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L’incredibile perizia medica per la Ligresti: se anche il carcere divide i ricchi dai poveri

La galera non si augura  a nessuno, nemmeno ai nemici. Nemmeno ai ricchi, stavamo per dire. Poi ci è capitato questo articolo scritto peraltro sul moderatissimo Repubblica, dalla certo non estremista – ma seria – sociologa Chiara Saraceno, e ci siamo fermati.

Il problema è in fondo semplice: i ricchi in galera ci vanno poco, e solo in casi estremi, perché hanno loro il pallino del potere in mano. Loro hanno segnalato buona parte dei governanti per la nomina, loro possiedono le conoscenze e i numeri i numeri di telefono giusti, lo possono sistemare” situazioni che per qualunque comune mortale sono drammatiche.

Loro possono naturalmente anche pagare medici, periti e periti medici. Ma fin qui mai ci era capitato di sentir teorizzare – da un perito affettuoso, ma evidentemente poco attento alla propria credibilità – che chi è possidente “non può” sopravvivere alla galera perché troppo abituato a diversi e più salubri standard di vita. I poveri. invece, e come si sa, possono tollerare tutto. Anche la galera. Per fortuna che siamo di sana e robusta costituzione, anche se con le tasche vuote…

Vien quasi di rimpiangere i tempi in cui era prevista la galera per debiti… e anche per i fallimenti. Tre quarti della classe dirigente attuale, a partire da quella imprenditorial-finanziaria, sarebbe permanentemente “al gabbio”.

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Forse a Giulia Ligresti non occorreva neppure l’interessamento della ministra della Giustizia Cancellieri perché il tribunale valutasse il suo stato di salute come troppo rischioso per la sua incolumità psico-fisica e quindi ne decidesse la scarcerazione. Bastava la sua condizione di persona ricca e privilegiata, non abituata quindi ai disagi. Secondo la perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino in fondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato — come nell’ancien régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus
di vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di “disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e garanzie per tutti.

Da la Repubblica

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1 Commento


  • Gigi Spina

    “Se ne deduce che invece chi”: mi dispiace, Chiara Saraceno è una sociologa di tutto rispetto, ma lascia a desiderare, mi pare, quanto a logica e ad argomentazione. No, non se ne deduce proprio niente, si tratta semplicemente di una analisi psicologica applicata a una persona, non di una comparazione di casi rispetto ai quali una decisione debba prevalere sull’altra. Che è il punto: non mi pare si trattasse di una sorta di gioco della torre (o di sapore evangelico: Chi volete sia libero?

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