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La chiusura di Megavideo, opera dell’Fbi

Un bell’ingorgo di problemi giuridici transnazionali che gli Stati Uniti, con l’abituale attitudine imperiale, ha bypassato procedendo all’arresto per proprio conto.

Ci sarebbe da chiedersi che c’entra la sicurezza degli Stati Uniti con lo scambio gratuito di film o file musicali tra privati cittadini. Ma sarebe da ingenui: la sicurezza degli Usa è la certezza del profito delle sue multinazionali. Niente altro,

Ci sarebbe pure da eccepire che, in effetti, “dal punto di vista del consumatore” – sempre chiamato in causa quando bisogna reprimere uno sciopero o un diritto dei lavoratori, o quando si vuole privatizzare un servizio pubblico – è molto preferibile lo scambio gratuito usa-e-getta piuttosto che l’acquisto oneroso. Ma chissenefrega del consumatore, rispondono le major: se ha i soldi, paga e guarda il film, altrimenti ciccia!

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da Business online

Cosa significa la chiusura di Megavideo nel mondo della rete

E’ stata l’Fbi ha decretare la chiusura di Megavideo.com e Megaupload.com, dove gli utenti conservano file di dimensioni troppo grandi da mandare via mail e li condividono in via riservati, arrestando il fondatore, Kim Schmitz, più noto come Kim DotCom e altri tre manager della società.

L’accusa è di aver inflitto un danno di 500 milioni di dollari per mancati profitti ai detentori dei copyright e ora gli indagati rischiano 50 anni di carcere. L’arresto del fondatore è avvenuto in Nuova Zelanda, una delle due residenze di Kim Schmitz che ha doppia cittadinanza tedesca e finlandese. Le accuse per lui sono di pirateria e riciclaggio di denaro.

Ma subito si è scatenata la protesta in rete e a sostegno del sito sono intervenuti gli hacker legati ad Anonymous che hanno bloccato i siti del dipartimento di Giustizia statunitense e delle grandi major musicali e cinematografiche.

La chiusura di Megavideo è il primo atto di una battaglia in corso negli States sul web, dove il Congresso sta dibattendo sul Sopa, la legge contro la pirateria online e che nei giorni scorsi aveva già provocato la protesta di Wikipedia e altri siti americani, fra cui Google, Yahoo, Facebook e Twitter.

Nonostante la chiusura, Megavideo ha già tentato di tornare ‘all’attacco’ con un nuovo dominio Megavideo.bz. Il sito web all’indirizzo megavideo.bz è stato, però, segnalato come sito di phishing, siti che inducono gli utenti a rivelare informazioni personali e finanziarie, spacciandosi spesso per istituzioni affidabili, come delle banche, prosegue il messaggio.

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Anonymous rivendica gli attacchi dopo la chiusura di Megaupload.com

WASHINGTON – Gli hacker di Anonymous hanno rivendicato gli attacchi informatici a diversi siti americani, tra cui quelli del Dipartimento di Giustizia Usa e dell’Fbi, per rappresaglia alla chiusura del sito Megaupload.com, ordinata ieri dalle autorità americane per violazione del diritto di autore.
Su un blog, il collettivo di hacker ha scritto: «Noi di Anonymous abbiamo lanciando il nostro più grande attacco contro i siti governativi e dell’industria discografica». Oltre ai siti dell’Fbi e del Dipartimento della Giustizia sono stati attaccati anche quelli dell’Associazione dei discografici americani (RIAA) e della Universal Music. Gli hacker hanno affermato di aver preso di mira anche il sito della Casa Bianca e quello dell’autorità francese per la protezione delle opere d’arte su internet (Hadopi), precisando su uno dei loro account Twitter che oltre 5.600 persone hanno partecipato all’attacco.

«La giornata di ieri è stata epica», ha scritto Anonymous, già responsabile in passato di attacchi ai siti di Visa, MasterCard e della società di pagamento PayPal, in risposta alla decisione di bloccare i versamenti al sito WikiLeaks.

da Diariodelweb

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La proprietà è roba antica. È l’accesso che fa profitti

