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Monti va alla guerra. Contro di noi

Non molti hanno colto la novità. Il premier piovuto da Bruxelles ha delineato chiaramente, sia ur per accenni, un “percorso di guerra” che è soltanto all’inizio. L’obiettivo è ambizioso: ridisegnare il panorama sociale, la sua “cultura”, i modi d’essere e di pensare di un intero popolo.

Per riuscirci ha argomenti potenti: come il ricatto di un’Europa che altrimenti ci lascerebbe affondare. Tramite lo spread o altri sistemi corrcitivi di tipo economico. E un programma ventennale (il fiscal compct) che dovrebbe costringere l’Italia e una manovra da 45 miliardi ogni anno. Come minimo e solo per abbassare il debito esistente. E non c’è da sorridere di compiacimento nel sentire Monti attribuire alla “concertazione” l’origine di tutti i mali. Con questa parola lui non intende affatto quel che noi abbiamo sempre detto, ovvero la “collusione” tra sindacati, imprese e governo per siglare accordi che andavano contro gli interessi dei lavoratori. No, per Monti “concertazione” equivale a “mediazione sociale”, capacità d’ascolto e comprensione dei problemi del lavoro, magati posti anche in modo conflittuale. Nel suo mondo il lavoro deve solo “obbedire”, senza contrattare più nulla.

Impossibile dunque che al termine di questo “percorso di guerra” il paese possa più somigliare a quel che è stato. La domanda è: come diavolo dovrebbe diventare? E soprattutto: potrà la nostra gente sopravvivere a questa “cura”?

Un paese “competitivo” con quelli “emergenti” è un paese povero, con i livelli di vita drasticamente ridotti, con una disoccupazione strutturale altissima e salari da fame, senza welfare di nessun tipo. E con un’aspettativa di vita drasticamente ridimensionata.

Una sola cosa è chiara: o si imposta il conflitto sociale a partire dalla consapevolezza che bisogna mettersi all’altezza di questa sfida, oppure tutte le nostre “opposizioni” saranno vagiti. Più o meno dignitosi, ma senza possibilità di smuovere alcunché.

Vediamo come i principali media hano interpretato questo accenno al “percorso di guerra”.

 

La verità prima di tutto
Guido Gentili
«Guerra» è una parola che pesa e che non può essere usata con leggerezza. Di recente l’aveva pronunciata il Centro studi Confindustria, spiegando (tra qualche sopracciglio subito inarcatosi) che «non siamo in guerra ma che i danni economici fin qui provocati dalla crisi sono equivalenti a quelli di un conflitto». Ieri il presidente del Consiglio Mario Monti è andato più in là: l’Italia, ha ammesso, ha intrapreso «un percorso di guerra durissimo».
Di questo in effetti si tratta. Noi l’abbiamo sottolineato più volte e responsabilità esige che si dica agli italiani, in piena trasparenza, ciò che è vero. Nel mondo, sui mercati, in Europa, dentro le sue stesse mura che perimetrano altre guerriglie di resistenza ai cambiamenti, l’Italia combatte una guerra senza esclusioni di colpi.
Otto mesi fa, ai tempi del G-20 di Cannes dove l’allora premier Silvio Berlusconi si specchiò nel suo isolamento (e fin quasi nella sua «umiliazione», ha detto Monti), il Paese fu molto vicino ad alzare bandiera bianca. Poi, grazie al passo indietro della politica e di Berlusconi, arrivò il Governo Monti e il decreto Salva Italia. Fu evitato il default e “sorpassata” la Spagna che allora era in posizione migliore della nostra, ma la guerra è continuata. Per vincerla abbiamo bisogno che l’Europa (più pronta ad assumere le decisioni anticrisi che le competono e che impattano sui Paesi membri) ne sia convinta e che i mercati a loro volta segnalino a colpi di spread al ribasso che le ostilità sono terminate. Se manca l’una o l’altra condizione, spiace dirlo, non ci sarà vera pace. Né ripresa.

