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17 febbraio 1977. Da Lama a Renzi

Giorni che cambiano la Storia, anche se poi non hanno segnato una vittoria duratura. Ma non fa niente. Il 17 febbraio 1977 è il giorno in cui la sinistra rivoluzionaria italiana si affranca per sempre dalla “tutela burbera” del Pci. Essere comunisti e rivoluzionari, da quel giorno e in Italia, volle dire esser fuori da quel partito. Non passò molto tempo e volle dire esser fuori anche dal sindacato che ne rappresentava la “cinghia di trasmissione” sul terreno del conflitto sui posti di lavoro. Essere alternativa a tutto campo, non “dissidenza” riottosa dentro lo stesso schema.

Molta acqua è passata sotto i ponti, non solo quelli di Roma. Il mondo non è più “diviso in due”, per la scomparsa – causa sconfitta storica – di quel “socialismo reale” che funzionava per il Pci come “assicurazione di alternatività” rispetto al capitalismo, anche mentre si gestivano holding “cooperative” o si invitavano i lavoratori a cessare dal “pretendere l’impossibile” dal padronato italiano. Il mondo è uno e lo comandano le multinazionali e la finanza globale, molto più dei governi. Anche qdi quelli molto potenti.

Quel partito oggi non c’è più. Chi oggi è salito al Quirinale – per ricevere l’incarico di formare un governo che sconquassi definitivamente quel poco che resta del “modello sociale” conquistato in 70 anni di lotte sociali, disegnandone uno opposto – in quel partito non c’è mai stato, anche se ne ha ereditato strutture e funzionari e partecipazioni societarie. Viene al contrario dalla Dc, area Ciriaco De Mita, ovvero dall’altra parte dell’ipotetica barricata che veniva saldata insieme in quegli anni con il “compromesso storico”.

In questo rovesciamento totale sta forse il segno più preciso di quanta acqua sia passata sotto i ponti, esondando spesso fino a stravolgere il panorama della “sinistra”, sommergendola sotto una coltre di fango che si va seccando.

Il tempo è passato anche per l'”autonomia di classe”, germogliata poi nelle forme del sindacalismo di base (ereditandone interamente anche la litigiosità interna), nei rami collaterali e territoriali dei centri sociali, nei ricorrenti movimenti generazionali che si sono accesi e spenti nel giro degli ultimi 30 anni. Con la cesura culturale della “Pantera” e con la nuova cesura – decisamente più positiva – dei movimenti presenti. Parole e slogan possono anche somigliarsi, a volte. Ma non significano più le stesse cose, non indicano più gli stessi percorsi.

Tanto per dirne una: nessuno, oggi, può permettersi di giocare con la contrapposizione “garantiti” e “non garantiti”. Oggi la precarietà è per tutti; la condizione di disoccupazione un periodo più o meno lungo tra un lavoro precario e l’altro. Quanti ancora possono vantare un contratto “a tempo indeterminato” – compreso il pubblico impiego – privi della tutela dell’art. 18, sanno benissimo di essere una specie in via di estinzione. A meno di non invertire conflittualmente la tendenza.

Cosa significa? Che la Storia non si ripete, che oggi “il mondo del lavoro” non è scomponibile e non va scomposto (a questo ci pensano già Stato e imprese), ma riunificato, per quanto immense possa apparire le differenza tra un settore e l’altro, tra una figura sociale e l’altra. Che oggi non c’è una “battaglia degli esclusi” che debba o possa distinguersi e contrapporsi, se necessario, alla “maggioranza degli inclusi”. Per due ragioni: quegli “inclusi” non lo sono più davvero e sono sempre meno. Al massimo tacciono, ma non sono mobilitabili “contro” la rivolta sociale. Anzi…

L’elemento fondamentale che è cambiato è però strutturale, storico, decisivo: è scomparsa la mediazione sociale e politica.

Nel ’77, in piena “guerra” tra Movimento e Stato, tra spari in piazza e centinia di arresti, tra blindati sulle folle e morti che ne chiamavano altri, fu messa in opera dallo Stato anche una articolata opera di “mediazione sociale”. Allora videro la luce la “legge 285”, vennero finanziati ammortizzatori sociali che oggi chiameremmo “reddito di cittadinanza” (chi ricorda la “lista delle acque”, a Roma, sa che si trattava di reddito distribuito ad alcune migliaia di giovani in cambio di un'”attività” fattualmente inesistente). La “mediazione sociale” – in effetti – si fa con la spesa pubblica.

