Il nodo del contendere è chiaramente il ruolo della Bce, che ormai soltanto la Germania vuole tenere bloccata in una pratica zoppa. Tabellini, sul Sole 24 Ore, centra il problema con molta precisione professorale. Ma va aggiunto che l’eventuale “completamento” delle funzioni della Banca centrale, nel senso di farne un vero e proprio “prestatore di ultima istanza” – come la Federal Reserve americana o la Banca d’Inghiterra – non sarebbe davvero una “soluzione” della crisi. Una capacità manovriera maggiore, con la “stampa di moneta” a seconda delle necessità, garantirebbe una gestione più efficace delle dinamiche speculative sul debito pubblico dei vari paesi (senza controindicazioni di breve periodo sull’inflazione, visto che i “fattori produttivi”, in piena recessione, sono ben lontani dal “pieno utilizzo”), ma non avrebbe naturalmente efficacia sulle tendenze complessive. In estrema sintesi, allontanerebbe le ondate speculative pure, indirizzandole verso altre aree del mondo. Per un po’ di tempo…
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Il Re è nudo
Come in molti avevano previsto, le decisioni prese nell’ultimo vertice europeo di poche settimane fa si sono rivelate del tutto inadeguate ad arrestare la crisi. Cosa fare per interrompere il dilagare della sfiducia?
La risposta ufficiale dei politici tedeschi è: dovete rimettere in ordine i conti pubblici e riformare l’economia. Non c’è dubbio che ciò vada fatto; è impensabile che i Paesi del Sud Europa escano dalla crisi se non riescono a recuperare la capacità di crescita e a risanare la finanza pubblica.
Ma sarà sufficiente tutto questo? Ormai è sempre più evidente che la risposta è negativa. Le riforme nazionali sono una condizione necessaria ma non sufficiente per arrestare la crisi. La ragione è che la sfiducia non riguarda più il singolo Paese, ma l’intera zona euro.
Ormai si è diffusa la convinzione che le fondamenta stesse dell’euro sono viziate da un difetto costitutivo. In tutti i Paesi avanzati, la banca centrale ha il compito di tutelare la stabilità finanziaria, agendo da prestatore di ultima istanza. La Bce questo compito può svolgerlo solo a metà: essa può offrire liquidità alle banche in difficoltà, ma non può farlo nei confronti degli Stati dell’euro. Il risultato è che i Paesi ad alto debito pubblico sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati. Fino a che la fiducia dura, tutto va bene. Se per qualche ragione la fiducia vacilla, il peso del debito diventa presto insostenibile.
Questo problema è aggravato da un secondo grave difetto nelle fondamenta dell’euro: la politica monetaria è stata centralizzata, ma la supervisione bancaria è rimasta una competenza nazionale. E oggi le autorità di supervisione non si fidano più l’una dell’altra. La sfiducia è così diffusa, che i supervisori nazionali impongono alle banche di non trasferire liquidità fuori dal loro Paese, per non trovarsi esposte nell’eventualità che la crisi degeneri. Siamo arrivati al paradosso di avere una moneta unica, con 17 mercati bancari e del debito pubblico segmentati dai confini nazionali, che praticano tassi di interesse diversi alla loro clientela. Una situazione del genere non può durare a lungo.
È difficile immaginare un ritorno della fiducia se questi difetti costitutivi non sono corretti. Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato. Le istituzioni monetarie dei Paesi avanzati sono il frutto di una lenta e graduale evoluzione, di processi di prova ed errore in seguito ad eventi quali la grande recessione degli anni 30 e gli shock inflazionistici degli anni 70. I padri fondatori dell’euro sono stati troppo ambiziosi: essi hanno disegnato al tavolino un sistema particolarmente innovativo, e poi lo hanno blindato in un trattato internazionale. Ora stiamo scoprendo che, nelle circostanze estreme scatenate dalla crisi finanziaria del 2008, il sistema non riesce più a funzionare. È giunto il momento di ammetterlo, dichiarando apertamente che il trattato va rivisto.
L’asta di titoli di stato tedeschi che ieri è rimasta invenduta è l’ultima conferma di quanto diffusa sia ormai la sfiducia.
