Un’analisi più dettagliata del Def (punto di partenza della legge di stabilità da approvare entro Natale) consente di vedere nuovi particolari e prevedere le linee di aggressione alla spesa pubblica che il prossimo governo – chiunque lo formi o lo diriga – dovrà mettere in atto per soddisfare i parametri imposti dalla Troika (Ue, Bce, Fmi).
Le cifre da reperire saranno tali da rendere obbligatorie più manovre finanziarie, oppure una di portata gigantesca. Anche perché i calcoli – comunque approssimativi – sono fatti in base a una stima “ottimistica” della recessione italiana per quest’anno: -1,3%. Da Confindustria ad altri uffici studi arrivano invece previsioni peggiori, molto vicine al -2%. E siccome le manovre si fanno per raggiungere un determinato rapporto del debito (e del deficit) rispetto al Pil (prodotto interno lordo annuo), è matematico che ogni riduzione del Pil effettivo si ripercuoterà sull’altro fattore della frazione, costringendo a tagli maggiori. Aggravando così la recessione stessa, in una spirale tendenzialmente senza fine.
Il prossimo governo potrebbe – dovrebbe, come insiste nel dire anche Confindustria – bussare alle porte di Bruxelles per risdefinire tempi e modi del percorso di rientro nei parametri di Maastricht. Ma non è detto che trovi un ambiente ricettivo, e in ogni caso i calcoli vanno fatti sulla base degli impegni già assunti. Non è finita. I conti del Def sono relativi alle cose da fare nel 2014, ovvero senza ancora comprendere le maxi manovre necessarie dal 2015, quando entreranno a regime le regole del fiscal compact – riportare il debito pubblico sotto il 60% in venti anni – che costringeranno a tagliare la spesa pubblica di oltre 50 miliardi l’anno per 20 anni di seguito. Impossiobile che il paese ci arrivi vivo.
A stretto giro, comunque, verrà aperta una “terza fase” della spending review, che fin qui ha permesso “risparmi” per circa 13 miliardi, tra 2012 e 2015. Nemmeno molto, considerando la quantità di spese fondamentali già intaccate (soprattutto nella sanità e nella scuola). La responsabilità va al prossimo governo, naturalmente, ma la via è già tracciata: taglio delle Province e l’istituzione delle città metropolitane (con problemi di ricollocazione o esubero del personale), “stretta” seria sulla vasta rete dell’amministrazione pubblica (soprressione di uffici considerati “periferici”, ecc), “potatura” degli enti pubblici, riorganizzazione delle amministrazioni centrali e nuova stretta sulle spese per beni e servizi, con la generalizzazione del contestatissimo “metodo Consip”.
Saranno comunque gli “statali” a dover subire l’attacco più duro che sia mai stato portato. Dato per assodato che siano “troppi” (non si parla qui certo dei vari corpi di polizia, che fanno dell’Italia il paese con il più alto rapporto sbirri/cittadini), il Def prevee di “sfoltire” le piante organiche ricorrendo a un mix di strumenti: prepensionamenti (col rischio di nuovi “esodati”, se contemporaneamente non si rimette mano alla “riforma delle pensioni” targata Fornero), passaggi forzati al part time, mobilità volontaria e licenziamenti veri e propri. Su questo settore si pensa di recuperare circa 5 miliardi. La strada maestra consigliata dal ministro uscente, Filippo Patroni Griffi è una “riforma del pubblico impiego” (l’ennesima), per parificare le condizioni con il settore privato, soprattutto per la parte che riguarda le “relazioni sindacali”.
Sul fronte delle entrate, invece, il Def sembra scritto da gente che vive nel mondo dei sogni. Per esempio, le “dismissioni” di asset pubblici vengono stimate in circa 30 miliardi in due anni, ovvero l’1% del Pil per 2013 e 2014. Specie nel settore immobiliare, però, è in atto una caduta dei prezzi – maggiore proprio nel ramo “grandi palazzi per uffici” – che dovrebbe sconsigliare ipervalutazioni sulle future vendite.
Tutto ciò, comunque, a bocce ferme. Una variabile non piccola dipenderà dalle sorti dell’Imu, che o viene trasformata in una tassa perenne sulla casa, oppure – dal 2015 – è destinata a scomparire. Ma da questa voce dipendono entrate per circa 23 miliardi l’anno. Che andrebbero compensati o ricorrendo a nuvi tagli oppure a nuove entrate (altre tasse, con altri nomi), o a un mix di entrambi.
Altri due miliardi vanno “reperiti” per tappare il buco aperto dalla Corte Costituzionale, che ha giustamente bocciato alcuni ticket sanitari decisamente criminali (per entità o tipologia di malattie). Senza contare il finanziamento di spese straordinarie come la cassa integrazione (l’aumento delle ore concesse è un record continuo), ma anche delle missioni militari di guerra. E in coda vengono altre scadenze come il rinvio della Tares (tassa sui rifiuti) e il congelamento dell’aumento Iva, gli esodati, i contratti con Anas, Poste, Ferrovie e il bonus del 55% per le ristrutturazioni “ecologiche”.
L’arco delle manovre possibili – sempre al netto degli effetti del fiscal compact – varia dunque dai 20 ai 60 miliardi, a seconda di quali provvedimenti prenderà il prossimo esecutivo.
«Il cuore del problema italiano è come tornare a crescere – scrive Mario Monti nella prefazione del Def – e il Paese non può aspettare che la tempesta passi deve agire subito per il 2014 deve essere una anno di trasformazione». Ma non aspettatevi ripensamenti sulla linea del “rigore” imposto dalla Troika. Non è previsto nessun finanziamento per nessuna azione di politica industriale. Solo “riforme strutturali” che peggiorano le condizioni di vita, lavoro, salario, welfare.
Dopo due anni di questa cura, tagli compresi, il debito pubblico è passato dal 120 al 130% rispetto al Pil. Vi sembra un risultato che dia ragione a Monti & friends?
Il Def completo, diviso in due parti:
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