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Italia: l’università di classe è già una realtà


Pochi giorni fa il CUN, il Consiglio Universitario Nazionale, ha messo in evidenza il netto calo del numero di studenti immatricolati negli atenei italiani. Che in dieci anni hanno perso circa 58 mila iscritti. Una espulsione di massa senza precedenti dall’istruzione superiore che è andata avanti sia sotto i governi di centrodestra sia di centrosinistra, in nome di diktat implementati dalle varie maggioranze politiche che hanno semplicemente adottato le ‘raccomandazioni’ contenute nei vari Piani Bologna e nei documenti di indirizzo della Commissione Europea.

Un lento esodo dei giovani cervelli dalle Università, diventate sempre più care, sempre più complicate da seguire per chi deve anche lavorare per pagarsi gli studi, sempre più selettive. Nel frattempo il numero delle borse di studio è calato e i criteri per accedervi sono diventati sempre più restrittivi, i costi dei servizi sono raddoppiati e triplicati, così come gli affitti e i viaggi per i fuorisede.

Non c’è quindi da stupirsi se un numero sempre maggiore di giovani sceglie di non intraprendere affatto gli studi superiori e di gettarsi immediatamente nella mischia di un mercato del lavoro sempre più deregolamentato e competitivo. Competitivo al ribasso, in particolare, senza che spesso una laurea consenta a un giovane ormai non più di primo pelo di iniziare a lavorare da una posizione migliore rispetto ad un altro semplicemente diplomato.

Studiare troppo, semplicemente, non conviene più. Si perde tempo prezioso, si spendono soldi che non si hanno, si acquisiscono competenze spesso ‘fuori mercato’ e inservibili. E si ottiene un pezzo di carta che nei colloqui di lavoro a volte è considerato anche di troppo, segnale di eccessive pretese professionali e salariali da parte di chi cerca una occupazione. L’università, ormai, non è più il potente strumento di emancipazione ed ascesa sociale che è stata nei decenni precedenti.

I dati del CUN sono stati oggetto negli ultimi giorni di commenti e specificazioni. E si scopre così che il calo degli immatricolati all’università colpisce quasi esclusivamente le classi meno abbienti. I figli e le figlie della classe lavoratrice ampiamente intesa. Dal 2003/2004 al 2011/2012, in neanche un decennio, l’Università italiana ha perso il 17% abbondante delle immatricolazioni. Basta passare allo screening i diplomi in possesso dei nuovi iscritti all’università – che non è detto, tra l’altro, che arrivino poi fino in fondo – e si capisce come quel 17% di fughe dall’istruzione superiore sia da imputare quasi del tutto agli strati sociali inferiori. Addirittura nel periodo preso in considerazione gli immatricolati all’università in possesso di un diploma di maturità liceale (classica oppure scientifica), anziché diminuire, sono aumentati dell’8%. Mentre sono letteralmente crollate le immatricolazioni degli studenti che erano in possesso di un diploma di tipo tecnico o professionale: meno 44% per i primi e meno 37% per i secondi. Un dato incontrovertibile, anche al netto del relativo calo registrato nel numero di diplomati negli istituti tecnici (mentre quelli sfornati dai professionali sono addirittura aumentati).
E non è un segreto che nel nostro paese, così come in altri, a finire negli istituti tecnici e professionali siano soprattutto i giovani provenienti da famiglie con redditi e condizioni sociali più basse.
Se il calo di immatricolazioni all’università dal 2003 al 2012 è mediamente del 17%, disaggregando i numeri su base regionale ci si accorge che se al nord la fuga dalle facoltà ha toccato ‘solo’ quota 7,7% al sud il dato schizza al 27%.

A questi numeri già chiarissimi dovremmo poi aggiungere un altro elemento: che i giovani laureati non sono per niente choosy. I dati forniti dalla Fondazione sussidiarietà – ci hanno lavorato il dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica e il Consorzio AlmaLaurea – smentiscono ampiamente la ministra Fornero. I ricercatori hanno chiesto a 5.730 neolaureati di tutta Italia se sono stati disponibili a trasferire la propria residenza in un’altra città o accettare lunghi trasferimenti casa-lavoro dopo aver conseguito il titolo. E il risultato è stato che il 53% “ha mostrato un’adattabilità elevata con picchi superiori alla media tra gli uomini (63%), gli ingegneri (60%), i residenti al Centro-Sud (60%, dieci punti in più rispetto al Nord), gli autonomi (60%) e i lavoratori precari (60%)”.
Altro che schizzinosi…

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