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Genova 2001. Non è indispensabile accettare la condanna: due irreperibili

Sono i due condannati alle pene più pesanti: dovrebbero infatti scontare rispettivamente 15 e 13 anni di carcere. La Procura generale di Genova ha emesso ieri gli ordini di carcerazione.

Per altri due sono invece scattate subito le manette. Per Ines Morasca, sei anni e sei mesi, è stata sospesa la carcerazione perché ha una figlia piccola.  Gli altri cinque restano invece in libertà, in attesa di affrontare un nuovo giudizio d’appello, ma solo per la «riponderazione» dell’attenuante di «aver agito in suggestione della folla in tumulto».

Non conosciamo le intenzioni dei due “irreperibili”, ma esprimiamo loro il nostro augurio che non conoscano mai più la galera. E che i tanti critici del mondo attuale che abitano il mondo li aiutino a trovare altrove una vita da liberi. Non è affatto indispensabile scontare una pena ingiusta. Anzi, è indispensabile l’opposto.

Ma il punto che ci preme sottolineare è un altro, più politico e vicino a noi.

Da diversi anni, in Italia, si è fatta strada una “cultura politica” di massa che viene dipinta come “progressista” e che recita il più banale e conservatore degli slogan possibili: “difendere la legalità”, “stare nella legalità”, ecc. Diversi movimenti politici (dipietristi, grillini, oltre che Pd e soci) sostengono addirittura che solo gli “incensurati” avrebbero diritto a far politica ed eventualmente poter ricoprire cariche pubbliche.

Abbiamo qui un esempio vivente di quanto questa “cultura” sia servile col potere. I due “irreperibili” e gli altri compagni che invece hanno deciso di scontare la condanna dovrebbero forse essere “allontanati per sempre” dai movimenti sociali e politici? Quale diavolo di cervello bacato può tenere insieme il concetto di “necessità del cambiamento” e “rispetto integrale delle regole che vorremmo cambiare”? Quanto deve esser grande questo “baco” per non vedere che le regole esistenti sono gestite da un potere pronto a scavalcarle ogni volta che può e a cambiarle ogni volta che gli serve?

L’articolo 18 non c’è più. Era una legge. Dava loro fastidio e l’hanno cambiata. Il falso in bilancio non c’è più. L’ha abolito Berlusconi e Monti ha considerato che in fondo va bene così. Le “leggi razziali” erano perfettamente “legali”. Persino il male assoluto dei campi di concentramento nazisti rispondeva a una perversa forma di “legalità” interna al sistema più immondo che l’umanità moderna abbia conosciuto.

Il feticcio della “legge”, insomma, va riguardato dal’esterno per capirne intanto la cosa principale: legge e giustizia non si corrispondono mai. Il riferimento della prima alla seconda è sempre un’approssimazione, spesso una negazione.

Si dice, in linguaggio giuridico, che a legge è “positiva”. Ossia che la legge è quella che c’è. Giusta o ingiusta, lo decidono i rapporti di forza tra uomini, figure e classi sociali, che mutano nel tempo e quindi cambiano anche le leggi.

In secondo luogo, quanto deve essere grande quel “baco” nel cervello per non distinguere tra “reati politici” e “reati comuni”?

Che un corrotto debba essere escluso dalla possibilità di tornare ad accapparrarsi ricchezza privata mediante l’uso di risorse pubbliche, è ovvio. Idem per una lunga serie di “reatI” chiaramente in contrasto con l’esercizio della funzione pubblica. Inutile fare l’elenco perché la bassezza umana riesce a trovare sempre nuove forme.

Ma chi è incappato nella repressione perché chiedeva e lottava perché questo “ordine” infame fosse cambiato, che quindi ha esercitato il primo e più alto dei diritti “pubblici”, quello di manifestare attivamente il proprio pensiero, perché mai dovrebbe essere “espunto” dalla vita politica?

Chi sostiene questa barbarie senza pensiero dovrebbe almeno rendersi conto che ragiona come un generale birmano: ed escluderebbe Aung San Suu Kyi dalle competizioni elettorali. E Che Guevara dall’iconografia indispensabile per chi ha sete di giustizia. Sia o no “legale” averla.

Non lo è quasi mai…

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1 Commento


  • Mic

    Sottrarsi a una condanna fascista è un dovere, più che un diritto.

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