Ma paradossalmente, questo evento potrebbe aiutare a sbloccare la situazione, per due ragioni. Primo, perché ha reso evidente a tutti che, nonostante la sua retorica, la Bundesbank di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza quanto meno in via temporanea nei confronti dello Stato tedesco. I titoli non venduti in asta infatti sono stati assorbiti dalla Bundesbank, che da sempre svolge questo ruolo per garantire la liquidità dei titoli tedeschi. Secondo, perché potrebbe anticipare il momento in cui anche la Bce si convince che la stabilità finanziaria, e non la stabilità dei prezzi, è la sfida su cui si gioca la sopravvivenza della moneta unica. Se anche la banca centrale tedesca è costretta a comprare il debito del suo Stato, vuol dire che è davvero giunto il momento di una svolta nella politica monetaria. Non solo tagliando più decisamente i tassi di interesse, ma anche generalizzando l’acquisto di titoli di Stato in una politica di quantitative easing analoga a quella adottata tempo addietro dalla Federal Reserve americana per sostenere l’economia e immettere liquidità.
I prossimi mesi (e forse le prossime settimane) saranno cruciali per capire se vi sarà una svolta nell’impostazione e nelle fondamenta della politica monetaria europea. Se questo non accadrà, la crisi è destinata ad aggravarsi.
da Il Sole 24 Ore
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Il vero bazooka è l’asse Fmi-Bce
La situazione sta degenerando seriamente. Quando il contagio bussa anche alla porta di Berlino, come avvenuto mercoledì con il flop dell’asta dei Bund tedeschi, è chiaro che i dubbi del mercato non investono più soltanto la debole periferia meridionale dell’Eurozona, ma si estendono ormai alla sopravvivenza dello stesso progetto euro. E c’era da aspettarselo: l’inetta gestione della crisi ha svelato appieno l’incapacità dell’Europa di compiere il salto qualitativo necessario per instaurare un’unione economica e monetaria degna del nome.
Molto si è detto su cosa sarebbe necessario in questa direzione; si vedano, ad esempio, i cinque punti del Manifesto per l’Europa pubblicato il 1° novembre sul Sole 24 Ore. Ma questi passi incontrano un classico ostacolo di sequenza. Da un lato, i passi possibili a breve (come gli eurobond) sono giudicati prematuri dalla Germania e da altri Paesi, perché si considera che prima vada instaurata una disciplina più vincolante, in modo che la protezione offerta dai bond comuni sia meritata e non una scappatoia per allentare gli sforzi. Dall’altro lato, i passi propedeutici per guadagnarsi tale merito – il rigore imposto da modifiche ai Trattati – richiedono a loro volta tempo. Tempo che oggi proprio non c’è, per star lì a discutere quale sia il carro e quali siano i buoi.
Si sta assistendo al diffondersi del contagio all’intera area euro. Le interconnessioni di questa epidemia sono ormai tali che l’Europa non appare neanche più in grado di salvare se stessa, poiché ogni aiuto indebolisce chi lo dà e ne intacca il merito di credito. L’ultimo esempio è fornito dal caso Dexia, espressione dell’abbraccio mortale tra crisi bancaria e crisi del debito sovrano – crisi gemelle, trattate troppo a lungo come fenomeni indipendenti. L’accordo di salvataggio franco-belga per la Dexia è alle corde, poiché i due partner sono essi stessi sotto forte pressione, con la Francia a rischio di perdere l’ormai palesemente generosa valutazione tripla A. E quando (non se) ciò avverrà, cadrà anche l’intera impalcatura del fondo Efsf, che si regge sulle garanzie dei pochi Stati dell’Eurozona che ancora godono del rating massimo. Tanto è che continua ad ampliarsi anche lo spread tra Bund ed emissioni Efsf e ci si comincia persino a chiedere chi salverà lo stesso fondo salva-Stati. Non sorprende che in questa situazione il potenziamento dell’Efsf deciso a fine ottobre sia in alto mare, e che i Brics non abbiano nessuna intenzione di contribuirvi.
In sostanza, quando una crisi investe un’intera regione, diventa difficile per la regione stessa tirarsene fuori. Certo, i veti all’azione della Bce non aiutano, ma non serve illudersi che siano facilmente superabili. Tuttavia, dietro le quinte, vi sono discussioni in corso su una via di superamento che, pur bizantina, potrebbe forse essere accettabile e funzionare.
