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L’ultimo discorso del Peggiore

Ci siamo fatti forza, contravvenendo ai consigli che ci dava il fisico e la mente, e abbiamo ascoltato i “messagio di capodanno” di quel signore che sta sul Colle.

Un vecchio stanco, incapace di prendere atto che il suo giochetto politico gli si sta sfarinando tra le mani, curvo per leggere sul “gobbo” le frasi che ha dettato poco prima ma che evidentemente “non sente”. L’ultimo -speriamo – discorso di capodanno di Giorgio Napolitano è stato un elenco di situazioni che andavano menzionate per dovere istituzionale (terremoto, alluvione, carceri, disoccupazione, esodati, “terra dei fuochi”, ecc), per convinzione ed equilibri d’apparato (i due marò, le missioni all’estero,ecc), ma senza più una prospettiva.

 

Resta solo l’Unione Europea – il vero potere che sta sostituendo quelli “provinciali”, come il suo – e “gli sforzi fatti” che “non vanno dispersi”; anche se “i benefici” non si vedono da nessuna parte, se si esclude lo spread. Solo lì Re Giorgio vede il “riconoscimento di valori e diritti che qualificano la vita civile”, anche se proprio da lì sta venendo – giorno dopo giorno – lo smantellamento dei diritti e la svalorizzazione dell’esistenza della stragrande maggioranza delle popolazioni del continente.

 

Si nota la preoccupazione derivante dallo squagliamento delle “forze politiche” che dovevano essere i capisaldi del suo progetto: costruire una classe dirigente unita sul “disegno europeo”, britannicamente aritoclata in due soli schieramenti intercambiabili senza turbolenze sistemiche, eliminando tutto quello che non è compatibile con i diktat.

 

Non c’era davvero bisogno di nominare le “tarantelle” di Renzi, il doroteismo di Letta, le tentazioni populiste di un Berlusconi che non vuol scomparire così, il malcontento sociale che sente montare da tutte le parti e a cui lui per primo non ha più risposte da dare. L’annuncio della “crescita” alle porte è risultato così una semplice citazione, subordinata – come sempre, nel suo ragionare pubblico – allo “sforzo comune”, ai “sacrifici necessari”, insomma al rinvio sine die di un barlume di speranza.

 

Il centro del suo discorso è così rimasto banalmente “interno al palazzo”. No alla “guerra di tutti contro tutti”, sì alle “riforme procedurali” e ai regolamenti di Camera e Senato per evitare altre figuracce coome quella sul “decreto salva-Roma”, sì soprattutto a un peso maggiore dell’esecutivo a scapito del Parlamento, sì alle “riforme costituzionali che chiedono i cittadini” (è riuscito a non arrossire pronunciando questa falsità assoluta). Ben consapevole che l’unica voce dal basso che può trovare ascolto nel suo palazzo è il taglio dei “costi della politica”, naturalmente declinata nel mantra “sacrifici per tutti”; perché – in effetti – se la politica “nazionale” non più nulla da immaginare e da fare (a quello ci pensa la Ue insieme a Bce e Fmi), e tantomeno un legame con le classi sociali da mantenere (la “rappresentanza”, nel nuovo schema del potere continentale, può essere solo fittizia), non ha nemmeno più senso mantenere “corpi intermedi” pletorici, avidi, corrotti, improduttivi. Vale anche per i sindacati complici, naturalmente…

 

Ma l’unica arma che è rimasta in mano a Napolitano sono a questo punto le sue dimissioni. Ha ribadito la disponibilità-volontà di farsi da parte il prima possibile, legando la sua uscita dal Colle alla stabilizzazione del quadro politico da lui stesso progettato. O, più probabilmente, allo sfacelo di quel castello di carte.

 

Su questo, nei prossimi mesi, ci sarà da divertirsi. La “rottamazione” della vecchia classe politica sta portando in superficie un verminaio di “furbetti del quartierino” cresciuti come portaborse, rigorosamente privi di idee proprie ma determinatissimi a farsi largo prendendole a prestito dalla Troika. Ma proprio per questo nessuno di loro ha le qualità – o la statura – per emergere stabilmente dal mucchio. La “guerra di tutti contro tutti”, in questo gallinaio, sarà una condizione perenne. Almeno fino alla catastrofe…

 

Napolitano forse se n’è accorto, ma ovviamente non può dirlo; forse neppure ammetterlo (sarebbe l’ammissione del suo stesso fallimento). Può solo far balenare lo spettro destabilizzante delle sue dimissioni. Ma, come tutte le minacce, prima o poi diventano un’arma spuntata. E a quel punto dovrà darle davvero.

 

È stato l’ultimo discorso, il peggiore di uno dei peggiori uomini di potere.

 

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