci (degli Stati, delle famiglie e delle banche), che nel loro stato attuale rischiano di soffocare la ripresa. I Paesi avanzati devono necessariamente mettere in campo piani credibili sul medio termine per stabilizzare e ridurre il debito pubblico.
Ma un risanamento troppo rapido può danneggiare la ripresa e le prospettive occupazionali. Una soluzione esiste: misure credibili in grado di garantire risparmi duraturi sul medio termine potranno lasciare spazio a una crescita nell’immediato, consentendo un risanamento più graduale. Il percorso esatto naturalmente varierà da Paese a Paese, considerando che alcuni Paesi sono sotto pressione da parte dei mercati e non hanno scelta, mentre altri dispongono di maggiori margini di manovra.
È importante anche allentare la pressione sulle famiglie e sulle banche. Riguardo agli Stati Uniti, considero positive le proposte avanzate di recente dal presidente Barack Obama per incoraggiare la crescita e l’occupazione; possono essere utili anche programmi più aggressivi per la riduzione del capitale o misure per aiutare i proprietari di case a sfruttare i bassi tassi di interesse. In Europa gli Stati sovrani devono affrontare con fermezza i loro problemi di finanziamento attraverso piani di risanamento credibili. Inoltre, per sostenere la crescita, è necessario che le banche dispongano di «cuscinetti» di capitale adeguati.
La seconda questione sono le riforme, con il settore finanziario come principale priorità. La cosa positiva è che esistono già accordi ampi su parametri patrimoniali e di liquidità più stringenti, con adeguata gradualità. Ma rimangono in piedi divari pesanti, da affrontare attraverso la collaborazione internazionale per evitare il fenomeno dell’arbitraggio normativo. Includerei nella questione delle riforme anche l’aspetto sociale, in particolare la necessità di individuare e alimentare quelle fonti di crescita in grado di creare un numero adeguato di posti di lavoro; questo aspetto riveste particolare importanza per i giovani.
Il terzo obiettivo dell’azione collettiva, il riequilibrio, ha due significati. Il primo è quello di riaffidare la domanda al settore privato, quando è sufficientemente robusto da accollarsi questo peso. Questo al momento non è ancora avvenuto.Riequilibrio significa anche spostare la domanda globale dai Paesi in deficit nel saldo con l’estero a quei Paesi che hanno un forte surplus delle partire correnti. Con una situazione di spesa bassa e incremento del risparmio nei Paesi avanzati, sono i mercati emergenti più importanti a dover rilanciare l’economia garantendo la domanda necessaria ad alimentare la ripresa globale. Ma anche questo riequilibrio al momento segna il passo, e se le economie avanzate dovessero finire in recessione le conseguenze si farebbero sentire per tutti.
Il quarto imperativo politico è la ricostruzione. Molti Paesi, anche a Paesi a basso reddito, devono ricostruire le loro difese economiche – ad esempio rafforzando la situazione dei conti pubblici – per proteggersi dalle future turbolenze. In questo modo, inoltre, si libereranno risorse per investimenti pubblici in favore della crescita e importanti reti di sicurezza sociali.
In queste circostanze, il Fondo monetario internazionale, con i suoi 187 Stati membri, è l’unica istituzione nella posizione idonea per incoraggiare un’azione collettiva. La nostra consulenza politica può contribuire a chiarire i problemi più pressanti (la crescita, le vulnerabilità di fondo e le connessioni reciproche) e con la nostra attività di prestito possiamo dare respiro a Paesi in difficoltà. Inoltre, guardando oltre l’orizzonte della crisi, il Fmi può contribuire a costruire un sistema finanziario internazionale più sicuro e più stabile.
Non c’è tempo per mezze misure o soluzioni raffazzonate. Se saremo in grado di agire tempestivamente, riusciremo a trovare una via d’uscita dalla crisi e a ripristinare una crescita globale forte, sostenibile ed equilibrata. Ma dobbiamo agire in fretta, e dobbiamo agire insieme.
* Christine Lagarde è la direttrice generale del Fondo monetario internazionale.
Copyright: Project Syndicate, 2011.
www.project-syndicate.org
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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Obama: l’Europa sta affrontando la crisi ma non sta facendo in fretta
L’Europa «sta affrontando la crisi di debito, ma non sta agendo abbastanza in fretta» ha detto il presidente americano Barack Obama durante il dibattito sull’occupazione organizzato da LinkedIn, social network orientato al mondo del lavoro. «La crisi del debito in Europa sta spaventando il mondo intero», ha detto il presidente dal quartier generale della società della Silicon Valley, al terzo dibattito attraverso un social network dopo simili esperienze con Facebook e Twitter, auspicando che i leader europei trovino presto una soluzione.
Un concetto simile è stato espresso dal segretario del Tesoro Timothy Geithner secondo cui l’Europa deve agire il più rapidamente possibile per risolvere la crisi del debito pubblico. In visita alla sede di United Parcel Service a Sandy Spring, in Georgia, per promuovere la proposta di legge di Obama a sostegno del lavoro, Geithner ha detto che sì i paesi europei «stanno prendendo provvedimenti e stanno certamente cercando di mostrare un maggior impegno, di dedicare maggiori forze per trovare una soluzione alla crisi finanziaria che stanno vivendo».
