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“E’ il Fiscal Compact bellezza!!!”

Sembra piuttosto surreale, fuori e indietro nel tempo, il dibattito sulla Legge di Stabilità approvata ieri sera (entro mezzanotte) dal Consiglio dei Ministri. Già i tempi ci segnalano che qualcosa è cambiato. Il governo italiano, entro le 24.00 di ieri 15 ottobre, doveva obbligatoriamente far pervenire la sua proposta di Legge di Stabilità alla Commissione Europea, che adesso avrà sei settimane di tempo per decidere se va bene o non va bene, se è compatibile o no con i parametri imposti dai Trattati Europei. Solo dopo potrà essere discussa in Parlamento, ma si comprende bene che dopo l’imprimatur della Commissione Europea non sarà possibile modificare neanche l’impaginazione di questa legge fondamentale dello Stato, quella che prima – in un’altra epoca – veniva definita Legge Finanziaria. “L’assalto alla diligenza” (solita banalizzazione del Corriere della Sera) e il ruggito dei peones in Parlamento non sarà più possibile.

 

Cosa è successo? E’ successo che è entrato in vigore il Fiscal Compact (il Trattato Fiscale) voluto e imposto dalla Bce e dalla Commissione Europea senza che il parlamento o il paese abbiano potuto dire ne “a” né “ba”. Volendo qualche gruppo parlamentare o qualche forza politica avrebbe potuto provarci, ma non ci hanno neanche provato, così come il precedente Parlamento aveva approvato senza colpo ferire (se non qualche raro parlamentare) l’obbligo dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione (un dettaglio che i maestri della “Via Maestra” si sono ripetutamente dimenticati di segnalare).

 

Oggi è amaro constatare come le prime pagine dei giornali diffondano la velina di palazzo sul “messaggio rassicurante da dare al paese”. Tra virgolette compaiono i capitoli più rassicuranti delle misure varate dal governo Letta sul cuneo fiscale o sul rinvio dei tagli alla sanità. Nessuno, ad eccezione di Federico Fubini su La Repubblica, ha ricordato come stanno le cose esattamente (più sotto ne riproduciamo l’articolo).

 

La decostruzione della Legge di Stabilità riserva notizie fuorvianti (la riduzione del cuneo fiscale porterà in dote ai lavoratori solo tra i 10 e i 15 euro al mese) e negative, come l’accanimento contro i lavoratori pubblici, che di fatto stanno facendo da bancomat e da ammortizzatore sociale dentro la recessione. Ma ogni discussione sulla Legge di Stabilità resterà solo teorica e sulla carta fino a quando i tecnocrati della Commissione Europea non l’avranno radiografata, approvata o respinta. Quindi per sei settimane si può solo continuare a fare congetture.

 

Quello che manca totalmente è la riflessione o la denuncia sulle conseguenze dei Trattati europei approvati in questi ultimi tre anni. Tra questi il Fiscal Compact e il Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) hanno stretto la corda al collo del nostro e degli altri paesi deboli dell’Unione Europea e nei prossimi mesi/anni continueranno a stringere con maggiore o minore violenza, modulando la “terapia greca” con la “terapia francese”.

 

E’ quasi disperante il grado di omissione o sottovalutazione di questa gabbia costruita dagli apparati dell’Unione Europea sull’Europa (non sono affatto la stessa cosa).

 

In questo senso va salutato positivamente il coraggio politico del movimento politico Ross@ che ha deciso di buttare il sasso in piccionaia avviando una campagna che chiede il referendum proprio sui Trattati Europei. La Costituzione dice che non si può fare, la complicità bipartizan Pd-PdL dice che non si può fare, i media mainstream dicono che non si può fare, banche e Confindustria dicono che non si deve fare. La realtà ci dice che si può fare perchè è stato fatto. E’ stato fatto nel 1989, era un referendum di indirizzo costituzionale appaiato alle elezioni europee, è stato fatto quando tutti erano europeisti e il Trattato di Maastricht era al di là da venire. Poi ogni volta che hanno un referendum sui Trattati Europei dove questo era possibile (Danimarca, Irlanda, Francia, Olanda) ha sempre vinto il NO. E’ probabilmente questa la ragione per cui vogliono impedire alla società di esprimersi sulla materia. Loro ci dicono sempre “Ce lo chiede l’Europa”, noi cominciamo a rispondere “Ce lo chiede la democrazia e il senso di uguaglianza”.

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Da La Repubblica di oggi 16 ottobre

 

La lente dell’Europa sui conti italiani

 

di Federico Fubini

 

Nei giorni della legge di stabilità, il governo rischierebbe però di trarre il segnale sbagliato se pensasse che anche l’Italia è uscita dai radar: l’esame che questa manovra sta per affrontare a Bruxelles potrebbe dimostrare l’opposto nel giro di sei settimane.

 

Nessuno in realtà nella Commissione europea intende pronunciarsi a caldo sulle misure. Non è sorprendente, benché proprio la mezzanotte di ieri fosse la scadenza data al governo da Bruxelles per inviare il provvedimento. È tutto troppo «nuovo e delicato» per commentare, si spiega, sia a causa di fattori legati all’Italia in particolare che per il quadro complessivo dell’area euro.

