Solo un uomo che si firma “Utopia” può aver pensato che la Brianza, almeno un tempo, fosse circondata dal mare. A vederlo nelle tante immagini che ci ha lasciato in ricordo, muscoloso, il volto arrostito dal sole e in bocca una pipa da marinaio consumato, bisogna riconoscere che Vittorio Arrigoni qualche dubbio lo instilla perfino nel più scettico dei materialisti. «Un giorno mi chiese: mamma, ‘ma noi abbiamo un antenato marinaio’? Era accaduto che i pescatori di Gaza gli avevano messo in mano il timone della barca e lui aveva scoperto di saperla guidare».Quel giovane non nuovo a esperienze di attivismo in giro per il mondo si era riscoperto lupo di mare e oggi la mamma Egidia, alla vigilia del primo anniversario dell’uccisione per mano di alcuni figli degeneri di quella terra che era diventata sua quasi più di quella natale, ricorda come, la prima volta che doveva partire per la Palestina, si era premurato di fargli acquistare farmaci contro il mal di mare perché non lo conosceva e anzi lo temeva.
Attorno a Bulciago è un alternarsi di campagna, villette, capannoni, piccole fabbriche dell’operosa Brianza, non ci sono barche né pescatori ma solo traffico di auto e tir nelle ore di punta. La signora Egidia Beretta è al lavoro nel suo ufficio al Municipio. È sindaco del piccolo comune (poco meno di tremila abitanti) dal 2004 e conserva ancora nel suo cellulare il messaggio che Vittorio gli inviò da Gaza la sera della sua rielezione, l’8 giugno del 2009: «Cara madre, sono molto orgoglioso di te, non solo in questa lieta giornata. Portiamo avanti gli stessi valori umani e le istanze degli ultimi, sebbene in longitudini differenti». Non è stato un anno facile, quello appena trascorso, per la famiglia Arrigoni. L’assassinio di Vittorio, strangolato con una corda all’1,50 della notte del 15 aprile del 2011, dopo un sequestro lampo e un drammatico video in cui l’attivista italiano veniva mostrato già piuttosto malconcio; la successiva morte del marito Ettore, nel dicembre scorso dopo una brutta malattia; lo stillicidio di un processo che procede a rilento senza la speranza di una parola definitiva sui reali motivi del sequestro e dell’uccisione. «Una pena che si rinnova a ogni udienza, ci auguriamo che si chiuda al più presto», dice Egidia, rimasta a proseguire la missione di Vittorio insieme alla figlia Alessandra.
Il processo
Invece non è così. Oggi si discute dell’ultimo colpo di scena: tre dei quattro imputati ritrattano quanto avevano affermato davanti alla polizia di Hamas che li aveva catturati. Non eravamo a conoscenza di un piano per uccidere l’attivista italiano, lo abbiamo fatto solo per dare una lezione a un occidentale dai costumi troppo “liberali”, sostengono. Ma è difficile immaginare che una pipa, qualche tatuaggio esibito e un piercing al sopracciglio sinistro possano aver prodotto tutto questo. Non ci crede nemmeno la signora Egidia: «Vittorio era rispettoso delle tradizioni, non credo possa aver fatto alcunché». Evidente il tentativo di scaricare la responsabilità sui due “capi” del gruppo, il giordano Abdel Rahman Breizat e Bilal Omari, uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, al fine di ottenere una riduzione della pena. Una strategia processuale difensiva che non risponde alla domanda principale: perché Vittorio Arrigoni è stato ucciso? Che relazione esiste tra le primavere arabe appena esplose in Egitto e Tunisia, con tutto il loro portato libertario e laico, e l’utopia di una primavera di Gaza verso la quale l’attivista italiano strizzava l’occhio?
La famiglia Arrigoni non vuole che agli imputati venga applicata la pena di morte. «I genitori dei quattro ragazzi ci hanno scritto chiedendoci di dire no alla condanna capitale per i loro figli. È una prassi di cui i tribunali palestinesi di solito tengono conto. Noi abbiamo accettato chiedendo in cambio che ci facessero sapere la verità su quanto accaduto. Ma dubito che lo faranno. Questi smentiscono perfino che l’obiettivo fosse la liberazione di quello sceicco salafita», Al Maqdisi, arrestato qualche mese prima da Hamas e di cui nel video girato dopo il rapimento chiedevano lo scambio con Arrigoni.
