Ma quello che risulta totalmente insopportabile è l’argomentazione usata.
Da un lato si definisce “arcaico” e “ideologico” qualsiasi ragionamento portato a difesa di un istituto che – semplicemente – impedisce il licenziamento “capriccioso” di un singolo lavoratore. Dall’altro si impasta con “egualitarismo” di risulta un insieme di ideuzze reazionarie.
Il ragionamento-tipo è questo. “Ci sono un sacco di giovani con contratti troppo precari e lavoratori anziani iper-protetti; due mondi separati, un sistema duale, bisogna ricostruire l’qeuità”. Sorvoliamo sul fatto che la precarietà contrattuale esiste perché le imprese l’hanno voluta, il centrosinistra gliel’ha concessa con il “pacchetto Treu” del 1997, il centrodestra l’ha fatta esplodere con ben 43 tipologie di rapporto “legale” e i fan di Toni Negri l’hanno benedetta come la “liberazione” dallo stesso lavoro per tutta la vita.
Restiamo sulla logica argomentativa. Non c’è dubbio che esiste una disparità forte tra precari indifesi e lavoratori con contratto a tempo indeterminato presso aziende con più di 15 dipendenti. La domanda quindi è: come si costruisce l’egualianza?
La via della Fornero, prima di lei di Sacconi e Ichino, insomma delle imprese, dice: meno diritti per tutti.
Naturalmente la logica ammette almeno un’altra soluzione: più diritti per tutti.
Ma qui interviene l’economista liberista che dice: no, questo le imprese non se lo possono permettere, perché la competizione è globale e ci sono un sacco di paesi produttori in cui i lavoratori non hanno alcuna protezione, e questo crea uno svantaggio competitivo per l’impresa sotoposta a regole, una distorsione del mercato che va sanata.
Quindi, a voler essere logici, ci stanno dicendo che la struttura contrattuale “media” a cui si cerca di arrivare a forza di “riforme strutturali” è di tipo “paesi emergenti”. Cinese o indiana, per dirla chiaramente. Dove sei assunto se servi e cacciato se rompi le palle, ti fai male, fai sindacalista o sei iscritto a qualche movimento politico che a me (padrone) non piace.
L’egualianza della Fornero e di Ichino e della Marcegaglia è dunque quella degli schiavi senza parola, dei “pezzi” sostituibili a piacere, delle macchine usa-e-getta.
No, grazie. Preferiamo quella degli uomini liberi, capaci di pensare, difendersi, associarsi, organizzarsi.
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Una piccola rassegna stampa sembra necessaria, per aver chiaro le parti in commedia e la strtuttura degli argomenti messi in campo.
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Ci risiamo. Con un accanimento degno di miglior causa, finalizzato solo a regolare i conti con il Novecento, riparte l’assalto a un diritto che, con un’operazione subdola quanto stantia, viene declassato a privilegio. Di che stiamo parlando? Del fatto che se un dipendente in un’azienda con più di 15 dipendenti è messo fuori e il giudice ritiene il licenziamento ingiusto, quel lavoratore dovrà essere riassunto nello stesso luogo a parità di trattamento. L’azienda condannata può comunque opporsi alla sentenza, ha a disposizione altri due gradi di giudizio. Sarebbe questa la causa di tutti mali, contro cui destre e Confindustria hanno sempre scagliato i loro strali? Sarebbe l’art. 18 a far perdere il sonno persino a tanta intellighentia democratica? Le armate del giuslavorista del Pd Pietro Ichino si sono infoltite con l’arrivo della Fornero, a cui la parola sacrifici strappa lacrime mentre la sua sensibilità non sembrerebbe colpita da chi è stato licenziato ingiustamente. Basta pagare il giusto, ma al padrone dev’essere garantita massima flessibilità. Del resto, anche al padrone dell’amianto Schmidheiny che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti nel mondo e di 1.800 solo a Casale, il consiglio comunale di questa città monferrina ha consentito di monetizzare i morti di oggi e di domani in cambio della rinuncia alla costituzione di parte civile. La logica è la stessa: fai quel che ti pare del futuro e della vita delle persone, purché tu sia disposto a pagare un obolo alla coscienza collettiva. Non è sufficiente la già prevista causa di crisi a consentire i licenziamenti. L’importante è evitare le rappresaglie politiche. E quando mai i padroni hanno licenziato un operaio accusandolo di essere comunista, o della Fiom, o magari gay? Ci sono molti modi più subdoli per liberare le linee o gli uffici da un «avversario».
