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Stato-mafia, torna l’ombra di Andreotti

Giovanni Brusca depone nell’aula bunker di Milano: «Riina ci disse di rompergli le corna, non doveva diventare presidente della Repubblica»

Nel giorno in cui l’assenza del pm Nino Di Matteo pare la notizia più importante dell’ennesima giornata infinita del processo sulla presunta trattativa tra Stato e cosa nostra, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, ha raccontato ieri l’ennesima versione dei fatti sulle stragi del bienni 1992/93. Parole di pentito, versioni ufficiose e retroscena per ricostruire le trame di un accordo indicibile ma ancora mai dimostrato.
«Riina diceva che dovevamo rompere le corna ad Andreotti – queste le parole di Brusca davanti alla corte d’assise di Palermo, arrivata ad ascoltarlo nell’aula bunker di Milano –, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage di Falcone. Dopo il 23 maggio Riina mi disse: con un fava abbiamo preso due piccioni».
Sarebbe stata cosa nostra, dunque, il vero grande ostacolo che impedì al Divo Giulio di concludere la sua carriera politica con un settennato al Quirinale. Ma una domanda, a questo punto, sorge spontanea: Brusca è pentito dal 2000, perché ha cominciato a raccontare dei rapporti tra la mafia e personaggi come Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano solo alcuni anni dopo? La risposta: «Decisi di raccontare tutto quello che sapevo dopo l’incontro con Rita Borsellino. Lei voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io ho dato l’anima e da quel momento non mi interessa più la mafia, non mi interessa più la giustizia. Non mi interessa più niente».
Parole, non fatti. Il processo sulla presunta trattativa va avanti ormai così, un po’ per inerzia un po’ sull’onda dell’emozione. Dopo l’assoluzione del generale Mori – che non avrebbe, dunque, favorito Cosa Nostra andando a perquisire il covo di Riina con ritardo rispetto all’arresto del boss – le cose si sono complicate parecchio. Rimane in piedi anche l’altra grande obiezione: delle richieste contenute nel famoso papello stilato dalla mafia all’indirizzo dello Stato, non ne è stata esaudita neanche una. E i capi di Cosa Nostra continuano a vivere dietro le sbarre. La storia va avanti ormai dal 1991, quando, secondo gli inquirenti, Totò Riina avrebbe spiegato ai suoi picciotti che «dovevano morire tutti». Era la sua vendetta: «I politicanti lo stavano tradendo – confessa ancora Brusca –. Disse: gli dobbiamo rompere le corna».
E allora il primo atto della guerra fu l’omicidio del Dc Salvo Lima, il 12 marzo del 1992. «Riina era convinto che con quell’azione avremmo condizionato la vicenda dell’elezione al Quirinale di Andreotti», dice ancora il pentito. «Si è trattato – prosegue – di una vendetta a scopo politico. Nella lista di cosa nostra, Falcone e Borsellino in realtà venivano prima. Mannino pure doveva morire perché non aveva aggiustato il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi chiese di farlo fuori, io chiesi tempo per studiare le sue abitudini». L’ex ministro Calogero Mannino è imputato di violenza a corpo politico dello Stato e ha scelto di affrontare il processo con rito abbreviato. «Circa venti giorni dopo l’attentato a Falcone – va avanti Brusca – Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Mi fece capire che era andato a finire da Nicola Mancino». Altro imputato nel processo sulla trattativa, con l’accusa di falsa testimonianza. Poi arrivò la strage di Capaci: «Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo si rivolse a me e mi diede quel compito: mi disse di impiegare mille chili di esplosivo».

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