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L’Italia va alle armi

Le dimissioni di Monti non sembrano intralciare l’ennesimo favore della politica militare e all’industria bellica italiana. La legge di revisione delle Forze armate voluta dal ministro della Difesa Di Paola da ieri è infatti una legge dello Stato. Blanda e di ordinaria amministrazione durante il dibattito (con l’unica eccezione di Livia Turco), l’opposizione del Pd che, ignorando le richieste dei movimenti pacifisti e antimiltaristi, ha votato a favore del provvedimento. Ha votato contro l’Idv ma tutti gli altri partiti hanno detto si 295 deputati. Oltre a Idv e Radicali, pochi contrari (25) in ordine sparso (Pezzotta, ad esempio, Terzo Polo), e 53 astenuti (tra cui Sarubbi del Pd).
Assistiamo così ad un paradosso con il governo Monti ormai dimissionario, con il Pd che vota a favore insieme con la destra che vota compatta, nonostante abbia appena bocciato il governo. La Lega invece si è astenuta. Tra i pacifisti presenti in piazza Montecitorio si sono visti scendere solo i deputati Federica Mogherini del Pd e Giuseppe Giulietti (Misto) oltre al segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Il resto se ne sono ben guardati.
Tutto adesso è nelle mani del prossimo esecutivo e dei decreti attuativi su cui ci sono 60 giorni di tempo perché il futuro parlamento dica la sua. La legge autorizza le Forze armate a riorganizzarsi in proprio in 12 anni con una delega per ora in bianco. Potranno rivedere modello organizzativo e infrastrutture e chiedere il pagamento delle attività di protezione civile. Ma introduce anche il principio dell’invarianza della spesa. Ciò significa che i risparmi (es: i tagli su posti di lavoro nel comparto) resteranno alla Difesa con una “flessibilità gestionale” che l’autorizza spendere come vuole, soprattutto nell’ammodernamento degli armamenti. La legge taglierà 40mila soldati e 3mila civili del comparto.

Il comparto della Difesa, è l’unico tra i ministeri, nell’anno del rigore e dei tagli che ha registrato addirittura un aumento degli stanziamenti (785 milioni di euro, il 3,8%) e del budget totale, che per il 2012 sfonda quota 21 miliardi di euro. A questi capitoli di spesa occorre aggiungere il finanziamento delle missioni militari all’estero e i fondi che Ministero per lo Sviluppo Economico è costretto a erogare per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma.
Nelle 238 pagine del recente libro di Vignarca, Sasso e Facchini, “Armi, un affare di Stato”, emergono come protagonisti del mercato delle armi tre soggetti ben individuati: l’industria bellica, la politica e la finanza. Sul fronte politico prestare il fianco all’industria delle armi è un vero e proprio fronte trasversale e ampiamente bipartisan.
Nel capitolo “L’Italia è il Paese che armo” si spiega chiaramente come Silvio Berlusconi, insieme al ministro La Russa, siano stati i maggiori supporter di Finmeccanica e solerti impallinatori della legge 185, che è il baluardo della trasparenza in fatto di acquisti e spese d’arma. Ma non si tace il ruolo avuto dal centrosinistra, a partire dal fatto che la decisione di partecipare al famigerato programma F35 fu presa nel lontano 1996 da Romano Prodi premier e con Andreatta ministro della Difesa.
Un altro capitolo del libro – “Lo Stato va in paradiso (fiscale)” delinea il ruolo centrale assunto dalla finanza nel sostenere il sistema della corsa all’armamento, un business che non può fallire perché si svolge in un settore che non è neppure un mercato, avendo lo Stato come committente unico e primo azionista delle aziende produttrici. In sostanza le banche e la finanza che non fanno credito alle imprese e ai cittadini allargano volentieri i cordoni della borsa ai produttori di armi perché è un business dai ritorni certi. Tra i passaggi interessanti quello che mette in luce gli espedienti adoperati da alcuni istituti di credito per sostenere il mercato bellico senza farlo vedere a correntisti e clienti convinti di avere a che fare con banche sempre più etiche e meno armate. Unicredit, ad esempio, resta alla luce del sole un grande sponsor dell’armamento (ha in pancia 180 milioni di euro di autorizzazioni), mentre Banca Intesa ha ufficialmente stretto i rubinetti delle armi per tutelare la propria immagine ma fa parte di quelle banche “disarmate in patria” che continuano ad alimentare il mercato mondiale attraverso partecipazioni a gruppi internazionali lontani dal controllo e dai valori ispirati a ragioni etiche. Un esempio, è quello dell’Unione delle Banche Arabe ed Europee che tra il 2006 e il 2010 la Ubae Spa ha autorizzato operazioni nel settore bellico per 107 milioni di euro. Della sua compagine societaria fanno Unicredit (10,7%), Sansedoni Siena (3,6%), Banca Intesa Sanpaolo (1,8%) e grandi imprese italiane come Eni (5,3%) eTelecom (1,8%). 

La finanza – spiega Vignarca, autore del libro – gioca un ruolo implicito nel settore sostenendo anche il collocamento di obbligazioni delle società e i fondi di investimento. E lo fa perché quello delle armi non è un mercato, è un settore senza concorrenza dove la committenza è pubblica e consente di accaparrarsi commesse dai ritorni altissimi garantiti dallo Stato. Tutti gli attori hanno vantaggi: produttori e finanziatori incassano denaro, i manager pubblici portano a casa bonus e stock option. I ricavi delle aziende, e qui torna la finanza, vanno dritto nei paradisi fiscali. L’80% delle società della galassia Finmeccanica ha sede fuori dai nostri confini, anche in paesi dalle facilitazioni fiscali come Olanda e Lussemburgo” inoltre – spiega VignarcaGli utili li fa così, non pagando le tasse allo Stato che ne è proprietario e creando con gli utili possibili  provviste per le tangenti che dominano globalmente i meccanismi di commercio delle armi, da soli responsabili del 50% della corruzione mondiale”.

Ci ricorda spesso l’economista Giorgio Gattei che Keynes, come noto era consapevole dell’opposizione di principio contro un intervento statale nell’economia, specialmente se rivolto a “far buche per terra” come aveva provocatoriamente suggerito per ridurre la disoccupazione di massa. Come aggirare allora l’ostacolo? Con la spesa pubblica militare che da sempre e da tutti è considerata rispettabile nel nome della salvezza/grandezza della Patria. Ecco perché a suo parere, proprio come la costruzione di piramidi, “le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza, se l’educazione dei nostri governanti secondo i principi dell’economia classica impedisce che si compia qualcosa di meglio”. E’ noto che il rimedio teorizzato da Keynes (ma non solo da lui) venne adottato dapprima dalla Germania nazista e poi da tanti altri. I risultati sono stati anni di terrore e orrore per l’intera umanità.

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