Della serie: ve ne siete accorti adesso? Quando i moralisti mainstream scrivono certi articoli smbra di vederli cadere dal pero improvvisamente.
Prendiamo ad esempio ancora una volta dal Corriere della Sera – il primo giornale nazionale, il “termometro” dello stato di salute della borghesia italiana (per quel che ne resta) e fermiamoci sul solito pezzo magistralmente scritto da Gian Antonio Stella, cui spetta insieme al Rizzo l’onore e l’onere di aver imposto il termine “casta” per indicare “i politici”. Onore, perché il successo è stato clamoroso; onere, perché ha deformato fino all’incompensibile lo specchio attraverso cui la società italiana si guarda. Con quella parola, infatti, o si è “dentro” la casta dei “politici” o se n’è fuori. Chi è dentro è un delinquente, chi è fuori è una persona per bene.
Poi ti scoprono che una normale imprenditrice dell’immobile si era “dimenticata” di dichiarare al fisco 2 miliardi di euro (miliardi, non milioni, comunque tanti) e chi ragiona con quello schemino bipolare non sa più come inquadrare i fatti. E non basta davvero ricordare che quella signora è l’ex compagna del furbissimo Bruno Tabacci, quello con più aplomb tra tutti gli “anticasta”, pur proveniendo da quella culla “castista” che era la Dc. La signora evadeva in proprio, sulle sue proprietà, non per conto del compagno.
Il tema del giorno di Stella è intrigante e un po’ manettaro, come già altre volte. Come mai – si chiede – in Italia ci sono così pochi detenuti per reati fiscali, se abbiamo il 33,6% di economia “in ombra” e un’evasione fiscale da centinaia di miliardi l’anno?
Perché abbiamo una legislazione, e quindi un’attività giudiziaria, “di classe”, potremmo rispondere. Ma appariremmo terribilmente “ideologici”, anche se la realtà sta lì a dire che la ragione essenziale, “strutturale”, è proprio quella. Del resto, se abbiamo avuto addirittura un pluri-presidente del consiglio che poteva permettersi di giustificare gli evasori fiscali – essendone probabilmente il principale referente elettorale – significa che “la cultura diffusa” del paese considera questo tipo di reati poco più che bagatellari; o, appunto, “giustificati” da un non precisata ma riconosciuta “necessità di autodifesa”. In certi casi persino veritiera (conosciamo diversi artigiani che proprio non ce la possono fare, se pagano tutte le tasse dovute).
Come sempre, però, “la fattispecie” del reato, in astratto, non consente di illuminare la realtà nei suoi dettagli. Un conto è infatti l’artigiano dell’esempio – per il quale due o cinquemila euro l’anno fanno la differenza tra lo “starci dentro” con spese e reddito oppure “finire sotto” – un altro è la signora Armellini, dall’alto dei suoi due miliardi sottaciuti al fisco pur avendone la proprietà registrata.
Non c’è solo una differenza di dimensione (miliardi contro migliaia), ma una voragine dai molti anfratti. Si può infatti dire con certezza che le proprietà della signora Armellini dovevano essere ultranote al fisco (le proprietà immobiliari sono tutte registrate all’Agenzia delle entrate), e quindi la sua impunità doveva necessairamente discende non solo da “dichiarazioni infedeli”, ma soprattutto dalla certezza di non subire controlli. Il che chiama in causa la possibile corruzione di qualche alto dirigente…
Insomma: questa signora fa parte della “casta” a pieno titolo. O, come preferiamo dire noi, della “classe dirigente”, che si chiami borghesia o con altri nomi.
E questa “classe dirigente” non è affatto “capitalisticamente compatibile”. Non ama il rischio di impresa, vive di appalti e forniture all’amministrazione pubblica, si scatena soltanto per affari “sicuri” – a partire dall’immarcescibile “palazzinaro” che si fa cambiare a suon di mazzette il piano regolatore -, si sottrae al fisco non ritenendo che “lo Stato” si debba impicciare dei suoi affari e del modo in cui accumula ricchezze. Si atteggia addirittura a vittima quando le cose vanno economicamente male e strizza l’occhio al primo forcone di pasaggio.
