Non sono gli unici, ma sono diventati l’emblema dell’economia “24 per 7”. Quella dove non si chiude e non si riposa mai, nell’illusione che questo serva ad aumentare il Prodotto interno lordo, mentre al massimo si sostiene il profitto di pochissimi imprenditori a danno di altri. Ma in cui – intanto – si massacrano migliaia di persone togliendo loro il diritto al riposo, scritto nella legge e nella Costituzione.
La mattinata del 25 aprile, a Cinecittà, si è aperta con la pacifica irruzione nel più antico centro commerciale di Roma. Attivisti sindacali, avvocati del lavoro, delegati di aziende del settore e di altre strutture travolte dalla crisi (Atac e Alitalia, per esempio), ma anche di pubblico impiego. Bandiere Usb, militanti di Cinecittà Bene Comune, con alla testa Nunzio ed altri, Franco Russo e Pasquale Crupi del Forum diritti lavoro, cassintegrati.
Si attende un po’ prima di entrare, perché anche i “clienti” tardano ad arrivare. Del resto, se il traffico cittadino – con la crisi – si è ridotto ovunque nella media del 34%, si vede che l’ansia da shopping deve essere calata molto. Partono gli slogan e ci si mette in moto: “bassi salari, tanta precarietà/ci stanno togliendo la nostra libertà”, “25 aprile, primo maggio/l’obbligo al lavoro è un oltraggio”.
Facce sorprese di commesse e acquirenti, le mani prendono i volantini e si vede che ora li leggono anche. È finito il tempo in cui quel minimo di benessere diffuso intorpidiva la curiosità di sapere. Vecchietti e ragazzi in cerca di saldi cercano di capire. Si scivola tra pianoforti messi in fila nell’improbabile attesa di compratori, vetrine firmate, chioschi bar e l’ingresso del supermercato alimentari (l’unico dove ci sia in effetti un po’ di “clientela”).
La seconda sorpresa è la risposta delle commesse, sia di quelle imprigionate dietro le casse dell’alimentari che di quelle più “acchittate”, dei negozi fashion: “questo è un campo di contramento – dicono anche le seconde – meno male che c’è qualcuno come voi che se n’è accorto!”.
Dal megafono davati al corteo si illustrano sia le ragioni dell’iniziativa che le condizioni di vita e contrattuali che rendono il lavoro del commercio uno tra i più infami, oggi. I bassi salari obbligano agli straordinari, così come la precarietà inibisce qualsiasi autodifesa nel rapporto con “il padrone”. Tutte condizioni “legalizzate” da alcune “leggi per la promozione dello schiavismo moderno”, come il pacchetto Treu e la legge 30. Ma anche dai contratti di settore, firmati da organizzazioni sindacali che spesso “non abbiamo mai visto in faccia”.
E in effetti, spiega un delegato, “i contratti del commercio sono ormai usati come un grimaldello per scardinare sia la struttura di altri contratti che la struttura dei diritti”. Sono scritti in modo, per esempio, da far credere che il lavoro festivo sia obbligatorio, a discrezione dell’impresa, mentre “invece la legge lo lascia sempre nella disponibilità del singolo lavoratore. Le uniche eccezioni riguardano la sanità e altri servizi pubblici essenziali, come i trasporti”.
Ma chi lo sa? E, soprattutto, chi lo dice a quanti si affacciano per la prima volta nel mondo del lavoro? Quali organizzazioni sindacali sono pronte a fare fuoco e fiamme per difendere una commessa o un magazziniere che si riifiutano di rinunciare al loro “diritto al riposo”? Quelle che sono qui stamattina, oppure qualche delegato isolatissimo (anche all’interno dell’organizzazione di appartenenza).
