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Selling Italy by the pound

“Selling England by the pound” cantavano i Genesis e la calda voce di Peter Gabriel. Ma tutto questo sta accadendo qui, sotto i nostri occhi e sulle nostre spalle. Se n’è accorto anche il Corriere della Sera. Qualche mese fa i sostenitori della destrutturazione lamentavano la scarsità di investimenti esteri nel nostro paese. Sta accadendo il contrario. Con un dettaglio micidiale. Non si tratta di nuovi investimenti o impianti ma solo di acquisizioni (e talvolta di chiusure ai fini della conquista esclusiva di marchi e quote di mercato in Italia). Qui di seguito l’articolo di Raffaella Polato sul Corriere della Sera dell’8 agosto.

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Outlet Italia, corsa alle Aziende in Saldo. Gli acquisti dall’estero sono triplicati: 33,1 miliardi.

La si può dipingere con i colori privi di sfumature del dramma: l’Italia in saldo, l’Italia preda, l’Italia che si fa scippare i suoi pezzi migliori. Si può però provare a vederla anche da un’altra angolatura (magari per tirare fuori un po’ d’orgoglio): non è proprio tutto da buttare, qui. Ci si può venire per portar via, certo, e c’è chi lo fa. Ma a volte il viaggio è per restare, per assicurarsi eccellenze che pur tra i mille difetti del Paese nessun altro offre, per far crescere quel che spesso noi — purtroppo — nemmeno a prezzi da svendita siamo oggi in grado di mantenere e far girare. E poi. Ci lamentiamo da anni di essere un sistema incapace di attrarre investimenti dall’estero, perennemente in fondo a qualsiasi classifica (non sempre indiscutibili: ci sta che per la Banca mondiale siamo all’ultimo posto tra le nazioni Ocse, ci sta un po’ meno prendere per buono che persino il Ruanda sia più business attractive di noi). Forse, ora, in quelle graduatorie qualcosa dovremmo cominciare a rivedere.

È vero che dall’Italia le multinazionali continuano a fuggire. È indubbio che anche i pochi global big con passaporto nazionale (Fiat ma non solo) tendono sempre più a delocalizzare, peraltro esattamente come i piccoli-medi che possono permetterselo. È innegabile che nelle condizioni di competitività del sistema nulla sia ancora cambiato, quanto meno non in positivo. E tuttavia. L’altra faccia della crisi da spread è che i flussi dei famosi capitali stranieri hanno cominciato a gonfiarsi anche in entrata. Fermi per anni, lì, nel 2011 sono più che triplicati. Hanno addirittura superato i numeri dei tedeschi (in netto calo, quasi anche questo fosse uno specchio fedele dei rapporti di forza e debolezza in area euro): 33,1 miliardi gli investimenti esteri diretti in Italia (inchiodata a 9,2 miliardi ancora nel 2010), 32,3 quelli approdati in Germania (dai 46,1 dell’anno prima).