Il governo assente
Il giorno dell’anniversario sarebbe quello ideale per chiedere conto al governo. Cos’ha fatto in quest’anno lo Stato italiano, dopo essere stato assente al rientro della salma all’aeroporto di Fiumicino e ai funerali nel piccolo comune brianzolo, dove invece affluirono migliaia di giovani da tutta l’Italia e i compagni dell’International solidarity movement, e don Luigi Ciotti strinse la signora Egidia in un lungo abbraccio? La famiglia e gli amici non si sottraggono ma non ne fanno una questione centrale, quasi che non si aspettassero di più: «Non è un tarlo che ci rode, ne parliamo solo se ce lo fanno rilevare». Ciononostante qualche mossa l’hanno fatta, d’altronde Egidia Beretta è sindaco per una lista civica di centrosinistra, una donna delle istituzioni. Ad agosto hanno scritto, attraverso l’avvocato Gilberto Pagani, al ministro degli Esteri Franco Frattini, chiedendogli di interessarsi al caso, senza però ottenere nessuna risposta. Quando è cambiato il governo ci hanno riprovato, e questa volta si sono visti recapitare una lettera della ministra Paola Severino che, apprezzando la richiesta di non applicare la pena di morte agli aguzzini, promette un interessamento. È notizia di oggi che sarebbe in arrivo anche una missiva del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, anche se la linea rimarrebbe quella miope, ideologica e tardo-bushista del non si tratta con Hamas. Il problema è che, lungi dal negoziare con i terroristi, il consolato di Gerusalemme, e quindi il governo italiano, non ha mai inviato nemmeno un rappresentante a presenziare alle udienze processuali. «Avessero almeno avuto un po’ di considerazione per un povero cristo ammazzato», dice con tristezza Egidia. Quasi si trattasse di un morto di serie B, un italiano di serie B, una grana da archiviare sotto silenzio.
Vik e il manifesto
«Hermanos, a 200 metri da qui c’è un nuovo cratere lunare mica male, speriamo siano finiti i botti, a sud ci sono già dei feriti. Butto giù qualcosa sui bombardamenti di questa notte e le ultime vittime di questa settimana, se interessa posso inviarvela per il manifesto prima di domani a mezzogiorno. Fatemi sapere, Vik». Alla disperata ricerca di qualche traccia di corrispondenza sopravvissuta ai periodici reset del computer e a virus letali, spunta questo messaggio datato 17 settembre 2010.
La memoria digitale non fornisce la risposta alla domanda di Vik, ma spulciando negli archivi di quei giorni balza agli occhi un reportage di particolare intensità. Racconta di una pescatrice sedicenne che osa sfidare l’assedio israeliano. L’incipit è hemingwaiano: «Ha occhi profondi come fondali inesplorati e una spinta subacquea da far supporre abbia piedi palmati; come una creatura marina sparisce sotto la superficie dell’acqua e sembra far svanire anche l’ingombro del velo e dei vestiti pesanti, che la tradizione esige non si debbano levare neanche per nuotare. È Madeleine Kulab, 16 anni, la prima e unica ragazza-pescatrice che Gaza ricordi. Il padre Mohamed, rimasto invalido per una paralisi una decina di anni fa, ha dovuto appendere le reti al chiodo e ora la figlia ha preso il suo posto in mare».
Vittorio Arrigoni ha regalato molte sue perle al manifesto, il manifesto ha contraccambiato come poteva, portandole in prima pagina e trasformando in un libro, intitolato Restiamo umani, il suo diario sotto le bombe dell’operazione “Piombo fuso”, tra la fine di dicembre del 2008 e la prima metà di gennaio del 2009. «Era il suo giornale, diceva sempre che il giorno in cui era sbarcato a Gaza, il 23 agosto del 2008 con il Free Gaza Movement, aveva trovato ad accoglierli al molo un solo giornalista». Era il nostro Michele Giorgio.