Franco Russo e il giuslavorista Crupi tengono la loro “lezione di diritto” in una delle “piazzette”, mentre i vigilanti scalpitano sotto la pressione – si intuisce – dei proprietari dei negozi, che temono di veder scappare i non molti clienti in giro. Una troupe del Tg2 – arrivata per filmare – viene addirittura trattenuta fuori del centro commerciale, “altrimenti succede un disastro”. Boom…
Si spiegano le leggi proprio sotto il cartello che indica l’orario di apertura “Domenica e festivi 10-20, orario continuato”. Si ricorda che la Corte Costituzionale ha riconosciuto e legittimato la libertà dell’impresa” di tenere aperto in qualsiasi orario. Una “liberalizzazione” che non smuove un millesimo di Pil, perché tanto quel poco che possiamo spendere per comprare è in diminuzione. Al massimo possiamo distribuirci meglio sugli orari, ma a costo di pesare a morte su chi lavora. E nemmeno l’impresa ci guadagna granché, perché più stai aperto e più spese hai. Ma occorrerebbero negozianti un po’ più ferrati in economia, oltre che meno miopi per egoismo.
Sarà un caso, ma in Germania, la domenica (non parliamo poi delle feste nazionali…) è tutto chiuso. Al massimo puoi trovare un cingalese o un kurdo che stanno aperti nella speranza di veder entrare un turista disorganizzato… I tedeschi, infatti, sono “impostati” per rispettare le feste.
In un posto come questo lavorano, anche nei festivi, più di 100 persone. Ognuna con un “padrone” e un contratto diverso; e così orari, salario, ecc. Se si ammalano, per i primi tre giorni nessuno viene pagato, quindi molti vanno a lavorare anche con la febbre pur di non finire “in rosso”.
Una commessa si aggiunge al coro e rivendica – tra le altre cose – il “diritto alla famiglia”. Molte, qui, sono ovviamente anche madri; stare al lavoro nei festivi toglie loro qualcosa di più, e di non monetizzabile. Strano che, in un paese che passa per cattolico, la famiglia venga onorata nei discorsi e messa in disparte così velocemente davanti al profitto…
La struttura del profitto, in un centro commerciale, è però davvero particolare. A CinecittàDue, per esempio, il padrone della struttura è il gruppo Toti, una holding finanziaria giuidata da Pierluigi e Claudio Toti, nata come costruzioni edili, che controlla a Roma decine di strutture simili. “Impone affitti crescenti ai commercianti, ma anche clausole che si ripercuotono direttamente sull’organizzazione del lavoro dei singoli negozi”. In pratica, sembra di capire, l’obbligo a tener aperto anche nei festivi viene scritto già nei contratti di locazione commerciale, e quindi gli imprenditori affittuari non hanno altro margine operativo se non quello di “premere” sui propri dipendenti. I prezzi delle merci in vendita, invece, sono ingessati dalle dinamiche di mercato. E la concorrenza è fortissima, quasi autolesionista. Un buon analista ne potrebbe cavar fuori un ragionamento scientifico su quanto pesi – in negativo – “la rendita immobiliare” persino sul funzionamento del capitale da investimento…
Il nervosismo dei vigilantes aumenta, dal megafono arriva una “buona parola” anche per loro, egualmente sottoposti a contratti precari e orari abnormi. Ma si capisce che è su di loro che si sta scaricando la paura dei “padroncini” dei negozi e del direttore del centro commerciale. Si cerca di tranqullizzarli, in fondo un centro commerciale – anche se è un “non luogo” fatto di strutture private – è e resta uno spazio pubblico, dove si può manifestare liberamente, come in strada. Se non ci credono, basta chiedere agli avvocati presenti…
Dopo oltre un’ora si affaccia anche la Digos, allertata da chi s’è spaventato nel vedere così tante bandiere rosse (il direttore del centro commerciale). Ma non c’è nulla da contestare, i cortei non sono entrati nei negozi né nel supermercato. E gironzolare tra i piani, nei corridoi, è esattamente la “ragione sociale” di questi megacentri che ormai servono più agli immobiliaristi che non alle imprese commerciali. Finalmente il Tg2 può filmare, fare domande, montare un servizio.
Poi si va via, un po’ più soddisfatti. La “risposta” dei lavoratori c’è stata, anche se in queste condizioni non si poteva certo pretendere che tirassero giù le saracinesche e si unissero al corteo. Il 25 aprile è un giorno di liberazione, certo. Basta ricordare che è stato possibile, dopo lunga lotta, soltanto perché ci si era organizzati per riuscirci.
* in contemporanea anche su
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chiara
l’ho letto con le lacrime perchè siamo veramente tutti stufi e vedere che qualcuno fà qualcosa ci lascia senza parole grazie