Imperfetta e feroce, la legge dello spread atterra sugli Stati nazionali mettendo a dura prova le stesse regole democratiche e seminando il panico tra le fila attonite della politica e non solo. Per l’Italia è il nuovo “vincolo esterno” con il quale fare i conti: a confronto, l’entrata nell’euro evapora nel ricordo di un’allegra pedalata in pianura. In Spagna è stato appena varato un piano di risparmi da 65 miliardi, il taglio delle tredicesime pubbliche ed un aumento dell’Iva di tre punti.
Ieri il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha aperto il suo discorso all’assemblea annuale dei banchieri con queste parole: «L’economia è ancora in recessione». Come dire che ci siamo ben dentro (2012 col Pil a -2%, se non di più) e che non bisogna farsi illusioni. Tanto più se la legge dello spread fa un po’ il comodo suo: la differenza tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e tedeschi, ha spiegato Visco, è «di gran lunga superiore a quanto sarebbe giustificato dai fondamentali della nostra economia». Ma tant’è, e di questo occorre prendere realisticamente atto cercando di rafforzare la credibilità percepita del Paese in modo da riavvicinare il più possibile i rendimenti ai fondamentali del sistema Italia.
Siamo, appunto, su un percorso di guerra. Il Governatore ha richiamato con forza le banche a fare bene il mestiere che compete loro secondo il basilare principio della “sana e prudente gestione” e facendo ogni sforzo, in un sistema come il nostro “bancocentrico”, affinché il credito sia fatto affluire alle imprese e alle famiglie. Non solo. Le politiche dei fidi – ecco il messaggio forte ai banchieri – «devono essere basate sulla solidità dei progetti imprenditoriali, non su relazioni e legami che ne prescindano; stabiliti in fasi di crescita economica e di finanza favorevole, essi non sono oggi più sostenibili». Il colpo di maglio assestato contro le degenerazioni del “capitalismo relazionale” non poteva essere più chiaro e più duro.
A sua volta il premier Monti, in un discorso ad alta tensione politica (nel giorno in cui ha lasciato nelle mani sicure di Vittorio Grilli l’incarico di ministro dell’Economia varando anche una sorta di “gabinetto di guerra” per la politica economica che sarà presieduto dal capo del Governo e al quale potrà essere invitato il Governatore di Bankitalia) ha chiarito alle parti sociali, portatrici di legittimi interessi, i confini del confronto col Governo.
Sotto tiro, in questo riconfermando un’impostazione da “professore” che gli è stata sempre propria, è finito il metodo della “concertazione” a spese dello Stato. L’analisi è stata severissima e lo scontro che ne è seguito con i sindacati è di quelli che lascerà comunque un segno. In passato, ha detto Monti, ci sono stati «esercizi profondi di concertazione che hanno generato i mali contro i quali noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli non trovano facilmente lavoro». Insomma, anche in questo caso ciascuno faccia il suo mestiere: con le parti sociali ci si confronta ma poi spetta al Governo (e al Parlamento) decidere nell’interesse generale senza scaricare i debiti sulle generazioni future.
Si dirà che il premier si è infilato l’elmetto, qualcuno farà riferimento al “soldato” Monti, qualcun altro richiamerà il film “Il discorso del Re”, in cui il premio Oscar Colin Firth interpreta magnificamente re Giorgio VI che si rivolge al Regno Unito nel 1939. Sta di fatto che Monti ha parlato di «percorso di guerra durissimo». In Italia e in Europa, luglio 2012.

da Il Sole 24 Ore

«La concertazione causa di molti mali»