La via allo studio – non smentita, ma certamente tutt’altro che acquisita – è quella di prestiti della Bce al Fondo monetario internazionale. Mentre lo statuto della Bce vieta, come è noto, il finanziamento diretto dei governi, l’articolo 23 prevede invece che «la Bce e le banche centrali nazionali possono… effettuare tutti i tipi di operazioni bancarie con i Paesi terzi e le organizzazioni internazionali, ivi incluse le operazioni di credito attive e passive». L’Fmi, a sua volta, potrebbe usare tali fondi – potenzialmente anche congrui, date le possibilità illimitate della Bce – per fornire liquidità ai Paesi euro in difficoltà. E potrebbe farlo imponendo la classica condizionalità delle sue operazioni, togliendo la Bce dall’imbarazzo del ruolo inconsueto ricoperto ad agosto con le lettere all’Italia e alla Spagna. Si supererebbe così anche la preoccupazione di chi vede negli eurobond un aiuto incondizionato e fonte di ‘moral hazard’. Infine, l’Fmi si assumerebbe anche il rischio di credito, cosa che può fare con un certo agio, dato lo status di creditore preferenziale di cui gode, a differenza della Bce.
Infine, l’Fmi ha questa settimana annunciato un’estensione della sua rete anti-contagio, con l’introduzione di una nuova linea di credito per fornire liquidità a Paesi colpiti dalla crisi (sia qui detto per inciso: la creazione di questo strumento e altre importanti innovazioni recenti del Fondo devono molto a Reza Moghadam, nominato la settimana scorsa a nuovo capo del dipartimento europeo; da lui possiamo attenderci creatività, ma anche notevole grinta, nel monitoraggio Fmi dell’Italia). Le risorse del nuovo strumento sono limitate; per l’Italia, il finanziamento a disposizione sarebbe di appena 43 miliardi di euro (raddoppiabile se l’accordo viene esteso a due anni), contro gli oltre 200 miliardi di euro di debito in scadenza nei prossimi mesi. Lo strumento potrebbe però giocare un ruolo chiave se facesse parte di un pacchetto con fondi provenienti anche dalla Bce. Il direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, ha definito la nuova linea di credito «un altro passo verso la creazione di una rete di sicurezza efficace per affrontare le crescenti interconnessioni globali».
Appunto: con la crisi dell’euro ormai con ripercussioni globali, la risposta deve anch’essa assumere una dimensione globale, che tenga conto degli interessi della comunità internazionale nel suo complesso, con buona pace degli orgogli parrocchiali del Vecchio mondo. Accettando tale monitoraggio internazionale, l’Europa avrebbe inoltre maggior titolo per richiamare all’ordine anche gli Stati Uniti, il cui approccio alla riduzione del proprio debito si è rivelato altrettanto disfunzionale. E chissà che il fatto che la gestione della crisi europea non sia più soltanto nelle mani di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non serva, di per sé, a iniettare una dose di fiducia nei mercati, aiutando anche il Governo Monti nei suoi difficili primi passi.
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Consensi a superMario
Una premessa è tuttavia necessaria: in mattinata Alain Juppé, il ministro degli esteri di Sarkozy, ha rilasciato da Parigi una dichiarazione «bollente», un macigno che si è abbattuto sul vertice di Strasburgo che non era ancora iniziato. Juppè, ha sostenuto che la Bce deve giocare un «ruolo essenziale», «ristabilire la fiducia» e, in questo modo, cercare di risolvere la crisi del debito europeo. La posizione di Juppè è in netto contrasto con quella della Merkel, ma appare critica anche verso il suo presidente, non in grado di trovare una posizione comune con la Germania. Non a caso, per Juppè, recentemente Parigi e Berlino «non sono state completamente d’accordo» sulle ricette per risolvere la crisi.
Ovviamente nel corso della conferenza stampa congiunta, Merkel (contro Juppè) ha ribadito la posizione tedesca. Cioè il «no» agli eurobond e alla messa in discussione del ruolo della Bce. Per la Mekel, infatti, la Banca centrale europea «è indipendente» e «non c’è alcuna proposta di riforma del suo ruolo» nei Trattati europei. Ma il governo italiano – è stato chiesto – sulla questione eurobond cosa pensa? Monti, molto furbescamente, ha glissato per non fare strappi con la Merkel e si è limitato, indirettamente, a sostenere la posizione tedesca , affermando: «è importante prima di tutto l’unione fiscale dell’Unione».
