La guerra nelle parole della «nostra» Difesa
Manlio Dinucci
Il contributo delle Forze armate italiane alle «operazioni in Libia» – dapprima Odissey Dawn, in seguito Unified Protector a guida Nato – è stato di «assoluto rilievo»: lo dichiara il Ministero della difesa. Esso specifica che sette basi aeree – Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria – sono state messe a disposizione sia degli aerei italiani che di quelli alleati. Gli aerei italiani hanno compiuto 1.182 missioni, con funzioni di ricognizione, «difesa aerea» e rifornimento, effettuate da Tornado, F-16 Falcon, Eurofighter 2000, Amx, velivoli a pilotaggio remoto Predator B, G-222 e aerorifornitori KC-767 e KC130J. La Marina militare ha partecipato alle missioni aeree con velivoli AV-8B.
La Marina ha effettuato operazioni navali di embargo, pattugliamento e rifornimento, nonché missioni di sorveglianza in prossimità delle acque tunisine, in applicazione dell’intesa tra Italia e Tunisia sull’«emergenza immigrazione».
Hanno partecipato alle operazioni: la portaerei Garibaldi, il cacciatorpediniere Andrea Doria, la nave rifornitrice Etna, le navi anfibie San Giusto, San Giorgio e San Marco; le fregate Euro, Bersagliere e Libeccio; le corvette Minerva, Urania, Chimera, Driade e Fenice; i pattugliatori d’altura Comandante Borsini, Comandante Foscari e Comandante Bettica; i pattugliatori Spica, Vega, Orione e Sirio; i sommergibili Todaro e Gazzana, nonché un velivolo Atlantic con funzioni di pattugliamento.
La Difesa ha altresì contribuito alla «cooperazione umanitaria», in stretto coordinamento con il Ministero degli esteri, mettendo a disposizione aerei cargo C-130J che hanno effettuato il trasporto di materiale medico e l’evacuazione di «personale ferito», portato in Italia per essere curato.
Nel vocabolario del Ministero della difesa, la parola «guerra» non esiste. Essa viene camuffata sotto l’asettica definizione di «operazioni in Libia». Non esiste neppure la parola «bombardamento», camuffata come «missione di difesa aerea», nonostante che gli aerei italiani abbiano sganciato sulla Libia un migliaio di bombe e missili e l’aviazione Nato abbia effettuato oltre 10mila missioni di attacco, sganciando 40-50mila bombe e missili, grazie soprattutto al supporto tecnico e logistico italiano. E gli aerei cargo C-130J sono decollati da Pisa, dove si sta realizzando l’Hub aereo nazionale delle forze armate, solo per «cooperazione umanitaria», per trasportare materiale medico e «personale ferito», non per trasportare dalla linitrofa base Usa di Camp Darby le bombe che, come ha dichiarato lo stesso Pentagono, gli Usa hanno fornito agli alleati.
Né il Ministero della difesa fa sapere quante siano state in Libia le vittime civili dei bombardamenti italiani e Nato, ignorate dalla «cooperazione umanitaria».
Il contributo delle Forze armate italiane alle «operazioni in Libia» – dapprima Odissey Dawn, in seguito Unified Protector a guida Nato – è stato di «assoluto rilievo»: lo dichiara il Ministero della difesa. Esso specifica che sette basi aeree – Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria – sono state messe a disposizione sia degli aerei italiani che di quelli alleati. Gli aerei italiani hanno compiuto 1.182 missioni, con funzioni di ricognizione, «difesa aerea» e rifornimento, effettuate da Tornado, F-16 Falcon, Eurofighter 2000, Amx, velivoli a pilotaggio remoto Predator B, G-222 e aerorifornitori KC-767 e KC130J. La Marina militare ha partecipato alle missioni aeree con velivoli AV-8B.
La Marina ha effettuato operazioni navali di embargo, pattugliamento e rifornimento, nonché missioni di sorveglianza in prossimità delle acque tunisine, in applicazione dell’intesa tra Italia e Tunisia sull’«emergenza immigrazione».
Hanno partecipato alle operazioni: la portaerei Garibaldi, il cacciatorpediniere Andrea Doria, la nave rifornitrice Etna, le navi anfibie San Giusto, San Giorgio e San Marco; le fregate Euro, Bersagliere e Libeccio; le corvette Minerva, Urania, Chimera, Driade e Fenice; i pattugliatori d’altura Comandante Borsini, Comandante Foscari e Comandante Bettica; i pattugliatori Spica, Vega, Orione e Sirio; i sommergibili Todaro e Gazzana, nonché un velivolo Atlantic con funzioni di pattugliamento.
La Difesa ha altresì contribuito alla «cooperazione umanitaria», in stretto coordinamento con il Ministero degli esteri, mettendo a disposizione aerei cargo C-130J che hanno effettuato il trasporto di materiale medico e l’evacuazione di «personale ferito», portato in Italia per essere curato.
Nel vocabolario del Ministero della difesa, la parola «guerra» non esiste. Essa viene camuffata sotto l’asettica definizione di «operazioni in Libia». Non esiste neppure la parola «bombardamento», camuffata come «missione di difesa aerea», nonostante che gli aerei italiani abbiano sganciato sulla Libia un migliaio di bombe e missili e l’aviazione Nato abbia effettuato oltre 10mila missioni di attacco, sganciando 40-50mila bombe e missili, grazie soprattutto al supporto tecnico e logistico italiano. E gli aerei cargo C-130J sono decollati da Pisa, dove si sta realizzando l’Hub aereo nazionale delle forze armate, solo per «cooperazione umanitaria», per trasportare materiale medico e «personale ferito», non per trasportare dalla linitrofa base Usa di Camp Darby le bombe che, come ha dichiarato lo stesso Pentagono, gli Usa hanno fornito agli alleati.
Né il Ministero della difesa fa sapere quante siano state in Libia le vittime civili dei bombardamenti italiani e Nato, ignorate dalla «cooperazione umanitaria».
da “il manifesto”
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