Geithner ha incontrato i suoi corrispettivi europei nelle ultime tre settimane, prima in Francia e in Polonia e poi a Washington in occasione dell’incontro annuale del Fondo Monetario Internazionale. Gli Stati Uniti stanno facendo pressione sui paesi dell’Unione Europea affinché aumentino le dimensioni del fondo di emergenza dell’Unione Europea, ora di 440 miliardi di euro.
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Gli operatori già scontano un default pilotato
di Vittorio Da Rold
Il governo greco ha smentito seccamente di aver mai discusso «ipotesi di ristrutturazione del debito pubblico» ma da alcuni giorni i mercati stanno speculando proprio su un taglio del 50% sul pagamento di quanto spetterebbe ai suoi creditori. Effettivamente i piani di aiuto concordati il 21 luglio dalla Grecia con Ue e Fmi si limitano a prevedere una possibile partecipazione “volontaria” degli investitori privati ai sostegni al paese, mediante un accordo di swap su titoli di Stato che vedrebbe rinnovare a scadenza parte delle emissioni possedute, subendo però un taglio del 21% sul valore dei titoli.
Troppo poco, scommettono i mercati. La Grecia che ha un debito pari a 353 miliardi di euro, cinque volte quello che nel 2011 condusse alla bancarotta l’Argentina. Il focus dei politici, di alcuni esponenti della stessa Bce, è ora spostato sul default pilotato e ordinato della Grecia, così da ridurre il debito dal 167% del Pil all’80 per cento. Anche gli sforzi per dare più capacità di fuoco all’Efsf, il fondo salva-stati, e alla possibilità di sostenere e ricapitalizzare non solo le nazioni ma anche le banche, così da bloccare il contagio, vanno in questa direzione.
I titoli infatti viaggiano a quotazioni pari al 40% del valore, così la partecipazione al 21% è diventata vantaggiosa per i creditori. Non a caso ieri la banca tedesca DZ, quarta in Germania per esposizione nei bond greci, con 731 milioni di euro di obbligazioni elleniche in pancia, si è detta pronta a un secondo swap di maggior entità comprendente anche bond in scadenza dopo il 2020. L’alternativa, di un default stile Argentina, creerebbe perdite maggiori.
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All’Europa servirebbe una vera «bad bank»
di Donato Masciandaro
I rischi di una crisi gemella in Europa di debiti pubblici e bancari si affrontano separando le due vicende – con una bad bank – e non intrecciandole ancor di più, con un fondo salva-Stati. Piuttosto che lanciare fumosi annunzi di fondi salva-Stati a Washington , occorre che i politici europei mettano subito in sicurezza i sistemi bancari. In un clima di perdurante incertezza, occorre preservare la fiducia nella solidità del sistema bancario europeo.
Questo ruolo è assolto oggi dalla Banca centrale europea in modo efficace, ma improprio e temporaneo, quindi foriero di ulteriore incertezza. Per spezzare la spirale della sfiducia, occorre che l’istituendo Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (Efsf) assuma subito i connotati di una moderna bad bank, avendo come attivo i titoli dei paesi che l’Unione giudica a rischio insolvenza, con tre diverse possibilità di finanziamento, da modellare al meglio: capitalizzazione da parte degli Stati membri in ragione degli attivi bancari così bonificati, emissione di eurobond con garanzia dell’Unione, accesso al credito della Bce.
I mercati finanziari continuano a maltrattare le banche europee – italiane incluse – guardando anche con punte di isteria alla miscela tra incertezza della congiuntura economica generale, presenza nei portafogli bancari di titoli di Stato a crescente rischiosità, perplessità sugli effetti del futuro disegno delle regole.
È una situazione non sostenibile a lungo. Si è creato una specie di gorgo dell’incertezza, in cui agiscono almeno quattro diversi mulinelli di sfiducia collettiva, che si rinforzano a vicenda, finendo sempre per colpire il sistema bancario. Il primo mulinello è la sfiducia nella ripresa economica, che fa crescere i dubbi sulla qualità futura del credito bancario. Il secondo mulinello – che prende forza dal primo – è la sfiducia nella capacità di alcuni Paesi – prima Grecia, Portogallo Irlanda e poi Spagna ed Italia – di non essere in grado di onorare i propri titoli pubblici. Il secondo mulinello sta provocando l’emergere di un terzo mulinello, che ha il suo epicentro nel sistema bancario: la crescente rischiosità di alcuni titoli pubblici fa crescere la sfiducia da un lato nella qualità dell’attivo di diverse banche, dall’altro, a causa dei maggiori oneri per le stesse banche, nell’approvvigionamento della raccolta, unita alla ritrosia che i governi ed i regolatori nazionali hanno nell’essere trasparenti quando si parla delle loro banche. I tre mulinelli dell’incertezza trovano ulteriore forza nella sfiducia che i mercati finanziari mostrano nella capacità dei politici – soprattutto ma non solo europei – con la loro perdurante volatilità verso il basso. È possibile fare qualcosa contro il gorgo dell’incertezza?