Da allora i contatti erano stati sempre più intensi: lui, Vittorio, pur scrivendo spesso in situazioni precarie (da computer di fortuna mentre fuori esplodevano le bombe, da un’ambulanza in corsa), era sempre più che attento alla forma. La sostanza gli era chiara, il modo di comunicarla fondamentale, che scrivesse per il giornale o per il suo blog Guerrillaradio, girasse un video o si concedesse a un’intervista. Essenziale, a volte poetico, spesso diretto, un cronista sui generis con il mito di un altro giornalista particolare: Tiziano Terzani. «Dei quattro libri che mi sono portato appresso in Palestina, al suo ultimo, per me il migliore, ho consentito il posto d’onore, sebbene voluminoso, sempre con me infilato nello zaino durante le nostre azioni pacifiste. Come totem, come testo sacro, come parola di conforto e di vicinanza nell’alienazione generale che la disperazione di muoversi in paesaggi di guerra ti attacca addosso», scrisse il giorno dopo la sua morte.
Racconta ancora Egidia Beretta: «Il suo obiettivo era far conoscere quello che accadeva laggiù, anche quando veniva a delle iniziative in Italia chiedeva sempre di farvi partecipare persone scettiche. Se riesco a insinuare qualche dubbio in almeno uno di loro, diceva, per me è un successo. Non si capacitava del silenzio che c’era qui da noi su quello che accade in Palestina. Molti sostenevano che fosse anti-israeliano, invece si opponeva solo alle politiche di Israele, aveva tanti amici israeliani che la pensavano come lui». Una passione che lo porterà a polemizzare con Roberto Saviano, dopo la partecipazione di quest’ultimo a una manifestazione in sostegno di Israele, e a essere indicato da un sito americano come bersaglio numero uno, con tanto di foto e segni particolari per identificarlo e ucciderlo.
Poi, un giorno, sempre in quel turbolento autunno-inverno del 2010 e alla vigilia delle bombe su Gaza, arriva in redazione un video. È ancora Vik che parla, barbuto come un rivoluzionario cubano del ’59, cappellino verde-castrista con stella rossa al centro: «Allo stato attuale il quadro clinico è di estrema gravità. Il malato quasi terminale, sebbene per rianimarlo basterebbero delle semplici trasfusioni…». Parla del manifesto, è il più grande regalo che potesse fare alla nostra campagna per rimanere in vita, lui che dal giornale non aveva mai visto un euro. Farà lo stesso anche con Emergency. «Se devo scegliere tra la forza di occupazione che in Afghanistan miete ogni giorno vittime civili, molte delle quali bambini, e gli eroici dottori che mettono a repentaglio le loro vite per salvarne altre, non posso che scegliere di stare con questi ultimi. È un po’ come scegliere di tifare fra un carro armato e un’ambulanza».
L’alternativa di Bulciago
Ma da dove era spuntata questa grande passione civile e politica? Come si può arrivare da Bulciago a Gaza in barca se la Brianza non è bagnata dal mare? Vittorio nel suo paese di origine aveva conservato rapporti con i suoi compagni di scuola, quelli che si firmano «Gli amici di Vik» e oggi gli dedicheranno delle pubbliche letture. Aveva lavorato per un periodo nell’azienda del padre, tra una partenza e l’altra per l’Europa dell’est, il Perù, l’Africa, sempre per costruire un alloggio per profughi di guerra, ristrutturare un sanatorio, lavorare per gli ultimi, gli oppressi, i bisognosi.