Alberto Piccinini
Megaupload era l’ultimo segreto di Pulcinella del web. Un sito nato alcuni anni fa per consentire l’archiviazione e lo scambio di file di grandi dimensioni attaverso la Rete, si era trasformato silenziosamente ma inesorabilmente in una specie di Paradiso del download: una quantità inimmaginabile di musica, cinema, telefilm, libri, persino giornali, disponibile al prezzo di pochi click a un qualsiasi utente in ogni parte del mondo, nemmeno troppo esperto.
Mettiamola così: uscire a comprare un disco, andare al cinema, attendere che la tv della propria nazione acquistasse, doppiasse e mandasse in onda una serie di telefilm americani, sono gesti che appartengono a un passato nemmeno troppo lontano ma che ormai appare irrecuperabile, se non come nostalgia un po’ snob. Si calcola che 50 milioni di utenti usassero ogni giorno Megaupload. A vederla dal loro punto di vista (e dal nostro), le conseguenze dell’esistenza di una simile cornucopia di suoni e immagini sulla cultura planetaria, l’estetica, la memoria, l’immaginario, sono ancora difficili da immaginare.
Con un’operazione senza precedenti l’altra sera l’Fbi ha chiuso Megaupload, coivolgendo le polizie di otto paesi, da Hong Kong al Canada. Le accuse a fondatori e gestori del sito ruotano attorno alla tragressione delle leggi sul diritto d’autore. Così, la guerra mondiale che da tempo oppone le grandi industrie della comunicazione (Hollywood, le case discografiche, insomma le major o quel che ne rimasto) e la Rete ha segnato un punto a favore delle prime. Seppure la coincidenza venga smentita dell’Fbi non si può dimenticare che il giorno prima la Rete aveva dato vita a un vero e proprio sciopero contro le leggi a difesa del copyright in discussione al Congresso americano.
E’ una guerra senza fine, dura e incarognita, che dura da almeno dieci-quindici anni. Ma ancora, se la prendiamo dal punto di vista dell’utente, la notizia «buona» è che esistono almeno un centinaio di Megaupload nella Rete, e che sono ancora in funzione. Anche stasera un ragazzetto di Reggio Calabria potrà scaricarsi il disco nuovissimo della band straindipendente di Portland. O una signora di Varese dopo una giornata di lavoro si vedrà l’ultima puntata del telefilm americano trasmessa solo ieri dalla tv di quel paese. Non stiamo parlando di hacker col piercing al naso, e gli occhi stravolti dalla notti passate davanti al pc. Parliamo di noi.
E’ davvero una buona notizia? Ci sono mille e una obiezioni al tentativo delle major della comunicazione di tenere in piedi il modello di business che – in buona sostanza – le ha fatte prosperare per tutto il secolo scorso. E cioè pretendere che gli oggetti culturali non possano circolare «liberamente», anche dopo averne pagato il prezzo. Un prezzo, quasi sempre, fuori da ogni logica di mercato. Ugualmente, c’è una specie di positivo fatalismo internettiano che ci ha abituato ad attendere con fiducia la prossima mossa della Rete in questa strana guerra, certi che sarebbe stata vincente. Dieci anni fa si scaricava da Napster. Poi, finito Napster sono arrivati i peer-to-peer come Limewire e Emule. Megaupload e i suoi fratelli venivano subito dopo che le leggi (come l’Hadopi francese) sconsigliavano di condividere troppi file contenuti nella memoria del proprio pc.
Il modello di business delle major è finito, non ha più senso. Affidare alle stesse major il compito di farci entrare nel futuro della comunicazione e della cultura non ha senso, se non altro per quel briciolo di punk, fai-da-te, di cybercomunismo che è rimasto conficcato nella cultura del Rete, pure quella rispettabile di oggi. A proposito, la figura dell’inventore di Megaupload, Kim Schmitz detto Dotcom, un ex hacker tedesco che appare nelle foto come specie di villain ciccione da cinema, col garage pieno di Rolls Royce, uno che si era comprato coi soldini di chi voleva migliori prestazioni dal sito la villa più bella e costosa di Auckland, non è altrettanto inquietante? D’accordo, la cultura fa paura, la cultura può e sa essere sovversiva, e nulla da dire sull’attacco di Anonymous ai siti dei responsabili del blitz dell’altra sera. Ma siamo davvero certi di affidare il futuro delle forme culturali planetarie a figure del genere?
Operazioni come dell’Fbi l’altra notte servono soltanto a incrudelire una guerra che le major hanno perduto da un pezzo. La questione vera è un’altra: vincerà la sfida tra vecchia comunicazione e Rete chi riuscirà a trovarne un nuovo modello di business. Che salvaguardi i diritti d’autore (come ha detto una volta Pete Townshend degli Who: «a quelli che scaricano i miei pezzi gratuitamente direi allora vieni a rubarmi in casa, fai prima!»), ma salvaguardi anche quelli degli utenti, non chiuda insomma la cornucopia della Rete perchè indietro non si può tornare. Esempi ce ne sono. L’I-tunes di Steve Jobs ha dimostrato che è possibile scaricare contenuti protetti da copyright a prezzi ragionevoli.Youtube e i cosiddetti sistemi di clouding come Spotify – che saranno se tutto va male il prossimo futuro in fatto di accesso ai contenuti – non richiedono neppure di memorizzare il file nel proprio computer (non si «ruba» niente, infine), siti di vendita diretta on line al pubblico come Bandcamp, sono l’ultimo grido in fatto di produzioni indipendenti.

da “il manifesto”

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