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L’Aquila – 06.04.2013. Quattro anni dal sisma

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Quattro anni sono un tempo considerevole. Un tempo quasi storico. Cosa è cambiato? Agli albori della vita umana questa valle deve essere apparsa meravigliosa: montagne e piccole valli come terre promesse, albe e tramonti di fuoco. Da allora ad oggi questo territorio ha subito tante trasformazioni e oggi, dopo la distruzione del terremoto, le “new town”, i puntellamenti, una geografia da re-imparare, è legittimo chiedersi di quanto sia peggiorata la vita di chi continua ad abitare qui.

Tutte le cerimonie della ricorrenza dovrebbero essere abolite e sostituite con luoghi e momenti di riflessione. In silenzio. E dopo aver occupato tutti gli spazi della riflessione, infine gridare con un urlo liberatorio che ci restituisca la dignità per riprenderci quello che ci è stato tolto. Il primo spazio da rioccupare è quello della memoria. Senza sconti. Che cosa eravamo, cosa siamo stati fino alle 3e32 del 6 aprile 2009? Una città che già si avviava a divenire un borgo. Una crisi d’identità forte avvenuta sulla rottura della dimensione di quella che Bauman definiva “società solida”. Finita la grande fabbrica, al di là dei facili slogan, inevitabile l’incapacità di prefigurare un futuro. Una situazione drammatica per molte città italiane, ma qui accentuata da un antico nanismo culturale e provinciale. Una città con mura alte 2912 metri. Occorre ricordarlo. E’ la nostra foto-ricordo. Come pure la metropolitana di superficie che fu reclamizzata come la carta vincente per acquisire una pretesa cittadinanza europea. La classe politica che sedeva allora in consiglio comunale è più o meno la stessa di oggi. Qualche piccolo cambiamento come si conviene a chi nulla vuole cambiare.

Il sisma del 6 aprile si è abbattuto su una società già abbondantemente disorientata e in crisi. Occorre sempre ricordarlo. La crisi dei sub-prime era già scoppiata. E nel nostro territorio l’effetto di questo tsunami finanziario ed economico già si avvertiva in modo evidente. Nello sciopero dei primi di dicembre 2008 dal palco di piazza Palazzo si snocciolavano i numeri della devastazione sociale. E’ evidente che questa doppia crisi ha prodotto in noi una condizione disastrosa.

Dolore, spaesamento, rabbia, paura, rassegnazione sono stati i nostri primi sentimenti. E come sempre succede in ogni tragedia, sono arrivati furbi, profittatori, predatori della carità umana e anche i partiti del male affare. La tragedia del terremoto ha determinato la genesi dello “stato d’eccezione” di cui la Protezione Civile “Spa” è stata la massima e potente espressione. La prima realizzazione in Italia (già sperimentata altrove: New Orleans e nei paesi in guerra) dell’arte della “governamentalità” o della “governance” che tecnicamente, nel linguaggio aziendale, sta a significare: scienza del comando. E’ stato e ancora è un periodo della nostra vita che andrebbe studiato. Si è verificata una straordinaria circostanza storica, dove è stata costruita una presunta verità. Una massima di Nietzsche recita “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.
Così, per anni, tra i media e il popolo italico è passata l’idea che la ricostruzione sarebbe stata funzionante e progressiva. Su questo è stato creato il racconto nazionale su L’Aquila. Prima è avvenuto attraverso il linguaggio del Capo, un linguaggio volgare fatto di donne e di tutta la sua corte. Poi siamo passati al linguaggio algido dei tecnici e della finanza. Tuttavia entrambi i racconti sono finalizzati al perdurare delle lungaggini imposte dal patto di stabilità e quindi affinché le somme da erogare per la ricostruzione passassero per le complicate regole e per le migliaia di ordinanze, ma anche le alchimie delle filiere, i concorsi, i brodi allungati con acqua sempre più insipida. I soldi ci sono? Non ci sono? Tutto appare surreale. 

Nella crisi della Banca MPS, tra le più gravi di questa triste Italia, i soldi per ripianare quei debiti, causati da manovre speculative dei propri manager, sono stati trovati subito. Per ricostruire una città, che rappresenta una delle tante esperienze storiche, artistiche e culturali di questo paese, sono stanziati pochi euro e tutti rigorosamente centellinati. “I soldi ci sono” ripete il ministro Barca. Ovvero la continuità con un recente passato ma con maniere diverse. 

E’ frequente sentire i nostri concittadini ripetere parole forti e dure contro i rappresentanti politici. Sbagliano perché non sono stati selezionati per virtù, per negligenza o per cattiveria, ma sono i rappresentanti di un potere nazionale ed europeo, dove esiste una rigida gerarchia delle priorità: prima vengono banche, la finanza e la stabilità monetaria. Alla fine, forse, gli uomini e le donne con le loro vite e la loro storia. 

In effetti, tutte le chiacchiere “istituzionali” cominciano a dare fastidio come danno fastidio le lamentele della cosiddetta società civile perché entrambe sono il riflesso speculare dell’altro.

Ritornando alle considerazioni iniziali: o comprendiamo fino in fondo chi eravamo, cosa siamo diventati e in quale situazione siamo costretti ad abitare e a operare per poi delineare almeno i contorni di cosa vogliamo diventare, altrimenti…

Per questo pensiamo che l’elaborazione del lutto vada fatta in silenzio, un po’ come quelle religioni orientali, auto-riflessive e in cui magari si eccede tra l’io e l’intorno.

Se così non dovesse essere, consegniamoci a una futura società bancaria che per suoi interessi corposi ricostruirà L’Aquila a sua immagine e somiglianza.

A noi resterà il ricordo.

Tempera, 6 aprile 2013                    Alfonso De Amicis e Tina Massimini

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