Ma tagliare la spesa pubblica oggi è il primo e fondamentale obiettivo di ogni governo continentale. Di conseguenza, i margini della “mediazione sociale” scompaiono.

Oggi comanda l’Unione Europea, uno Stato senza procedure di legittimazione democratica, senza potere legislativo indipendente dall’esecutivo (le “leggi” le fa la Commissione). E l’amministrazione statuale italiana ne sta ricalcando anche istituzionalmente le mosse: la “riforma elettorale” di Renzusconi e l’abolizione del Senato sono una fotocopia perfetta della rottura praticata, a libello Ue, con due secoli di di “democrazia liberale borghese”.

Questo l’avversario con cui si confronta ogni pur piccola resistenza sociale, comunque motivata soggettivamente, qualunque “orizzonte culturale” condividano le persone o i gruppi che l’animano.

La giornata del febbraio ’77 ci dice soltanto che lottare si può e vincere anche. Basta non pensare a come vincere soltanto un giorno. Il peso delle ragioni della classe, della sua organizzazione, della teoria politica e della pratica conflittuale, sta oggi tutto sulle nostre non granitiche spalle. Il nemico ha assunto le dimensioni di una macchina multinazionale “almeno continentale”; da quest’altra parte ci sono tanti soggetti, quasi sempre confinati nel “locale” in senso geografico, sociale, addirittura a volte solo esistenziale. Non è una buona posizione, ma hic Rhodus, hic salta!

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Una riflessione un po’ diversa, fatta sulla stessa ricorrenza, da parte dei compagni di Infoaut.

E’ il 17 febbraio 1977, il giorno scelto da Pci e sindacato per dare una sferzata che lasci il segno a quel movimento di estremisti che ha occupato la Sapienza di Roma.Hanno deciso che il segretario della CGIL, Luciano Lama, andrà a parlare in università. Dalle 6 del mattino tra servizi d’ordine di fgci, Pci e vari funzionari sono quasi in duemila; tutti in permesso sindacale per andare a difendere il loro segretario. Bloccano le entrate per non far passare nessuno, e cominciano a cancellare le scritte dai muri. Lama, protetto dai poliziotti di partito, inizia a parlare da un furgone, amplificato da un impianto a 20.000 watt. Assordante, e che non permette replica.

Perché questa scelta? Perché gridare in università che il movimento è composto di fascisti, e sbandierare il vessillo “della politica dei sacrifici” nella casa del “tutto e subito”? Diverse sono le interpretazioni. Chi del Pci ricorda quell’evento, parla di una leggerezza politica, di un errore di analisi, di non aver compreso che in università non c’erano piccoli gruppi autonomi, ma un movimento che già allora avrebbe salvato ben poco dell’esperienza pcista. Ma forse è più saggio pensare che all’interno della dirigenza si volesse cauterizzare quella ferita che il movimento aveva aperto nella base sociale del partito, sospingendo “quelli del ’77” su posizioni radicali che ne limitassero il contagio.

Ben prima di quel giorno si era cercato ghettizzare, isolare e rinchiudere il movimento in università; poi di presentare il Pci come il solo portatore reale dell’interesse di classe, e quindi l’unico legittimato a rappresentarla; dopo la cacciata di Lama si decide che nel movimento ci sono i buoni e gli autonomi.

La mattina del 17 febbraio, studenti e lavoratori dei collettivi fronteggiano il servizio d’ordine di Lama. L’aria è tesa, scandita dal coro “sa-cri-fi-ci!” degli indiani metropolitani, che hanno issato un fantoccio del segretario della CGIL con scritto “nessuno lama”. E poi succede, anche se nessuno nell’assemblea del giorno prima se lo sarebbe potuto aspettare.

“Ci fu uno sciocco servitore del servizio d’ordine del Pci […] che brandiva un estintore enorme e stupidamente cominciò a scaricarlo sugli studenti… Quello fu il segnale per mandarli affanculo definitivamente.” (V. Miliucci in un’intervista a C. Del Bello, nel libro collettivo “Una sparatoria tranquilla”, Odradek).

Succede che Lama è costretto a correre giù dal furgone e darsela a gambe, incalzato dall’attacco dei compagni. C’è chi se lo ricorda sconvolto e sudato, preoccupato di venire catturato dagli autonomi.
Il capo delle “giubbe blu”, del legittimo e regolare esercito di classe, messo in fuga dagli “indiani”, dai dissidenti, dalla classe.

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn,
Capelli Corti generale ci parlò all’università,
dei fratelli “tute blu” che seppellirono le asce.
Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace.
E a un dio “fatti il culo” non credere mai.

Coda di lupo _ F. De Andrè

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