Pubblichiamo di seguito un paio di articoli che riassumono la cronaca di ieri, ma proviamo soprattutto a fare sull’esercizio della giustizia un ragionamento laico. Magari anche un po’ comunista.
E’ naturale, per i comunisti, vedere nei giudici borghesi un potere delegato da quello politico-economico; un sanzionatore finale, peraltro molto ben remunerato, della realtà dei rapporti di forza tra le classi. Lo sono, senza ombra di dubbio, come funzione istituzionale.
Le sfumature diventano importanti, però, quando dobbiamo esaminare la questione entro lo scenario reale che viviamo: un sistema giuridico liberale, uno stato di diritto, ecc. In questo scenario, è ammissibile che un magistrato venga sanzionato su richiesta dell’ex imputato e quindi obbligato eventualmente a “pagare” risarcimenti monetari proporzionali al danno procurato?
La risposta immediata è sì. Come tutte le risposte im-mediate ci sembra decisamente sbagliata.
Intanto perché non coglie le dimensioni del problema. L’atto del “giudicare” – anche a prescindere dal sistema giuridico entro cui avviene – è per natura passibile di errore. Ha dunque ragione chi dice che qualsiasi giudice, di fronte al pur minimo dubbio, sarebbbe indotto a sospendere la decisione per paura della ritorsione. Messa così – entro qualsiasi sistema giuridico, ripetiamo – la funzione giudicante si riduce ai casi di “flagranza di reato”. Es. un rapinatore che rimane bloccato dentro la gioielleria.
Nel sistema capitalistico normale, oltretutto, il “peso economico” dell’imputato diventa in questo caso decisivo, molto più di quanto già non sia. I reati commessi da ricchi e potenti, infatti, sono quasi sempre reati “da mandante”, quasi mai da esecutore. I testimoni d’accusa possono facilmente essere corrotti, comprati, spaventati. Anche i giudici subiscono già oggi questa “tentazione” (chi vuole un elenco completo si rivolga a Travaglio…). Ma la “responsabilità economica” indurrebbe quasi tutti i magistrati a evitare di mettere sotto accusa un potente. Tranne forse qualche kamikaze, che finirebbe presto per esser schiantato.
Aggiungiamoci il fatto che i potenti hanno di solito gli avvocati migliori, che i risarcimenti che possono chiedere – essendo proporzionali al danno reddituale o esistenziale subito – sarebbero plurimilionari, ecc, è facile constatare che il mestiere del “giudicante” sarebbe privo di candidati e perfino di “apprendisti.
Questo significa – come mistificano i berlusconiani fuori tempo massimo – che allora un magistrato deve restare impunito qualsiasi cosa faccia?
Naturalmente no. Ma la sanzione dovrebbe arrivare dall’istituzione di appartenenza, e dovrebbe essere proporzionale alla gravità dell’errore commesso. E’ insomma un problema che richiede una soluzione “regolamentare” (non legislativa). Un giudice che sbaglia per incompetenza va rimandato a scuola, per così dire. Uno che sbaglia per corruzione deve essere espulso e giudicato secondo la legge ordinaria, come qualunque altro cittadino. Uno che sbaglia per dolo o “pregiudizio” nei confronti dell’imputato, idem. Uno che sbaglia perché in effetti il caso era difficile, continuerà a fare il suo mestiere. Se l’errore è insito nella funzione, la sanzione non può insomma essere “economica” (più pericolosa, dunque, a seconda della posizione sociale dell’imputato), ma la “carriera” – in certi casi – dovrebbe subire stop importanti, con relativo danno “stipendiale”.
Questo se vogliamo porci seriamente il problema di come inquadrare la funzione giudicante, sia nel sistema giuridico liberale che in un sistema non più capitalistico. Strepitare di un “comunismo” in cui “nessuno giudicherà più nessuno” è solo uno spostamento d’aria.