Altrove non è così, lo sappiamo. Né in Francia, né in Germania, e tantomeno nella patria del capitalismo di stampo anglosassone, gli Stati Uniti. Non che in questi posti scarseggino i truffatori all’italiana – guardatevi Il lupo di Wall Street, per farvi un’idea di come funzionino le società di brokeraggio – magari su scala ancora più grande. Ma allo Stato – borghese, s’intende – ogni imprenditore riconosce il diritto di mettere sotto controllo la correttezza legale dei propri affari. Non mancano gli ufficiali giudiziari corrotti, né i capitalisti corruttori; ma quando vengono scoperti, pagano. Tanto. Stella cita Jeff Skilling e il caso Enron, dimenticando uno dei migliori amici e finanziatori di George. W. Bush, quel Ken Lay presidente e amministratore delegato di Enron. Quando la società andò in bancarotta e ne fu riconosciuta la natura fraudolenta, finì in carcere e ci restò fino all’infarto conclusivo. Nemmeno Bush provò a muovere un muscolo per difenderlo; e non stiamo certo parlando di un santo attento ai valori della Costituzione…
Ecco. Se Stella vuole una buona idea per fare pulizia nella borghesia italiana, per ricostruire il senso civico negli imprenditori e “il senso dello Stato” nei vertici della pubblica amministrazione, gliene diamo una noi, assolutamente “riformista” e niente affatto “rivoluzionaria”: ripristiniamo la galera per debiti societari e il falso in bilancio, oltre che per l’evasione fiscale.
Che lo Stato lasci stare chi resiste alla costruzione della Tav o quei disperati che si ostina a chiudere nei Cie; si occupi di questi reati che ci costano centinaia di miliardi di euro in meno nelle casse pubbliche. Rimettiamo la galera per debiti… Possiamo discutere della soglia minima oltrre la quale scatta l’obbligo degli arresti, in modo da risparmiare l’artigiano dell’esempio e non ingolfare oltre misura i tribunali. Ma rimettiamola, Gian Antonio… Accompagnata ovviamente dall’impossibilità dell’imprenditore fellone di tornare “a delinquere”; ossia di creare nuove imprese e ripetere il vecchio trucco. Una volta scontata la pena, potrebbe comunque fare l’operaio, l’impiegato (ma non in contabilità è ovvio), il badante…
Come dici? Non resterebbe un solo imprenditore a piede libero in questo paese? E neppure un dirigente della pubblica amministrazione? E neanche un politico dei partiti maggiormente rappresentativi che pretendono il monoolio del Parlamento? E persino pochi giudici e poliziotti in grado di lavorare? E magari anche pochi giornalisti?
E ti sembra un risultato disprezzabile?
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Pochissimi de tenuti per reati fiscali. L’Italia non punisce, la Germania sì
Nelle nostre carceri i detenuti 55 volte meno che in quelle tedesche. Da noi solo lo 0,4% dietro le sbarre. Nella Ue il 4.1 %
Gian Antonio Stella
È solo una coincidenza se la Germania, il Paese di traino dell’Europa, ha le galere più affollate di detenuti per reati fiscali ed economici? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno? Non inciderà anche questo, sulle scelte di chi vuole investire in un Paese affidabile? È interessante mettere a confronto, dopo le denunce della Guardia di Finanza sulla stratosferica evasione fiscale italiana e lo scoppio dell’«affaire Angiola Armellini», i numeri del rapporto 2013 dell’«Institut de criminologie et de droit pénal», curato dai docenti dell’Università di Losanna Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande, sulle statistiche del vecchio continente più alcuni Paesi dei dintorni come Azerbaijan e Armenia.
Tanto più che non arriva mai in porto quella benedetta delega al governo, attesa e rinviata da anni, perché adotti «entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale» con un inasprimento delle pene compreso il ripristino delle manette.
Dice dunque la tabella a pagina 96/97 di quel rapporto, dedicata alla ripartizione per tipo di reato dei detenuti condannati con sentenza definitiva (dati 2011) che nelle nostre carceri solo 156 persone, cioè lo 0,4% della popolazione dietro le sbarre, è lì per avere violato la legge in materia di criminalità economica e fiscale. Una percentuale ridicola. Tanto più rispetto alla media generale europea del 4,1%: il decuplo.
