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“Hic sunt leones”

Un manifestante disarmato, a volto scoperto, declina il proprio nome e cognome ed affronta a parole un uomo armato di casco, scudo, manganello, pistola, travisato dall’equipaggiamento. Il primo parla, magari sfotte dandogli della “pecorella”, ma chiede all’altro se valga la pena di fare quello che è chiamato a fare. Il secondo tace. Lo fa per ottemperare agli ordini ma forse – e nessuno se l’è chiesto – è combattuto tra il replicare o l’interrogarsi se quanto gli dice l’altro abbia un fondo di verità.

C’è anche un altro video in circolazione, forse lo vedremo nella trasmissione di Santoro. Un giovane manifestante No Tav parla ai poliziotti nei minuti successivi alla caduta di Luca Abbà dal traliccio sul quale si era arrampicato ed era stato inseguito da un agente di polizia. Il suo tono è caratterizzato dalla disperazione e dalla incredulità su quanto è accaduto poco prima. Cerca di interloquire con i poliziotti, di creare un minimo di empatia, di farli sentire parte del problema e delle contraddizioni che vive il paese. Anche in questo caso la risposta è il silenzio. Lo stesso silenzio che sta nelle regole di ingaggio dei contingenti militari che vengono spediti in giro per il mondo ad occupare territori con residenti ritenuti “potenzialmente ostili”. “Hic sunt leones” dicevano gli antichi romani per indicare quel che era oltre i confini delle province più remote dell’impero.

Due casi di incontri ravvicinati tra chi si oppone alla Tav, un’opera costosissima, inutile, devastante, che tutti i poteri forti (mafia, ndrangheta e camorra inclusi) vogliono imporre con tutti i mezzi ad una popolazione che ne ha documentato ampiamente tutti gli aspetti negativi, e chi – uomini in divisa – è stato chiamato a imporre con la forza della “legalità” e delle armi una abnorme forzatura della giustizia.

Ma sul primo incontro il sistema dei media mainstream ha cominciato a giocare sporco. Il confronto faccia a faccia tra l’operaio No Tav e il liceale il divisa (dato di fatto che manda letteralmente a ramengo qualsiasi richiamo al commento di Pasolini sugli scontri di Valle Giulia) viene utilizzato per nascondere l’altra immagine, quella di Luca Abbà che stramazza al suolo e quella del manifestante No Tav che cerca di convincere i poliziotti a non sentirsi “l’altra parte della barricata”. I giornalisti e le redazioni si prestano all’operazione politico-mediatico-militare dei poteri forti in Val di Susa. In alcuni casi si beccano gli insulti (perfettamente condivisibili quelli di Alberto Perino ai colleghi della Zanzara su Radio 24), in altri casi qualche spintone. Qui e là vengono prese di mira le redazioni dei giornali con i titoli e gli editoriali più indigeribili anche per il buonsenso. Deprecabile? In parte. Inevitabile? In parte. La documentazione della realtà e la certificazione della verità sono la “mission” di chi vuole fare questo mestiere con dignità. La sua manipolazione e i commenti conseguenti sono tutt’altra cosa.

Alcuni giornalisti stanno contribuendo insieme a banchieri, ministri, costruttori, cosche mafiose, a costruire in Italia un paese alla rovescia. Un paese in cui sta diventando ormai più facile diventare “eroi” che bere a una fontanella. Basta stare dalla parte dei forti con i deboli. Una retorica che nasconde tanta robaccia.

Infine, ma non per importanza. C’è il maggior partito di governo e di opposizione a se stesso – il Pd – che sta ancora una volta cercando di superare in zelanteria filo Tav e filo-governo, la “fascisteria” ripulita che ha governato questo paese con Berlusconi. A Genova nella cabina di regia della macelleria messicana c’erano gli ex fascisti di An e gli uomini neri della Nato. Nella cabina di regia della repressione dei No Tav rischiamo di trovarci quelli che intendono rappresentare l’opzione progressista nel futuro del paese. Un paese alla rovescia, appunto.

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1 Commento


  • Alessia

    La costruzione della narrazione del manifestante cattivo che insulta il povero poliziotto inerme è un’ennesima prova dell’eccellenza della stampa nazionale nella mistificazione ideologica. Narrativa popolare, che sa come indirizzare le opinioni del lettore puntando alla sua emotività e sensibilità, proprio un’opera d’arte. Mistificando le immagini stesse di cui si serve. Così il manifestante a volto scoperto (e non la barba, come dice repubblica, ma un volto scoperto, e non in una posizione di superiorità come dice il corriere, ma di estrema vulnerabilità) che “sfotte”, provoca, cerca di aprire gli occhi, diventa il cattivo che insulta il povero carabiniere, armato, protetto da scudi e armamentari vari, col volto coperto, protetto fisicamente e legalmente. Le immagini di oggi, di quello stesso manifestante a terra picchiato e trascinato malamente da altre(o lo stesso chi lo sa)irriconoscibili armature, non cambia la morale della favola. Anzi quasi s’insinua l’idea che lo stronzetto ha avuto quello che si meritava. E sì, è stato punito per la sua irriverenzaa, ma l’immagine che resta di lui è quella del cattivo che non rispetta il lavoro altrui, anche se quest’ultimo è quello di picchiare. Quel manifestante e con lui tutto il movimento è stato additato come violento e crudele, criminalizzato, per quella la provocazione verbale. Ma la violenza delle forze dell’ordine che l’ha scatenata e con cui è stata ripagata nemmeno per un attimo è apparsa sproporzionata. La grande narrativa popolare crea l’ideologia e la giustifica, ancora una volta.

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