L’ultimo imbroglio della ministra che promette «la riforma del ciclo di vita» (qui siamo oltre il miracolo) è il tentativo maldestro, anch’esso stantio, di contrapporre i privilegi dei «vecchi» alla condizione precaria dei giovani. C’era bisogno di cambiare governo per continuare a sentire queste banalità? La precarietà è ancor più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non entra: come la mettiamo? E non basta ancora la progressiva sterilizzazione dell’art. 18 operata dal governo Berlusconi?
Era il 24 marzo del 2001 quando tre milioni di italiane e italiani occuparono Roma in difesa dell’art. 18, il ministro dovrebbe ricordarselo. E dovrebbe ricordarsi che un altro ministro del lavoro, piemontese come lei, aveva varato lo Statuto. Si chiamava Donat Cattin, era democristiano. Sarebbe stato meglio morire democristiani?
Sulla prima pagina del suo sito il professor Pietro Ichino la riassume così: «Di fronte al governo che ha deciso di procedere si rimuovono le barricate». Dopo anni di studi per riformare il mercato del lavoro il senatore è ottimista, ma il Pd è spaccato in due emisferi contrapposti e una mediazione sembra impossibile. La linea del governo o quella della Cgil? Fornero o Camusso? La sfida si gioca sulla carne viva del Pd, tra i partiti di maggioranza quello storicamente più sensibile alle ragioni dei lavoratori.
Quando Bersani dice «ora facciamoci il Natale e lasciamo stare l’articolo i8» traduce in pubblico quel che, in privato, ha già detto al premier e al ministro del Welfare. E cioè che il Pd, che ancora deve «digerire» le pensioni, non è pronto per parlare di licenziamenti. E che se il governo vuole proseguire il viaggio deve rinunciare alla tentazione di rivoluzionare il mercato del lavoro. Il problema è che una parte per nulla minoritaria del partito spinge per rompere il tabù. Al Corriere la Fornero ha detto «non ci sono totem» e come il ministro, con gradi diversi di adesione alle tesi di Ichino, la pensano Veltroni, Letta, Gentiloni, Moran-do, Vermi, Follini, Renzi… Ma l’ala sinistra del partito e buona parte dei cattolici sono pronti a dar battaglia sulle orme della Camusso, per la quale l’articolo i8 è «una norma di civiltà» e il contratto unico «un nuovo apartheid». Il responsabile economico Stefano Fassina è categorico, la norma che limita i licenziamenti «non si tocca» e la priorità è riformare gli ammortizzatori sociali: «Il mercato del lavoro non rientra nelle emergenze. Perché intervenire ora su un punto sensibile, delicato e divisivo?». Prima di tutto per «superare il dualismo tragico tra chi ha tutte le tutele e chi non ne ha nessuna» sprona a far presto il senatore Enrico Morando, che sostiene con forza il modello Ichino. Ma il ber-saniano Matteo Orfini chiede al segretario di «porre il veto» e si prepara a dare battaglia: «Se un pezzo di Pd vuole mettere in discussione le scelte fon-dative di un partito nato a difesa dei più deboli, il zo gennaio presenti un ordine del giorno all’Assemblea nazionale e vediamo chi ha la maggioranza». A Monti mezzo Pd chiede insomma di «non fare scherzi» e di mostrare la stessa «responsabilità» che i democratici hanno avuto nel votare la fiducia. E l’altra metà spinge per mettere mano alla riforma. «Non possiamo essere i custodi della rigidità del mercato del lavoro —sprona Marco Follini —. C’è sempre un vincolo esterno, dobbiamo decidere se è la Bce o la Cgil». Per Rosy Bindi, come Cesare Damiano, il «vincolo» è indubbiamente la seconda. L’ex ministro del Lavoro reputa «assurdo» che facilitare i licenziamenti aiuti la crescita: «L’idea di Ichino, che il Pd debba sposare le scelte del goverDue visioni Enrico Letta, vicesegretario Pd, con Pier Luigi Bersani. Il primo ha apprezzato le posizioni della Fornero sul superamento dell’articolo 18, Per il leader democratico, invece, meglio lasciarlo stare: «Ora facciamoci il Natale» no, è subalterna e inaccettabile». Ma lo stesso senatore, teorico della flessibilità coniugata alla sicurezza del posto, sa che «il Pd è una polveriera» e sta bene attento a non provocare altre scintille. «La mediazione c’è — suggerisce Ichino — Damiano e Cofferati hanno aperto a Tito Boeri, che prevede l’applicazione dell’articolo i8 dal terzo anno di contratto a tempo indeterminato». Un progetto condiviso anche dal vicesegretario, Enrico Letta. Per conciliare due opposte visioni dell’economia e della società Franceschini, Treu e Baretta lavorano a una difficile mediazione. E Beppe Fioroni, che pure condivide la necessità di importanti modifiche, rivela il disagio dei cattolici: «La Fornero non può andare avanti con gli annunci, come Sacconi. Se è una vera riformatrice sappia che, su questi temi, prima si ascolta e poi si parla».