Per dirla in termini di peso sul Prodotto interno lordo, siamo saliti dallo 0,45% a un punto secco in più, l’1,47%. Sempre pochissimo rispetto al resto d’Europa, soprattutto se dai flussi si passa ai cosiddetti stock: sul Pil britannico il totale dei capitali esteri conta per il 48,4%, la Spagna segue poco più giù con il 43,7%, la Francia arriva al 39%, noi ci blocchiamo al 16,4% (pure qui, paradossalmente e chiaramente per ragioni opposte, i più vicini sono i tedeschi: 20,4%). Ma qualcosa si muove. E dev’esserci anche una certa fiducia nelle prospettive e nella solidità del Paese reale se è vero che a Madrid, a sua volta teoricamente e ancor più di Roma in «saldo da spread », l’estero sta fermo: 24,5 miliardi aveva investito nel 2010, a 25 è rimasto nel 2011. Certo, nemmeno da noi quegli investimenti sono ex novo, anzi: mentre si allungava il capitolo «acquisizioni» le attività «da zero», tutte da costruire, mostravano un calo del 52% (peraltro, qui, la stessa Germania perde l’1% e tra i grandi Paesi Ue solo la Gran Bretagna chiude in attivo). La questione tuttavia non è questa. «È — sintetizza Giorgio Barba Navaretti, ordinario di economia all’Università degli studi di Milano ed economic advisor del Comitato investitori esteri di Confindustria — se questi capitali generino poi davvero valore aggiunto in Italia».
Per una Lactalis sospettata (e qualcosa di più) di voler «smontare» Parmalat, la risposta di solito è sì. Audi con Ducati, o Mitsubishi con la sconosciuta (ai più, perché in realtà dalla Puglia è leader nelle conserve di pomodoro) Ar industrie alimentari, o ancora l’ondata di acquisizioni da Germania, Svizzera, Austria tra produttori di macchine da caffè o impianti di riciclaggio rifiuti della Marca trevigiana, sono state certo favorite dalle difficoltà finanziarie provocate dal credit crunch , da imprenditori che in questo scenario nazionale non ce l’avrebbero fatta a garantire sviluppo o addirittura sopravvivenza, dai prezzi da saldo in cui tutto questo si traduce. Ma — Barba Navaretti ne è convinto — «sono operazioni industriali, che mantengono o rafforzano produzione e occupazione», non uno shopping all’outlet Italia e via, ritorno in patria con il gioiello strappato. I giapponesi non si sono comprati i pomodori pugliesi per farli diventare «pelati in scatola» da qualche altra parte: la tecnologia buona è già qui. O Ducati: lo sanno, all’Audi, che il plus è l’anima motoristica emiliana. Per non parlare del turismo: l’emiro del Qatar Hamad Bin Khalifa si è comprato la Costa Smeralda (peraltro mai italiana quanto a proprietà) così come si era comprato una quota di Porsche. Ossia per far fruttare il proprio immenso patrimonio, non per puro divertimento come con lo strapagato duo Ibrahimovic-Thiago Silva portato dal Milan al Paris Saint-Germain.
Divagazioni calcistiche a parte, quelle citate sono tutte operazioni del 2012. E confermano l’exploit 2011, che è solo in parte frutto delle grandi acquisizioni alla Bulgari (4,2 miliardi da Lvmh) o alla Parmalat (3,7 miliardi da Lactalis). A conti fatti, sui 33 miliardi totali solo 12 riguardano nomi da prima pagina, il resto è fatto da tante piccole e medie aziende sconosciute ma, come il grosso della nostra rete di imprese, appetibili per tecnologie e mercati.

Dopodiché: quanto hanno fatto davvero la differenza, per chi acquistava, i prezzi da saldo? Un anno fa sicuramente molto. Ovvio ed evidente. Oggi, a giudicare dai parametri offerti dalle società quotate, non molto più di allora. Agosto 2011, pieno tsunami da spread : il campione nazionale Eni aveva dimezzato il proprio valore, da 100 a 53 miliardi, le Generali erano precipitate da 42 a 18, Unicredit e Intesa da 70 (più o meno) a una ventina. Agosto 2012: nonostante un altro anno e un’altra estate di eurotempeste, assicurazioni e banche sono suppergiù lì (solo Mediobanca dimezza o peggio, da 5,5 a 2,4 miliardi), un gruppo industriale come Fiat resta dov’era dodici mesi fa (sui 5 miliardi), l’Eni addirittura recupera quasi il 50% di quel che aveva bruciato (è a 70 miliardi). Sempre possibili prede facili, vero, quasi tutte (come da allarme di Franco Bernabè, altri due miliardi di capitalizzazione persa da Telecom agosto su agosto). Forse, però, non proprio tutte ancora più fragili.

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2 Commenti


  • Mamo

    Questo é esattamente il mio punto di vista…. Gli “Economisti” hanno svalutato/deprezzato il paese per potersi comprare a zero tante aziende che funzionano…. Il famoso made in Italy ormai non piú nelle nostre mani…. Tutto parte dello “schiavismo legalizzato”….
    Aprite bene gli occhi!!!!


  • Kobayashi

    Pensiamo positivo: oggi si incassa, domani si nazionalizza.. Il neoliberismo non durerà ancora a lungo..

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