La priorità è bloccare il mulinello di sfiducia rappresentato dallo stato di salute del sistema bancario europeo. Perché oggi preoccupa tanto la possibilità bancarotta di uno Stato relativamente piccolo come la Grecia? Si risponderà che la ragione principale è il possibile effetto contagio che potrebbe arrivare a toccare il debito di membri dell’Unione più grandi, come la Spagna o l’Italia. Ma spesso si dimentica di ricordare che probabilità, dimensioni, e caratteristiche del contagio dipendono in maniera cruciale dal modo con cui il sistema finanziario, ed in particolare le banche private, possono essere coinvolte, sia direttamente che indirettamente attraverso gli strumenti derivati e le interconnessioni con il sistema finanziario ombra. La tutela della stabilità bancaria diventa allora il tassello fondamentale nella strategia europea per contrastare il gorgo dell’incertezza.
Da sempre nel sistema bancario l’incertezza degenera in panico quando non si riesce più a distinguere le banche tra solide, semplicemente illiquide ed irrimediabilmente insolventi. Da sempre il mercato non riesce mai da solo a far bene tale distinzione, ed è perciò che esiste una banca centrale che contribuisce alla stabilità sistemica fornendo liquidità solo alle banche che possono dare a garanzia titoli a rischio zero. La gestione delle banche a rischio insolvenza esce dal perimetro delle responsabilità della banca centrale. Se si pensa all’Unione Europea, prima che si scoprisse il falso in bilancio nei conti greci il meccanismo seguiva queste regole del buon governo della liquidità.
Con la sorpresa greca si è introdotto un elemento nuovo e negativo: attività finanziarie sistematicamente presenti nei portafogli delle banche europee – ancorchè in proporzioni diverse – sono passate da un rischio zero ad un crescente rischio insolvenza. Inoltre, la macchia d’olio della sfiducia ha iniziato ad allargarsi, poiché, causa il ruolo ancora forte e interconnesso del sistema finanziario ombra, dimensioni e caratteristiche degli effetti di una insolvenza sono avvolti nella nebbia. Ecco che si affaccia la situazione in cui diviene difficile distinguere la qualità dei bilanci bancari, che abbiamo ben conosciuto durante la crisi finanziaria partita con il dissesto Lehman Brother. La Bce – oggi come allora – sta svolgendo un efficace ruolo di supplenza, che è però improprio e temporaneo. Nei fatti – paradossalmente – finisce purtroppo per contribuire alla crescente incertezza.
Allora occorre che l’Unione dimostri di avere la forza politica di definire ed implementare un Fondo Europeo della Stabilità che contribuisca a creare paratie tra i diversi mulinelli. L’Unione – come giustamente suggerito da Guido Tabellini su queste pagine – deve definire quali sono i Paesi membri a rischio insolvenza, individuando così le attività finanziarie tossiche presenti nei bilanci delle banche europee.
Il Fondo dovrebbe acquistare tali attività, assumendo sul suo bilancio il rischio insolvenza; oggi basterebbe partire con un assorbimento totale dei titoli greci, irlandesi e portoghesi. La Bce tornerebbe ad essere responsabile solo della liquidità, accettando in garanzia solo i titoli dei Paesi membri non a rischio insolvenza. La gestione del rischio sistemico verrebbe sottratta alla miopia ed alla opacità di governi e regolatori nazionali. Lo stato di liquidità e di solvibilità delle banche europee tornerebbe comprensibile, con normalizzazione dei mercati interbancari e azzerramento della paranoia da ricapitalizzazione. La proposta alternativa – formulata a Washington – di aiutare gli Stati membri, che poi dovrebbero occuparsi delle rispettive banche, non contribuisce a creare paratie tra i diversi mulinelli di incertezza, anzi rischia di accentuarsi, aumentando di riflesso tutte le incognite, anche politiche.
Con la bad bank l’Unione – cioè i contribuenti europei – sarebbe il garante ultimo della solvibilità, con una distribuzione dei costi potenziali che può rispecchiare diverse soluzioni politiche. Dalla soluzione politica di come si distribuirebbero i costi scaturirebbe anche la fisionomia del finanziamento del fondo. Le possibili opzioni generali sono tre: finanziamento a carico degli Stati membri, anche calibrabile in funzione del beneficio ricevuto da ciascun sistema bancario nazionale; emissione di eurobond, anch’essi con un disegno di garanzia modulabile; possibilità residuale di rifinanziamento presso la Bce, che avrebbe la bad bank europea pubblica – che per definizione non può fallire – come possibile controparte, ma nel mercato della liquidità.
Dunque le opzioni ci sono per affrontare l’incertezza; è il tempo che si riduce e con esso credibilità ed efficacia di una azione dell’Unione a tutela del suo futuro. Ne sono coscienti Bruxelles, ed i politici nazionali?
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