 

C’è il caso nazionale: visto da Bruxelles o da Berlino questo appare – a ragione o a torto – il solo paese in crisi a restare poco leggibile; Grecia, Portogallo, Spagna o Irlanda si sono dimostrate più fragili, ma tutti in Europa ormai hanno un’idea più o meno chiara delle loro prospettive. Se non altro perché sono ancorate ai piani di salvataggio, su di loro la visibilità a un anno o due sembra assicurata. Si capisce cosa faranno e si intuisce come risponderanno i mercati. Invece per l’Italia, è il timore diffuso in Europa, molto meno: ed è la più pesante delle economie vulnerabili, quella il cui impatto si fa sentire su tutto il sistema.

 

È con questo spirito che l’esame della legge di stabilità sta per iniziare a Bruxelles in condizioni inedite. Quest’autunno per la prima volta si applica la cornice di regole che Mario Draghi, presidente della Bce, ha chiamato «fiscal compact». È un «patto di bilancio» imperniato su pochi pilastri che cambiano la natura stessa della sovranità nazionale. Da ora in poi, ogni proposta finanziaria passerà al vaglio di Bruxelles prima che il parlamento del paese coinvolto la approvi; l’esame preliminare serve a chiedere (di fatto, a imporre) modifiche all’impianto se la manovra risultasse incoerente con le regole europee e gli obiettivi. Per l’Italia ciò significa che entro fine novembre la Commissione prima e l’Eurogruppo dei ministri finanziari poi guarderà a fondo l’impianto del bilancio. Quindi si pronuncerà. Non è un caso che il mese prossimo siano già in agenda due vertici dell’Eurogruppo.

 

Il governo arriva a questo passaggio pieno di trappole mandando Bruxelles, secondo il Financial Times, una versione della manovra che ieri mostrava ancora delle caselle bianche. La promessa fatta alla Commissione è di riempirle fra qualche giorno, non appena ci sarà l’accordo di tutti. Eppure all’attivo ci sarebbe anche un po’ di credibilità. Ieri Olli Rehn, il commissario Ue agli Affari monetari, ha detto che l’Italia ha dei margini d’investimento in più nel 2014 perché il suo deficit resta sotto il 3% del Pil. Non era scontato. Alla Francia per esempio è stato permesso di rinviare la stretta di bilancio e restare sopra il 3%, ma la vigilanza europea sui conti di Parigi si è fatta asfissiante. La lista di rassicurazioni richieste ai francesi è lunghissima; a confronto, il governo italiano viene marcato meno stretto.

 

Questo non significa che l’esame europeo sarà una passeggiata, al contrario. In base al «fiscal compact», l’Italia dovrebbe ridurre il suo debito pubblico rapidamente a partire dal 2015: sarebbe una rivoluzione copernicana di cui oggi si faticano a vedere i presupposti, ma la legge di stabilità verrà misurata anche su quell’impegno. Quanto alla Commissione, se quello di Rehn è un segnale, potrebbe dimostrarsi meno severa negli atti pubblici che non nei colloqui privati.

 

Poi però si andrà all’Eurogruppo, dove ogni governo ha una sensibilità e una convenienza diversa. In Germania per esempio si sono già rifatti i conti sui numeri di debito, deficit e saldi al netto degli interessi contenuti nell’ultimo Documento di economia e finanza del Tesoro italiano.

 

E la conclusione dei tecnici tedeschi è che quelle stime sono fragili, niente affatto a prova di bomba. A Berlino molti pensano che l’Italia non stia facendo la sua parte, dopo aver incassato un sostegno provvidenziale grazie alla disponibilità della Bce a intervenire, protetta dal tacito assenso di Angela Merkel.

 

La cancelliera non ha ancora il suo governo post- elezioni ed è improbabile che voglia creare un caso politico sul grande vicino del Sud proprio ora. Ma le regole europee sul «fiscal compact» sono nuove, nessuno vuole che perdano subito mordente. Non ha voglia di concedere sconti l’Olanda, pressata com’è dai partiti anti-euro in casa e dall’infrazione a Bruxelles per il suo deficit sopra il 3%. Ha solo elettori da guadagnare dall’intransigenza anche il governo Helsinki.

 

E per parte sua l’Italia non ha molti alleati. La Francia in Europa è in perdita di velocità, piombata in un silenzio assordante per la crisi di fiducia che la paralizza. E la Spagna, vincolata al pacchetto di salvataggio Ue per le sue banche, vorrebbe semmai che l’Italia la raggiungesse: da mesi Luis de Guindos, ministro delle Finanze di Madrid, ripete in privato che anche Roma dovrebbe chiedere un aiuto europeo.

 

Il ministro Fabrizio Saccomanni, su questo sfondo, avrebbe bisogno di una manovra solidissima. Lui, il ministro agli Affari europei Enzo Moavero e il premier stesso sarebbero perfettamente in grado di difenderla a Bruxelles. Ne hanno le competenze e i rapporti. Tutti in Europa però hanno visto come la strategia per tenere il debito sotto controllo è basata, da ora al 2017, su un aumento previsto del surplus di bilancio di 45 miliardi (prima di pagare gli interessi sul debito). In teoria sono quasi tutti tagli di spesa. Da stamani, molti ne cercheranno invano traccia nella legge di stabilità

 

 

 

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