Monti teoricamente era l’ultimo arrivato, il nuovo ospite, al tavolo dei grandi che da mesi condizionano i destini dell’Europa. Forse per questo ha tenuto un basso profilo sostenendo che l’Italia non ha ambizioni di entrare a far parte di un direttorio a tre (assieme a Germania e Francia) ma piuttosto di fare da «ponte» con i piccoli i paesi più piccoli». Insomma, il professore sembra cercare la propria forza non tanto all’interno del duo franco-tedesco, quanto piuttosto nella rappresentanza dei piccoli paesi, soprattutto quelli della sponda mediterranea che più soffrono delle imposizioni del direttorio.
Insomma, un Monti diplomatico e educato che, tuttavia, non ha risparmiato una pesante stoccata ai due interlocutori con lui sul palco. Ha ricordato gravi errori del passato di Francia e Germania, affermando che «una buona parte della perduta credibilità del patto di stabilità» è legata al fatto che nel 2003 per Francia e Germania, «con la complicità del governo italiano, che presiedeva l’Ecofin» si è «passati sopra a certe deviazioni. Credo sia stato un grosso errore ed è stato riconosciuto da tutti». Monti, oltre che a Parigi e Berlino, ha quindi sparato a zero anche contro l’Italia, allora presieduta da un governo di centro destra.
Poi Monti ha dichiarato che l’Europa sta vivendo una fase difficile « problematica per tutti anche per la tenuta dell’eurozona ma anche piena di promesse come la storia europea insegna. Ho illustrato il programma del mio governo in corso di articolazione al di là dei vincoli da perseguire in modo rigoroso entro termini serrati, confermando l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 e il raggiungimento del pareggio in modo sostenibile». Che significa? Lo ha spiegato lo stesso monti affermando che « la sostenibilità implica una crescita economica che dia garanzia di una tenuta nel tempo» che poggia «su riforme strutturali e la tempistica attraverso cui intendiamo muoverci» per la «tenuta salda dell’euro». Come interpretare questa dichirazione? Quasi sicuramente ha voluto dire che il governo italiano varerà una manovra restrittiva ampia sia per raggiungere il pareggio di bilancio, sia per reperire risorse per dar impulso alla crescita. Neanche a dirlo, questa manovra sarà accompagnata da«riforme» di struttura. Ovvero riforma del mercato del lavoro con nuovi margini di flessibilità, liberalizzazioni e privatizzazioni.
Le armi spuntate della Bce sul debito Ue
Maximilian Cellino – Morya Longo
In principio fu la Grecia. Poi Irlanda, Portogallo e Spagna. Poi l’Italia. Infine la Francia e, due giorni fa, anche la Germania. Da quando la crisi di fiducia ha colpito l’asta dei Bund tedeschi, andata semi-deserta mercoledì, sul mercato c’è chi inizia a pensare l’impensabile: che la bufera dei mercati possa prima o poi arrivare fino alla Banca centrale europea. La Bce, insieme a tutte le Banche centrali dell’area euro, ha infatti nel proprio bilancio 194 miliardi di euro di titoli di Stato di Paesi in crisi: cifra che corrisponde al 2% del Pil europeo.
Considerando anche le obbligazioni bancarie garantite riacquistate a due riprese, la Bce e le Banche centrali nazionali europee detengono titoli per oltre 254 miliardi: quasi l’11% delle attività complessive presenti in bilancio. Se poi si considerano i titoli che le banche dell’Eurosistema offrono come collaterale per accedere alle operazioni di rifinanziamento effettuate da Francoforte, l’ammontare di debito detenuto proveniente dai paesi «periferici» sale a circa 600 miliardi. Un bel fardello. Che, potenzialmente, pone dei rischi. La pensa così Andrew Roberts, economista di Rbs: «La prossima ondata sui mercati – ha scritto in un report – sarà quando gli investitori inizieranno a porsi qualche dubbio proprio sul bilancio della Bce». A quel punto la catena del contagio sarà veramente chiusa.