Responsabilità diretta per le toghe
di Donatella Stasio
ROMA – «Chi sbaglia, paga»: lo slogan brandito contro i magistrati dall’ex guardasigilli Angelino Alfano non più di otto mesi fa ha trovato alla Camera un’ampia maggioranza. Ieri, complice il voto segreto, è stato infatti approvato l’emendamento del leghista Gianluca Pini sulla responsabilità ‘diretta’ delle toghe, senza più il filtro dello Stato, anche nei casi di «violazione manifesta del diritto».Quel che non era passato sotto il governo Berlusconi si è dunque materializzato con il governo Monti. Che ha incassato la sua prima, clamorosa sconfitta, non a caso sulla giustizia. Nonostante il parere negativo dell’Esecutivo, la norma che modifica la legge 117 dell’88 è stata approvata con 264 sì mentre i no sono stati soltanto 211. In teoria dovevano essere 412, quelli della maggioranza più quelli dell’Idv. Invece si sono fermati poco oltre la metà. Ai voti favorevoli di Lega, Pdl, Radicali e Popolo e territorio se ne sono aggiunti 157 di cui resta sconosciuta la paternità. Fabrizio Cicchitto (Pdl) parla di «maggioranza trasversale», nega che il voto del suo gruppo sia «contro il governo» ma, piuttosto, «contro la prepotenza di chi ritiene di essere una sorta di dominus nella vita politica italiana» (leggi: i magistrati). «È una cazzata parlare di fronte trasversale» ribatte il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, escludendo che nel suo gruppo ci siano stati franchi tiratori e puntando l’indice contro il Pdl che, così facendo, «destabilizza il percorso per salvare l’Italia». E a Monti chiede di battere un colpo: «Noi non assisteremo al riemergere delle vecchie maggioranze sulla Rai e sui giudici. Il governo faccia il punto con le forze che lo sostengono». Minimizza il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, convinto che la vicenda «non porterà problemi alla maggioranza». Dalle prime parole del ministro della Giustizia, Paola Severino, sembra di capire che al Senato si lavorerà «per qualche miglioramento» e non per espungere la norma dal testo della legge comunitaria e inserirla in una disciplina organica sulla responsabilità civile dei giudici, sebbene questo avesse dichiarato in aula il ministro Enzo Moavero Milanesi.
La Lega canta vittoria. Otto mesi fa, dopo un lungo tira e molla, era stata costretta a rinunciare all’emendamento, scomparso dalla legge comunitaria 2010. Lo scontro, con l’opposizione e la magistratura, era stato durissimo e nonostante Berlusconi ne avesse fatto una norma manifesto, furono proprio alcuni dei suoi a frenare la Lega e a suggerire quanto meno un testo diverso. Quello approvato ieri attenua uno dei punti critici dell’emendamento originario e cioè l’obbligo di risarcire il danno anche in caso di «manifesta violazione di diritto». La norma spiega infatti che cosa si debba intendere con questa espressione, ma fa comunque scattare la responsabilità indipendentemente dal dolo o dalla colpa grave. Il punto più dirompente della riforma è però la responsabilità diretta: il cittadino (e persino l’Ue) potrà chiedere direttamente al magistrato il risarcimento dei danni (patrimoniali e non) e non più in prima battuta allo Stato (che poi si rivale sul magistrato).
Al di là del merito della norma e delle ragioni che l’hanno ispirata, il voto di ieri apre senz’altro un caso politico delicato per il governo ed è una spia delle mai sopite tensioni sulla giustizia. Che resta terreno scivoloso. Il leader dell’Udc Pierferdinando Casini riconosce l’esistenza di franchi tiratori e ammette che sul tema ci sia «una sensibilità del Parlamento». «La norma Pini è una cosa giusta, messa nel posto sbagliato», aggiunge. Ma nel Terzo Polo Italo Bocchino (Fli) parla di «vendetta della casta contro la magistratura». Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro prevede «una nuova Mani pulite del popolo che alzerà i forconi». Rosy Bindi incalza il governo a dare «un segnale forte» altrimenti, avverte, il Pd non voterà la legge comunitaria.
Sul fronte opposto, Pini definisce una «norma di civiltà» il suo emendamento e rimanda al mittente (l’Anm) l’accusa di «intimidazione». Per il vicepresidente del Pdl Maurizio Lupi l’Anm è «la vera casta» e i colleghi di partito Alfredo Mantovano e Guido Crosetto chiedono al Capo dello Stato, quale presidente del Csm, di «tutelare la dignità del Parlamento dagli attacchi delle toghe». Insomma, forse il clima non è affatto cambiato.
da Il Sole 24 Ore
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