Lina Palmerini

ROMA
Le sferzate di Mario Monti – normalmente – arrivano che quasi non ci si accorge. Saranno i toni sempre pacati, i tratti del viso che non mutano, sta di fatto che il contenuto delle parole – rispetto al modo – è sempre spiazzante. E ieri l’effetto si è ripetuto quando il premier, con la solita calma, ha sferrato un j’accuse durissimo contro la concertazione a cui ha attribuito gran parte dei «mali» del Paese. Quando nacque, nei primi anni ’90 a Palazzo Chigi c’era un altro tecnico – Carlo Azeglio Ciampi – e il dialogo sociale servì a inaugurare la politica dei redditi, a raffreddare salari e inflazione, ma per Monti si è – poi – arrivati a una deriva. «Esercizi profondi di concertazione in passato hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro». Anzi le giovani generazioni sono state «danneggiate dal modo di comporre i conflitti delle parti». L’indice del premier è puntato contro il ruolo di sindacati e imprese che negli anni ha travalicato i confini del loro mestiere. «Non devono essere soggetti nei confronti dei quali il potere pubblico dia in outsourcing responsabilità politiche».
Il luogo in cui il presidente del Consiglio ha scelto di fare il suo affondo racconta anche altro: era all’assemblea dei banchieri ai quali ha riconosciuto una «collaborazione» che, invece, dice di non aver trovato in altrove. «Mi auguro che tutte le parti sociali si ispirino all’atteggiamento di collaborazione» dimostrato dal presidente dell’Abi Giuseppe Mussari «nonostante non sia stato tenero» con le banche dice di averne ugualmente l’appoggio «e vorrei lo facessero anche alcune parti sociali che hanno avuto benefici importanti per i loro rappresentanti». Riecheggia la polemica dei giorni scorsi con il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, che era seduto in platea e che aveva già chiarito e archiviato quelle tensioni tra Viale dell’Astronomia e Palazzo Chigi. E così ieri a scatenarsi contro il premier sono stati soprattutto i sindacati che hanno colto più di un elemento di sfida nelle parole di Monti. Per esempio quando ha detto che il suo Governo ha portato «un ridimensionamento del ruolo delle parti sociali».
Non si sottrae, poi, all’analisi di ciò che lo riguarda: fare i conti con le sue politiche, in Italia e in Europa. E avverte che l’Italia ha intrapreso «un percorso di guerra durissimo contro i diffusi pregiudizi, contro le eredità del debito pubblico, contro le sottovalutazioni da parte di noi stessi, contro gli effetti delle decisioni prese in passato e i vizi strutturali della nostra economia». Una guerra metaforica ma che comporterà mutamenti dolorosi visto che la crescita si fa «con le riforme». I risultati? Si sbilancia Monti e li vede già nel prossimo anno quando a Palazzo Chigi sarà insediato il suo successore. «Ci vorrà del tempo ma non ho dubbi che le misure del governo avranno effetti». Il 2013 è quindi l’anno della fine del tunnel, anche se oggi lo spread dà «frustrazione» e ringrazia il Governatore Visco per le sue riflessioni e consigli.
Infine, ringrazia i partiti. E questo – forse – strideva un po’ dopo tutte quelle accuse lanciate alle parti sociali, uniche responsabili dei «mali» di oggi. «I partiti al di là di oscillazioni comprensibili si comportano in modo assolutamente responsabile». Un atteggiamento che Monti crede sia diventato «strutturale» anche per il vincolo esterno dell’Europa che talvolta rischia, però, di tessere decisioni su «una tela di Penelope». L’ultima stoccata va a Silvio Berlusconi, proprio nel giorno della sua ri-discesa in campo: «Al G20 di Cannes fu sottoposto a pressioni sgradevolissime e prossime all’umiliazione». Non è la prima volta che lo racconta ma – forse – giova ricordare dove eravamo lo scorso anno.
 
da Il Sole 24 Ore


Il bersaglio sbagliato

Massimo Riva

Che Mario Monti non ami la concertazione fra governo e parti sociali è risaputo da anni. Ma un conto sono i numerosi e argomentati editoriali che ha scritto sulla materia in passato, tutt’altra cosa il duro e perentorio giudizio sulla questione pronunciato ieri nelle vesti di presidente del Consiglio.