Un attivismo di base che forse affonda le radici in una tradizione volontaristica molto diffusa in Brianza e di sicuro nella cultura, nata negli anni ’90, di quel grande ed eterogeneo movimento definito “altermondialista”, che non si proponeva di conquistare alcun potere ma di trasformare la società e i rapporti di forza dal basso e attraverso una pratica che imponeva di mettersi in gioco direttamente e senza mediazioni. «Non so questa spinta così forte da dove gli sia venuta. Di sicuro noi ci siamo sempre proiettati molto all’esterno. Già negli anni ’80, quando mio marito costituì una cooperativa edilizia perché a Bulciago non c’erano case a basso prezzo per i lavoratori, le riunioni si facevano qui da noi. Abbiamo sempre avuto una forte predisposizione verso gli altri, e credo che questo abbia influito», dice Egidia Beretta, «alla fine degli anni ’70 costituimmo anche un gruppo politico, si chiamava Alternativa popolare, e uno dei punti principali del programma era quello delle case popolari, facevamo un giornalino e le riunioni a casa nostra».
Un simbolo
Da quel terribile 15 aprile di un anno fa, nonostante la cappa di silenzio scesa sulla vicenda, Vittorio Arrigoni è diventato un simbolo per migliaia di attivisti e volontari. A suo nome sono stati intitolati centri sociali, da Roma a Palermo, e un consigliere comunale milanese di Sinistra e libertà si è perfino spinto, generando scandalo, a chiedere di intitolargli la piazza dedicata al generale di Caporetto, Cadorna.
In un video girato a passeggio tra il verde e la quiete del cimitero di Gaza, Vittorio diceva: «Dovessi un giorno morire, fra cent’anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela, un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare». Aggiunge la madre: «Dopo il grande calore ai funerali ci chiedevamo: tornerà il silenzio? Non è accaduto, anzi abbiamo constatato come la vita di Vittorio ne abbia ispirato delle altre. I frutti del suo lavoro si vedono ora. Io vado in giro a raccontare che, anche se la sua vita non è replicabile, il suo insegnamento è che avere un sogno, un’utopia, può aiutarci a fare delle cose». Per usare una metafora che forse sarebbe piaciuta a Vik: può aiutarci a tirar fuori il pescatore che è in noi, anche se il mare non lo abbiamo mai conosciuto davvero. Angelo Mastrandrea Una lettera della ministra Severino e una del ministro degli esteri Terzi rompono il silenzio del governo Quelle perle regalate
al giornale: passione
politica, cura della scrittura. E un libro
di Terzani nello zaino
17 settembre 2010 «Hermanos a 200 metri da qui c’è un nuovo cratere lunare mica male, speriamo siano finiti i botti, a sud ci sono già dei feriti. Butto giù qualcosa sui bombardamenti di questa notte e le ultime vittime di questa settimana, se interessa posso inviarvela per il manifesto prima di domani a mezzogiorno. Fatemi sapere Vik».
Arrivavano spesso in redazioni questi messaggi di Vittorio Arrigoni. A destra l’ultima corrispondenza da Gaza City, sei giorni dopo, il 15 aprile di un anno fa, Vittorio è stato ucciso 9 APRILE 2011 Ore 19:15. Un drone israeliano, un veivolo comandato a distanza responsabile dell’uccisione di donne e bambini in queste ultime ore nella Striscia ha appena bombardato a Est di Zaitoun, Sud Est di Gaza city, a circa 200 metri dalle abitazioni della famiglia Samouni. Il caso Samouni è uno degli attacchi terroristici più efferati della storia d’Israele. Agli inizi di gennaio, 29 membri della stessa famiglia vennero massacrati senza pietà dall’esercito israeliano. Erano tutti civili. Per lo più donne e bambini. Stay human, Vik
da “il manifesto”
La cronaca del brutto andamento del processo agli assassini.
Versioni di comodo della difesa giudici inerti. Vittima la verità
Michele GiorgioGAZA
La notte tra il 14 e 15 aprile 2011 nessuno potrà dimenticarla. Una notte durante la quale un gruppo di giovani, presunti salafiti, mise fine alla vita di Vittorio Arrigoni gettando nel dolore una madre e migliaia di palestinesi e italiani. A distanza di 12 mesi dalle quelle ore terribili, mentre oggi centinaia di compagni ed amici di Vik si riuniranno a Gaza per le commemorazioni ufficiali, l’assassinio di Vittorio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell’uccisione di Vik, invece i giudici della corte militare non sono stati altrettanto solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso settembre, da udienze lampo, dall’assenza frequente dei testimoni e dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo.
