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La pensione è bella se dura poco

In pratica: il sistema pensionistico pubblico è “sostenibile” se non deve erogare troppe pensioni e per troppo tempo (grazie all’innalzamento dell’età pensionabile, si può sperare che una quota rilevante di lavoratori muoia prima di arrivare al giorno del meritato ritiro). Idem per quello privato (integrativo con i fondi pensione), che possono continuare a giocare in borsa i nostri “contributi previdenziale” con la ragionevole speranza di darcene indietro una quota ridicola.

I documenti originali de il Libro Bianco della Commissione.

docMEMO-12-108_EN1-1 Domande e risposte.doc291.5 KB

pdfLibro bianco WP_Pensions_EN1.pdf389.79 KB

Sintesi per i cittadini CS_WP-Pensions_IT1-1.pdf

Libr Bianco WP-Pensions_FRANCESE1.pdf

La pensione è bella se dura poco

Francesco Piccioni
Non finirà mai, finché esisteranno. Se avevato creduto che la distruzione del sistema pensionistico fosse arrivata a conclusione, vi eravate lasciati ingannare.
L’altroieri sera, in gran silenzio, la Commissione Europea ha presentato il suo Libro Bianco sulle pensioni nel Vecchio Continente. Con molte accortezze. La «sintesi per i cittadini» e il «comunicato stampa» contengono formulazioni abbastanza generiche e tranquillizzanti («cosa i governi nazionali possono fare per garantire pensioni adeguate a costi ragionevoli e sostenibili»). Ma già nello schema «domande e risposte» si comincia ad entrare in un mondo più hard, dove linguaggio e realtà fanno seriamente a pugni.
Il problema è impostato nei termini astratti ampiamente noti: in Europa «oggi ci sono circa 4 persone in età lavorativa per ogni persona in pensione; tra 50 anni il rapporto sarà di 2 a1». Se è serio disegnare scenari per impostare meccanismi strutturali, pensare di poterlo fare una volta per tutte – come se in questo mezzo secolo non potesse o dovesse accadere nulla di rilevante sul piano sistemico, è una presa in giro. Per esempio, la vita media dovrebbe salire di «sette anni»; e immaginiamo l’incubo di dover sovvenzionare tanti vecchietti «semi-immortali». Ma l’importante era appunto «impostare», prefigurando le soluzioni più gradite al non immenso arco di forze potenti che agisce livello Ue.
E quindi: bisogna «incoraggiare tutti a continuare a lavorare più a lungo e a risparmiare di più per la pensione». Ovvero aumentare l’età pensionabile e l’importo dei contributi previdenziali a carico di ogni lavoratore; ma anche gli accontonamenti per i fondi integrativi. La Ue sa bene che le imprese non voglio «anziani» (over 45 anni, ormai) in azienda. E quindi bisogna «sollecitare le parti sociali ad adattare il posto di lavoro e le prassi sul mercato»; il Fondo sociale europeo, dunque, andrà riconvertito per «incentivare le aziende» a prendersi o tenersi qualche vecchietto in più.
La parte del leone la dovranno fare però i «sistemi pensionistici privati complementari», cui gli stati membri sono chiamati a fornire agevolazioni fiscali. Sistemi la cui sicurezza è riconosciuta assai bassa (dipendono dalle oscillazioni di borsa, non proprio il massimo della certezza) e che va «potenziata». Si prende poi atto che la libera circolazione delle persone, anche per motivi di lavoro, richiede una normativa che integri le differenze tra i diversi sistemi nazionali.
I problemi pratici e istituzionali non sono pochi. «La Ue non ha il potere di legiferare per disegnare i sistemi dei vari stati membri», viene riconosciuto; ma «può farlo sui comportamenti che influiscono sul mercato interno». Ovvero promuovendo «misure soft» dal punto di vista legale, come i «manuali di buona pratica». Standard cui ogni stato, singolarmente, deve poi adeguarsi. Oltre al Fse per promuovere l’«occupabilità» degli anziani, infatti, tutto il «coordinamento delle politiche» comunitarie, nel contesto del «Semestre europeo», può portare a «raccomandazioni specifiche per i vari paesi». Bastone (sanzioni) e carota (fondi comunitari) per «piegare» i sistemi pensionistici nazionali.
Gli assi «strutturali» sono in definitiva chiarissimi.
I sistemi pensionistici pubblici, in prospettiva, dovranno erogare assegni molto più bassi, per una platea di persone più vasta e per un periodo di tempo notevolmente minore. L’ideale resta quello di Bismarck – il primo a introdurre le pensioni pubbliche, nel 1889! – che fissò l’età del ritiro dal lavoro a un livello che l’Istituto di statistica considerava la durata della «vita media»: 65 anni, ai tempi. Tutto l’argomentare retorico che «consiglia» di implementare la «correlazione tra età della pensione con la speranza di vita» è una funzione diretta del progetto europeo e centralizzato di far coincidere il più possibile le due età.
Il secondo pilastro – le pensioni integrative private – è anche un modo di portare i «risparmi» dei lavoratori di un intero continente nella disponibilità immediata, anno dopo anno, dei mercati finanziari. I fondi di investimento (compresi quelli pensionistici, tra i player più importanti su ogni piazza) sono infatti una «macchina speculativa» come tutte le altre, non certo una «cassaforte» dove tener i risparmi al sicuro. Solo al momento dall’uscita dal lavoro – il più tardi possibile, raccomanda la Ue – e a seconda della fase borsistica che si va atrtraversando in quel momento, sapranno se avranno avuto fortuna o meno. Il bello è che questa situazione kafkiana viene decritta nel testo così: «garantire che le persone, una volta pensionate, ricevano quello che si aspettavano». Geniale, come trovata di marketing. Uno sfottò, come previdenza sociale.

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