Sarà anche vero che il metodo delle consultazioni a Palazzo Chigi con sindacati e Confindustria è scaduto sovente in una liturgia di così scadente o nulla efficacia da legittimare critiche anche aspre. Ma il premier si è spinto molto più in là indicando in questa pratica la fonte dei «mali contro cui combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro». C’è un eccesso di semplificazione e di disinvoltura storica in queste parole che lascia interdetti.
Accantoniamo subito il dubbio che questa sortita possa essere letta come un’ulteriore e definitiva replica agli attacchi spregiudicati di chi – come il presidente della Confindustria – ha goffamente accusato il governo di fare della «macelleria sociale» con i tagli della spesa pubblica. Per vita e per cultura Mario Monti non è uomo da cadere in simili scivoloni di stile tanto più se a fronte di personaggi dalla caratura francamente non proprio di primissimo rango. Ragione di più, quindi, per chiedersi il senso di un’esternazione che rischia di creare al presidente del Consiglio e al suo governo nuove e maggiori difficoltà, esponendoli ai contraccolpi di una polemica della quale davvero non si sentiva la necessità, soprattutto in questi frangenti sempre più critici delle
cronache politiche ed economiche.
Ha avuto facile gioco, per esempio, la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, a ricordare al premier che uno dei passaggi più impervi nella storia della Repubblica è stato forzato nei primi anni Novanta proprio perché dapprima il governo Amato (luglio 1992) e poi il governo Ciampi (luglio 1993) seppero usare al meglio lo strumento della concertazione con le parti sociali per fermare la corsa del Paese verso il precipizio della – bancarotta finanziaria. Certo, non fu impresa né facile né semplice, ma soprattutto l’accordo negoziato coi sindacati da Carlo Azeglio Ciampi consentì di sterilizzare un’inflazione galoppante e di porre le premesse per il raggiungimento di un avanzo nel bilancio di parte corrente. Così aprendo la strada che anni dopo consentì allo stesso Ciampi di vincere ogni resistenza europea all’ingresso dell’Italia nell’euro fin dalla stazione di partenza. Una svolta storica che lo stesso professor Monti non si stanca di celebrare a ogni passo ma della quale, appunto, non può far finta di ignorare modi e metodi che l’hanno resa possibile.
Ancora pochi giorni fa, accogliendo a Roma Angela Merkel, il presidente del Consiglio ha tenuto a sottolineare che uno dei più solidi punti d’intesa con la cancelliera tedesca consisterebbe nella comune fede in quella che si chiama l’economia sociale di mercato.
Ebbene, in terra di Germania nessuno perde il suo tempo in dibattiti ideologici su vantaggi e svantaggi della concertazione, ma è un fatto che non c’è altro Paese d’Europa in cui il dialogo fra governo e parti sociali sia praticato da decenni con la stessa convinta intensità. Al punto da far considerare la concertazione come il perno attorno a cui ruota, appunto, la tanto celebrata “Soziale Marktwirtschaft”.
Può anche darsi che Mario Monti coltivi in cuor suo una versione in parte diversa del modello tedesco. Ma in questo caso dovrebbe tenere presente la specifica e non ordinaria situazione nella quale opera il suo governo, privo di una maggioranza politica omogenea nell’affrontare una delle crisi più gravi nella storia del Paese. Uno dei primi obiettivi da raggiungere – lo si è detto fin dal principio di questa esperienza – doveva essere quello di raccogliere un consenso politico nella società (e segnatamente tra le forze produttive) al fine di compensare per questa via la mancanza di un solido e compatto appoggio da parte di quella che è stata definita la sua «strana» maggioranza parlamentare. Va bene che da ultimo il premier ha tenuto a ribadire di non voler rimanere al suo posto dopo la fine della legislatura. Ma di qui alla prossima primavera, soprattutto sul terreno economico, una quantità di passaggi decisivi attende l’opera del governo. In questo orizzonte chi crede nell’utilità e nell’importanza che Mario Monti continui il suo lavoro fa fatica a spiegarsi questi comportamenti. Non gli bastano i tanti guai che già gli combinano alcuni fra i più ciarlieri dei suoi ministri?

da Repubblica

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