Il cerino ai contribuenti
Se questo sia un rischio effettivo, o semplicemente il timore di un mercato finanziario che ormai ha paura anche della propria ombra, è difficile a dirsi. Una Banca centrale, infatti, ha tutti i mezzi per tirarsi fuori dai guai in qualunque momento: non tanto per il denaro già accantonato in bilancio per far fronte a eventuali perdite (5,2 miliardi a fine 2010), quanto perché può stampare moneta. Questo però la Bce (soprattutto per il veto tedesco) non vuole farlo. Finora ha comprato (stima Barclays Capital) BTp per 85 miliardi, Bonos spagnoli per 40 miliardi oltre a circa 70 miliardi suddivisi fra titoli greci, irlandesi e portoghesi. Ma ha puntualmente «sterilizzato» gli acquisti, ritirando ogni settimana il denaro immesso sul mercato. Insomma: ha sempre annullato gli effetti monetari degli acquisti.
Se parlare di rischio-Bce è certamente eccessivo, la questione, agli occhi del mercato, è però un’altra: questi dati dimostrano agli investitori che l’istituto centrale ha disponibilità sempre più limitate per comprare titoli di Stato dei Paesi in crisi. Le operazioni di sterilizzazione, anzitutto, non sono prorogabili all’infinito e per qualsiasi ammontare riacquistato, ma questo forse non è l’ostacolo maggiore. Il problema è che il suo bilancio non è un pozzo senza fondo: «Il mercato – sostiene un economista – potrebbe mettere in discussione la capacità effettiva della Bce di sostenere i titoli di Stato e dunque di abbassare i rendimenti».
Il motivo di questo timore è facile da capire: più la Banca centrale acquista titoli di Stato dei Paesi in crisi, più incamera rischi nel proprio bilancio. E dato che i suoi «azionisti» sono le Banche centrali dei singoli Stati europei, le eventuali perdite in fin dei conti vengono ripartite su di loro in base alle quote azionarie. La Bundesbank, che è la prima socia della Bce con il 27% del capitale, ha nel suo bilancio un rischio potenziale di 46,6 miliardi, pari all’1,8% del Pil tedesco. La Banca d’Italia, terza azionista con il 17,9% del capitale, ha un rischio potenziale di 30,7 miliardi. La Bce, invece, ha solo un rischio dell’8%, pari a 15 miliardi.
Questo significa che, qualora dai titoli di Stato la Bce incassasse perdite tali da erodere il patrimonio, sarebbe necessario un aumento di capitale. E chi lo paga? Gli stessi Stati europei. Insomma: i contribuenti. Il rischio è certamente remoto, se si considera che anche nel caso della Grecia (che ha già annunciato un taglio del proprio debito del 50%) la ristrutturazione non intaccherà il bilancio della Bce e delle Banche centrali europee: per il semplice motivo che, essendo l’operazione Grecia volontaria, loro non aderiranno.
Il mercato si aspetta che Francoforte non partecipi anche ad eventuali ristrutturazioni dei debiti di altri Stati in difficoltà: cosa che forse la mette al riparo da sorprese, ma che a sua volta contribuisce a mettere ancora più sotto pressione i titoli sovrani in crisi. Ciò che più interessa, e che potrebbe fare la differenza, è però la percezione degli investitori: ormai inizia a diffondersi il sospetto che lo spazio di intervento, anche per la stessa Bce, non sia illimitato. Che anche quest’arma sia spuntata.
Un bilancio in peggioramento
È comunque certo che nel frattempo, con i continui acquisti di titoli, il bilancio dell’Eurotower si stia appesantendo: nella settimana del 18 novembre le attività totali in bilancio hanno raggiunto la cifra record di 2.393 miliardi di euro. Considerato che l’ammontare di capitale e riserve è di 81,5 miliardi, la leva finanziaria (cioè il rapporto tra attivi e capitale) sarebbe pari a 29 volte: numeri importanti, al livello di un istituto di credito commerciale europeo. E, soprattutto, in crescita rispetto a fine 2010, quando il bilancio era inferiore ai 2mila miliardi e il rapporto soltanto a quota 25. Se però si guarda alla Federal Reserve, che per molti è in questo momento il paradigma da imitare, si scopre che i titoli riacquistati hanno superato i 2mila miliardi di dollari (quasi 8 volte l’ammontare rastrellato dalla Bce) e che la leva viaggia verso 53 (era 41 a fine 2010). Nonostante i timori del mercato, dunque, lo spazio per agire potrebbe non mancare: il problema è di convincere gli investitori. Di ripristinare la fiducia prima che sia troppo tardi. Prima che anche la Bce, ultimo baluardo dell’Europa unita ancora non scalfito dalla speculazione, perda la sua credibilità.
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