da Il Corriere della sera
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Consigliamo la lettura di questo articolo per mettere in risalto il contrasto assoluto tra il titolo e il contenuto (avviamo evidenziato le parti contraddittorie). al lettore cursorio, o nelle rassegne stampa, ci si fema infatti al titolo.
Buon precario Natale. Senza tredicesime da spendere e senza neanche uno stipendio degno di tale nome. I giovani hanno poco da festeggiare. I dati sull’occupazione nella fascia 15-24 anni mostrano che in Italia lavora solo il 20,5% (la media Ue è del 34,1%), mentre nella fascia 25-29 anni è impiegato il 58,8% (la media Ue è del 72,2%). Ancora più drammatici i numeri di chi mostra di non avere alcuna speranza e non è interessato né a lavorare né a studiare (1’11,2% dei giovani di 15-24 anni e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, mentre la media europea è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%). Questa la fotografia dell’ultimo rapporto del Censis sulla situazione sociale dell’Italia: un milione di giovani hanno perso il lavoro negli ultimi quattro anni e quasi uno su quattro non studia e non lavora. I «fortunati» con un impiego sono in nero o con contratti che il gergo giuslavorista definisce pudicamente «atipici», quando di atipico hanno solo le paghe da fame e la totale assenza di ammortizzatori sociali.
Il lavoro a termine è l’unico che registra segno positivo (1,4% nel 2010 e 5,5% nei primi sei mesi del 2011) e del lavoro autonomo (dopo 5 anni di contrazione, nel 2010 c’è una prima tiepida crescita: 0,2%). Aumenta anche l’occupazione straniera (quasi 580 mila lavoratori in più tra il 2007 e il 2010, 38,5%). Per contro i giovani italiani si mostrano un poco pigri considerato che solo il 23,4% risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro. In Italia si può sperare in un part time, cresciuto significativamente dell’8,7%, portando l’incidenza di questa formula dal 13,6% del 2007 al 15% del 2010. A crescere è stata soprattutto la quota di part time «involontario»: la maggioranza (il 49,3%) è costretta a lavorare part time perché non trova un lavoro full time, mentre solo per il 40,2% si tratta di una scelta volontaria.
«L’aumento della disoccupazione è principalmente a discapito dei giovani che avendo contratti precari sono i primi ad essere espulsi dal mondo del lavoro – spiega Ilaria Lani, dell’ufficio politiche giovanili della Cgil – i giovani si sono trovati a pagare buona parte delle conseguenze della crisi a causa della mancanza di indennità di disoccupazione e di altri ammortizzatori sociali, a parte la famiglia di origine».
In controtendenza il lavoro nero. A partire dal 2008, a fronte di un calo generalizzato dell’occupazione regolare (-4,1%), quella informale è aumentata dello 0,6%, portando il lavoro sommerso al 12,3% del totale nel 2010 (era 1’11,6% nel 2003). Tra il 2008 e il 2010 nell’industria (settore che ha registrato le maggiori perdite occupazionali) c’è stata una contrazione del 10,5% del lavoro regolare e una crescita di quello sommerso del 5,5%. Mentre nel commercio si è passati dal 17,9% al 18,7%. Secondo l’Istat a ottobre il tasso di disoccupazione è cresciuto ancora, arrivando a toccare un nuovo record 8,5%, il valore più alto da novembre 2010. E la quota di italiani senza lavoro under 25 risulta sempre tra le più alte in Europa.
Redazione. In conclusione: è vero che la perdita del lavoro colpisce per prima i precari (che possono vantare nelle proprie fila ormai degli “splendidi quarantenni”, non solo ragazzi alla prime esperienza). Ma è tutta l'”occupazione regolare” a calare paurosamente. Agli imprenditori il lavoratore piace nudo e crudo, senza inutili diritti o tutele legali; di sicuro senza sindacato. Possibilmente anche senza salario.
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