In questi mesi abbiamo assistito a un procedimento sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa. Ma non si può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno abbiamo visto testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento quasi non c’è stato. Dopo una quindicina di udienze, finalmente giovedì scorso agli imputati è stato chiesto di spiegare i motivi del rapimento di Vik. A questo punto è arrivato il colpo di scena: tre dei quattro imputati – Mahmud Salfiti, Tarek Hasasnah e Khader Jram (il quarto Amr Abu Ghoula è accusato solo di favoreggiamento) – hanno ritrattato, sostenendo di aver confessato sotto pressione. E, più di tutto, hanno dichiarato, con una versione copia e incolla, di non aver partecipato al sequestro allo scopo di scambiare l’ostaggio italiano con lo sceicco salafita al Maqdisi (detenuto a Gaza) – come avevano ammesso – ma di avervi preso parte «per dare una lezione» a Vittorio che, a loro dire, conduceva una vita «immorale». E per rendere più convincente il loro racconto hanno persino fornito particolari su questa condotta poco in linea con i costumi locali.
Vik sapeva dove viveva e a Gaza conduceva una esistenza tranquilla, rivolta quasi interamente all’impegno politico e umano a sostegno dei palestinesi. Ed era accorto ad evitare che la sua vita privata potesse emergere in qualche modo. Ma il punto non è questo. Gli imputati, fabbricando questa versione, ex novo tentano di cucirsi addosso il ruolo di «giovani tutori della moralità» di Gaza. Il fine è chiaro: vogliono scaricare ogni resposabilità sul giordano Abdel Rahman Breizat e il palestinese Bilal al Omari, i «capi» della cellula salafita che non possono confermare o smentire questa versione perché sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia di Hamas. Non sapevamo nulla dei piani di Breizat e Omari – provano a spiegare i tre imputati – dovevamo rapire Vittorio Arrigoni solo per qualche ora e spaventarlo. Gli altri due invece avevano deciso di scambiarlo con al Maqdisi ma a noi non lo avevano detto.
Di fronte a questa svolta a 180 gradi, a questa versione inverosimile, il pubblico ministero e la corte hanno avuto una reazione soft. Piuttosto avrebbero dovuto mettere gli imputati a confronto, parola per parola, con le loro confessioni. Perchè troppo particolareggiato è stato il racconto dell’accaduto che Hasasnah, Salfiti e Jram hanno fatto davanti agli inquirenti per essere frutto solo di «pressioni» e «intimidazioni». Salfiti ha anche rivelato che tutti erano d’accordo, già prima del rapimento, «sull’eliminazione dell’ostaggio» in caso di mancata scarcerazione di al Maqdisi. Il pubblico ministero inoltre avrebbe dovuto chiedere agli imputati maggiori chiarimenti sulla figura del «capo», Abdel Rahman Breizat. Spuntato apparentemente dal nulla, questo giovane giordano ha compiuto un assassinio feroce avendo forse alle spalle una regia esterna. Ipotesi alla quale gli inquirenti di Hamas non hanno mai lavorato seriamente (perché?).
Certo potrebbe farlo alla prossima udienza, il 14 maggio (che, secondo voci, sarà l’ultima), ma ormai è difficile credere che da questo processo si arriverà all’accertamento della verità. Tanti interrogativi rimarranno senza risposta, anche dopo la sentenza, lasciando la famiglia Arrigoni senza le uniche cose che ha chiesto alle autorità di Gaza: giustizia e trasparenza. Infine non si può non notare l’atteggiamento avuto dalle autorità italiane. Certo l’Italia, come il resto dell’Ue, non ha rapporti con Hamas ma avrebbe dovuto far sentire la sua voce in altri modi, per vie indirette. Non l’ha fatto, anzi, ha scelto di non farlo. Non ha mostrato considerazione nei confronti di un italiano che non predicava violenza ma invocava diritti per la gente di Gaza e ci chiedeva di rimanere sempre e comunque umani.
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