Per non dire del confronto con due Paesi da sempre additati come paradisi fiscali o comunque assai ospitali nei confronti della finanza di moralità elastica. Dei detenuti del principato di Monaco, dove il 38% è dentro per furto e il 15% per stupro o aggressioni sessuali, il 23% è stato condannato per reati economici e finanziari. E questa quota sale addirittura, nel Liechtenstein, al 38,6%.
Scrisse il grande Angelo Brofferio, poeta piemontese amato da papa Francesco, «Guai a col ch’a s’ancaprissia / ëd volèi giusta la giustissia!», Guai a colui che s’incapriccia / a voler giusta la giustizia. Parole amare. Ma giuste. Basti pensare alla sproporzione tra la condanna a 9 mesi di quel senegalese incensurato che, licenziato, aveva rubato al supermercato due buste di latte in polvere per il figlioletto e certi verdetti di manica larga. Un mese di carcere convertito in 1.500 euro di multa per aggiotaggio a un operatore finanziario dell’Umb, recidivo. Quattro mesi convertiti in 6 mila euro a due suoi colleghi di City Bank. Quattro mesi per insider trading al finanziere bresciano Emilio Gnutti. Due anni ma condonati al figlio di Licio Gelli, Raffaello, per bancarotta fraudolenta. Uno in meno di quelli che rischia l’immigrato etiope El Israel, rinviato a giudizio per aver colto un fiore per la fidanzata «spezzando i rami di un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa con l’aggravante di aver commesso il fatto su un bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede».
Fatto sta che nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto, il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false. Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, «plebei».
È la conferma di una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: «I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada “Oddio, c’è il falso in bilancio!” ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore». Sarà… Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri si sono pressoché dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del 2001 all’1,2% di oggi?
Non va così, dalle altre parti. Se da noi i galeotti per reati economici sono un trentacinquesimo di quelli per rapina e un novantanovesimo di quelli per droga, nelle carceri tedesche l’ordine delle priorità è ben diverso.
Evidentemente il famoso «giudice a Berlino» invocato dal mugnaio di Bertold Brecht considera lo scippo agli azionisti di qualche milione di euro più grave dello scippo di una borsetta sul bus. Certo è che in Germania i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari: 8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più.
È’ un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del rispetto delle regole. Certo, ci sono anche lì truffatori e bucanieri della finanza e bancarottieri ed evasori. Ovvio. Quando li beccano, però, tintinnano le manette. Un caso per tutti? Quello di Klaus Zumwinkel: come amministratore delegato aveva fatto di «Deutsche Post» un gigante mondiale. Il giorno che l’accusarono di evasione fiscale aggravata, però, non gli fecero una garbata telefonatina per invitarlo a presentarsi in ufficio. No, per dimostrare che lì la legge è davvero uguale per tutti, decine di agenti della polizia tributaria, la Steuerfahndung, circondarono la sua lussuosa villa a Colonia e fecero irruzione all’alba. Né alcuno osò accusare Angela Merkel di avere istituito uno «Stato poliziesco».
Lo «spread» tra la nostra quota di detenuti per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è vistoso non solo nei confronti della Germania. In rapporto agli abitanti, i «colletti bianchi» incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino all’abisso che ci separa dai tedeschi. E i francesi? Il dossier degli studiosi svizzeri non offre dati ufficiali esattamente coincidenti. Il sito web del ministero della Giustizia parigino, tuttavia, dice che nell’ottobre 2013 c’erano nei penitenziari d’oltralpe 4.969 detenuti per «escroquerie, abus de confiance, recel, faux et usage de faux» vale a dire frode, abuso d’ufficio, occultamento, falsificazione e uso di falsi.
Reati da colletti bianchi. Colpiti da leggi molto più severe della nostra, come in tutti i Paesi seri.
Quanto all’America, basti ricordare il solo Jeff Skilling, il potentissimo amministratore della Enron e principale finanziatore di George W. Bush che arrivò a guadagnare in un anno 132 milioni di dollari. Accusato della bancarotta della società, è stato condannato a 24 anni di carcere. Il pigiama color arancione della prigione di Waseca, nel Minnesota, potrà toglierselo solo nel 2028…
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